Anche i governi Conte e Draghi hanno adoperato lo strumento dell’anticipo di imposta recepito in manovra da Giorgetti. La misura veniva votata da tutti, anche da chi oggi la critica. È cambiata solo l’entità dell’intervento, che vale più di 4 miliardi.
Anche i governi Conte e Draghi hanno adoperato lo strumento dell’anticipo di imposta recepito in manovra da Giorgetti. La misura veniva votata da tutti, anche da chi oggi la critica. È cambiata solo l’entità dell’intervento, che vale più di 4 miliardi.per ben quattro volte. E non ricordiamo che all’epoca nessuno si sia azzardato a parlare di «solito gioco delle tre carte» (Elly Schlein), di «imbroglio» (Giuseppe Conte), di «truffa» (Nicola Fratoianni), di «bluff» (Irene Tinagli) o a ipotizzare che le banche «li recupereranno sui correntisti» (Carlo Calenda). In momenti diversi e con altri governi, tutti loro hanno votato una norma sostanzialmente identica.Infatti, Giorgetti e Leo hanno riutilizzato un arnese vecchio e piuttosto rozzo e, questa volta con molto più coraggio dei loro predecessori, hanno fatto cassa sulle banche. Tutto parte dalla impossibilità per gli istituti di dedurre immediatamente alcune voci di costo (svalutazioni e perdite su crediti, avviamenti, costi emersi cambiamento di principi contabili), la cui deducibilità viene però dilazionata nel tempo. Nell’immediato, quindi le banche versano maggiori imposte che saranno recuperate poi negli anni successivi, scaglionati secondo un calendario ben definito. Per questo motivo le banche iscrivono in bilancio un credito per imposte anticipate, perché di questo si tratta.Ma dal dicembre 2018, in occasione della legge di bilancio del governo Conte 1, l’esigibilità di quei crediti è stata posticipata una prima volta. Stessa identica cosa ha fatto il governo Conte 2 a dicembre 2019 per la legge di bilancio 2020. Non è stato da meno il governo di Mario Draghi nel marzo 2022 e, da ultimo, quello di Giorgia Meloni nel dicembre scorso, replicando il medesimo copione dei tre governi precedenti. Ogni volta, in misura diversa a seconda delle esigenze di cassa, posticipare l’incasso di quei crediti per imposte anticipate ha costituito il «bancomat» a disposizione del governo per mettere a bilancio entrate aggiuntive.Anzi, Giorgetti e Leo ci hanno pure messo un ulteriore carico. Limitarsi a impedire alle banche di dedurre alcuni costi che si trascinavano dal passato avrebbe generato da solo un gettito di 3.373 milioni. Per aumentarlo ancora di 695 milioni, hanno impedito alle banche di considerare in deduzione perdite pregresse ed eccedenze Ace (Aiuto crescita econonica, ndr) che quindi resteranno «pendenti» in attesa di miglior sorte. Anche in quest’ultimo caso, il diritto alla compensazione resta e le banche non rilevano alcun costo aggiuntivo, solo che non è noto quando potranno farlo, e tanto basta per aumentare le entrate di bilancio.Quindi nulla di nuovo, se non l’entità dell’intervento. Anzi, proprio il fatto che quei crediti delle banche siano stati oggetto di ripetuti interventi nel tempo, tutti dilatori del diritto degli istituti di passare all’incasso, costituisce il più solido argomento contro la tesi del «prestito» delle banche allo Stato. Poiché le regole di contabilità pubblica non le scrivono Schlein, Conte o Fratoianni, ma sono uniformi a livello Ue e le detta Eurostat, quei maggiori versamenti delle banche costituiscono entrate dello Stato a tutti gli effetti e quindi, evidentemente, non sono un prestito. E quello che accadrà nel 2027 - quando teoricamente le banche potrebbero tornare a dedurre quei costi oggi rinviati e quindi incassare i crediti - non è affatto scontato, proprio perché non è escluso si ripeta il copione. La particolarità tecnica sta nel fatto che tutto ciò non impatta sui conti economici delle banche, e quindi sugli utili e sulle valutazioni di Borsa. Infatti gli istituti di credito espongono le imposte rilevando sia le imposte «correnti», cioè quelle che si calcolano sui ricavi imponibili e sui costi deducibili, sia quelle «anticipate» o «differite». Quelle anticipate diminuiscono quelle correnti (più alte per effetto della temporanea indeducibilità di alcuni costi) e quindi il conto economico non risente di questi temporanei disallineamenti.Che non si tratti proprio di una «carezza» per le banche è confermato dai dati. Esaminando le prime sei banche per capitalizzazione, al 31 dicembre 2023 mostravano crediti per imposte anticipate (parte dei quali trasformati in crediti di imposta) per circa 25 miliardi, contro i 28 miliardi dell’anno precedente. In alcuni casi, come il Banco Bpm, quei crediti costituivano il 40% della capitalizzazione di Borsa. Un’incidenza molto significativa, appena superiore a quella, anch’essa comunque rilevante, mostrata da Intesa Sanpaolo e Unicredit. Nel 2023, aspetto ancora più significativo, quelle sei banche erano riuscite a recuperare circa 5,6 miliardi di quei crediti e interrompere quel processo di recupero non ha certamente fatto piacere al comparto. Anche per l’elementare principio che un euro di credito fiscale esigibile oggi vale certamente meno se esigibile a partire dal 2027.D’altra parte è doveroso ammettere che siamo lontani da un’imposta sugli extraprofitti, ammesso e non concesso che dal governo qualcuno abbia mai parlato ufficialmente di tale strumento, dopo l’esperienza dell’agosto 2023. Perché non bisogna dimenticare che le banche già pagano un’addizionale Ires del 3,5%, che si somma all’ordinaria aliquota del 24%, quindi ovviamente maggiori profitti producono già maggiori imposte per lo Stato. Premesso che il concetto di «extraprofitto» ha una sua definizione sia giuridica che economica, sarebbe stato possibile intravederne forse i requisiti nel 2022-2023, ma non nel 2024. Infatti allora si realizzò quel cattivo funzionamento del mercato dei depositi e della raccolta, che consentì alle banche di aumentare subito i tassi sui prestiti e non aumentarli affatto sui depositi, dove grazie alla liquidità offerta dalla Bce, gli istituti non avevano bisogno di contendersi i depositi rialzando i tassi. Una vera manna caduta dal cielo, senza che le banche avessero fatto nulla per meritarsela. Oggi non esiste il fondamento giuridico, prima ancora che economico, per considerare i profitti delle banche meritevoli di essere incisi con un’aliquota (temporanea) ancora più alta. Se Giorgetti ci avesse comunque provato, si sarebbe probabilmente schiantato contro la Corte Costituzionale e gli stringenti vincoli fissati con la sentenza 10 del 2015 che dichiarò l’illegittimità della «Robin Hood Tax». Allora meglio percorrere la strada vecchia seppur tortuosa, che la nuova che conduceva dritta al burrone.
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