2023-03-10
Il depistaggio dell'archiviazione di Conte
Giuseppe Conte e Roberto Speranza (Ansa)
La decisione dei giudici di Roma non c’entra nulla con il filone bergamasco. I media però esultano, l’obiettivo è insabbiare tutto.«Archiviati» con tre punti esclamativi. L’entusiasmo diffuso per il raffermo non luogo a procedere del tribunale dei ministri nei confronti di Giuseppe Conte e Roberto Speranza ha qualcosa di posticcio. I lucciconi che imperlano le guance di conduttori di talk show che non distinguerebbero un rinvio a giudizio da un rinvio del portiere fanno tenerezza perché la notizia del giorno a reti unificate è un depistaggio: l’archiviazione romana è vecchia di due anni, risale al maggio 2021, riguarda tutt’altro e rappresenta un salvagente sgonfio lanciato dagli amici all’ex premier. La sentenza si riferisce a denunce approdate al tribunale dei politici a pandemia in corso da parte di privati cittadini, associazioni come il Codacons, sigle sindacali, movimenti come i gilet arancioni. I firmatari degli esposti ritenevano il Covid «un evento di modesta letalità», contestavano la decretazione d’urgenza e chiedevano che venissero accertate «violazioni penalmente rilevanti dei diritti civili, sociali ed economici dei cittadini». Per questo fra gli accusati c’erano anche altri ministri come Luciana Lamorgese, Alfonso Bonafede, Lorenzo Guerini, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri. La decisione dei giudici riesumata ieri dai cassetti di redazione non ha niente a che vedere con l’inchiesta di Bergamo. Non è difficile constatare che qualche esposto (accorpato per affinità tematica) di comitati delle vittime, associazioni e cittadini spaventati ha un peso specifico ben differente da quello di atti giudiziari di una Procura della Repubblica contenenti numerosi profili di reato. Alcuni circostanziati e altri - come l’epidemia colposa - obiettivamente fumosi. In ogni caso è interessante cogliere nella decisione del tribunale dei ministri l’essenza di quell’archiviazione del 2021: «Quelle scelte sono ritenute di carattere politico, quindi da sottrarre alla magistratura». Il miglior viatico alla commissione parlamentare d’inchiesta. Eppure tutti a esultare strumentalizzando il fraintendimento. Come in quell’immortale vignetta di Giorgio Forattini dove, scorrendo l’elenco degli appartenenti alla Loggia P2, Pietro Longo trovava conforto nella lettura del nome successivo, quello di Enrico Manca. E gridava esultando: «B manca! Longo manca!». Meglio ribadirlo. Oggi fra gli indagati del procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, l’ex premier e l’ex ministro della Salute ci sono e ci restano. Stanno in cima alla lista degli accusati e nonostante la ola dei giornali compiacenti un giorno dovranno smettere di vantarsi di avere guidato il Paese verso il disastro sanitario. Precisato il contesto si fa largo un timore: sulle responsabilità per i lockdown, la privazione delle libertà, gli abusi di potere, i traffici di mascherine con la Cina, i banchi a rotelle, i piani pandemici mai aggiornati e le menzogne di Stato, tira una brutta aria. S’intuisce la volontà di soffocare nella culla la commissione d’inchiesta. Due singolari coincidenze suffragano il sospetto. La prima: 24 ore dopo il via alla costituzione della commissione è uscita la notizia della fine dell’inchiesta giudiziaria. Traduzione: politici fermatevi, vanno avanti i pm. Prassi molto italiana. La seconda: quando le carte di Bergamo, con il loro peso di accuse politiche e di imbarazzanti conversazioni personali, hanno cominciato a circolare, ecco comparire un’archiviazione di Conte e Speranza spacciata per parallela, un’«insussistenza» a orologeria di denunce mandate a prendere polvere due anni fa. Fumisterie per confondere l’opinione pubblica e far evaporare le responsabilità del governo Conte bis. Roma è maestra nel «buttarla in caciara».Come in una commedia dal copione scontato, il colpo di spugna è suffragato dalle parole dei soliti noti. L’infettivologo Donato Greco (già direttore generale del ministero) definisce «fango mediatico» la pubblicazione degli atti dell’inchiesta di Bergamo e spiega che «una valutazione politica non serve, sarebbe più utile una valutazione tecnica fatta da esperti indipendenti». Il quotidiano La Stampa teorizza che «la Commissione d’inchiesta dovrebbe essere affiancata da un gruppo di esperti nazionali e internazionali di varie discipline, con il compito di fare tesoro delle esperienze vissute». E la virostar Matteo Bassetti torna dalla penombra per tuonare: «L’inchiesta è un gigantesco assist per negazionisti e No vax».Le sinistra dalla doppia morale adora le cortine fumogene. La parola d’ordine è: depotenziare le «responsabilità politiche», dopo averle agitate per tre anni davanti alla faccia di Attilio Fontana e della Regione Lombardia, quando si presumeva che fossero armi elettorali per tentare la spallata al Pirellone. Secondo la narrazione dominante costruita per proteggere Conte, Speranza e le allegre comari in càmice, le «responsabilità politiche» non sono più di moda. Ciarpame, complottismo, «bisogna guardare avanti, signora mia». Su tutto questo fa premio il meno credibile dei filoni: gli scienziati chiamati a giudicare sé stessi. Non ce n’è uno che non chieda, nella commissione, la presenza di «esperti dal profilo internazionale in grado di imparare la lezione e aiutarci a preparare meglio la prossima emergenza». Come se, invece che politica, la commissione dovesse essere sanitaria. Un nuovo Cts che si autoassolve. Composto da chi parlava al telefono con Speranza assicurandolo che avrebbe nascosto i dati? Da chi per due anni ha suonato in tv il refrain del governo per compiacerlo? Da chi si è candidato alle elezioni con il Pd o da chi rivendicava con nostalgico candore i katanga di Mario Capanna? L’esposizione messianica di una sentenza di due anni fa per confondere le acque e assolvere Conte e Speranza ci racconta un finale già visto: far pagare i morti del Covid ai tecnici, ai direttori sanitari locali, ai volti politicamente sacrificabili. Al piantone Jacovacci e al coscritto Busacca; la tragedia della pandemia come La grande guerra di Mario Monicelli. Perché ce lo meritiamo, Alberto Sordi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)