2020-05-15
Il decreto non c’è ancora ma è già superato
Gli interventi in cantiere servono a tappare i buchi di aprile, maggio e metà giugno. A quel punto lo spazio del deficit sarà già finito. Manca una strategia per andare oltre l'estate e ci vogliono altri 200 miliardi per tagliare alle imprese le tasse del 2020.Il testo del decreto non è al momento in Gazzetta. Dunque il Dl Rilancio al momento vale quanto le parole del premier e le promesse diffuse a reti unificate. Poco più di 25 miliardi destinati agli ammortizzatori sociali, circa 16 per sostenere le aziende che non vogliono chiudere, e gli altri 15 miliardi da distribuire a pioggia. Un po' al turismo, un po' allo sport e via a scendere, fino ai monopattini. Pur dando per buona questa lista di interventi e immaginando che il Mef ieri, riprendendo in mano il testo per far quadrare le coperture, non l'abbia stravolto di nuovo, si capisce perché il governo ha così timore della fine del lockdown. Finché staremo chiusi in casa, non ci accorgeremo delle rovine che ci aspettano fuori. Finché non avremo contezza del perimetro della crisi economica, Giuseppe Conte starà al suo posto. Ecco che il Dl Rilancio riflette questa mancanza di strategia, e lascia traspirare dalla gran parte dei suoi articoli una sorta di opportunismo da campagna elettorale. Totalmente fuori luogo. la visioneGli interventi del decreto, infatti, guardano tutti indietro e non avanti. I giallorossi hanno infilato una lunga lista di cerotti che servono a tappare i problemi e a spostare in avanti gli impatti del Covid-19 sull'economia. Quando finirà il lockdown, gli italiani e soprattutto gli imprenditori capiranno che per ripartire serviranno strategie di lungo termine. Mercoledì il numero uno di Fs, partecipata pubblica, ha spiegato che si tornerà ai flussi di fatturato normali non prima del 2022. A indicare che il percorso per la ripresa sarà lunghissimo. Il governo, invece, non solo ha perso un mese per approvare il decreto, ma ha anche già finito le cartucce da sparare. I 55 miliardi complessivi, tutti in deficit, servono a fornire sostegno agli autonomi, alla famiglie e alle aziende per i mesi di aprile, maggio e in parte giugno. L'unica misura che si spinge oltre l'estate è la cassa integrazione. Circa due mesi di copertura (settembre e ottobre) che però non serviranno a granché, dal momento che i giallorossi hanno lasciato un buco a luglio e agosto dimenticandosi di sfilare dal decreto il divieto di licenziamento. Possiamo già stimare che tra agosto e ottobre il nostro Paese rischia la tempesta perfetta. Arriverà l'onda lunga delle chiusure (molte aziende con le nuove condizioni sanitaria non proveranno nemmeno a riaprire), si aggiungeranno i pasticci sugli ammortizzatori sociali e la batosta finale: tutte le scadenze fiscali da pagare. Il tanto sbandierato taglio di imposte si limita a soli 4 miliardi, per giunta a favore di imprese che fatturano tra i 5 e i 250 milioni: le altre imposte sono solo spostate. Come faranno le aziende a pagare tutte le tasse arretrate a settembre? La domanda è retorica, ma va posta. E anche spostare le scadenze a novembre non cambierà nulla. Sembra che il governo insista con il mettere la testa sotto la sabbia. L'altro ieri il Mef ha paventato l'idea di un nuovo decreto per erogare 20 miliardi. Un altro buffetto, ma niente che riesca veramente a disinnescare la valanga che si sta formando settimana dopo settimana. Già a fine marzo, gli industriali avevano redatto un conto spannometrico dei danni al Pil. «Se il prodotto interno lordo è di 1.800 miliardi all'anno vuol dire che produciamo 150 miliardi al mese, se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni 30 giorni», aveva sintetizzato il presidente di Confindustria. La stima è purtroppo ancora valida. In tre mesi il fatturato dell'Italia si è ridotto di 300 miliardi circa e il debito schizzerà ulteriormente. È da qui che bisogna partire per guardare avanti e per capire che al nostro Paese serve una iniezione di tali dimensioni. Al momento gli interventi messi in campo si fermano a 80 miliardi. Mancano 220 miliardi di benzina da rimettere nel motore per farlo partire. Pensare che il motore produca energia da solo è sbagliato. Le tasse vanno tagliate per l'intero 2020. Non c'è alternativa. Così come il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dovrebbe suggerire al governo che le emergenze si affrontano con interventi celeri e non con la burocrazia.Non ci sfugge la necessità dello Stato e del governo di giustificare la propria esistenza amplificando le carte e le pratiche (unica cosa che sa produrre), ma il Covid richiede libertà d'azione e scelte radicali. le imposteLe aziende private senza le tasse salveranno cassa e non dovranno indebitarsi ulteriormente. Siamo consapevoli che senza le imposte il governo non potrà pagare stipendi pubblici o pensioni. Per cui dovrà andare sul mercato e chiedere soldi da usare per la sua spesa corrente. Sappiamo che non è facile. Ma se si continua a tirare a campare come se la pandemia potesse passare senza lasciare cicatrici, potremo solo scoprirci molto più poveri (magari anche per colpa di una enorme patrimoniale) e non più un Paese manifatturiero, ma un mercato in cui i colossi esteri potranno fare shopping e venderci prodotti di prima necessità.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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