2022-09-03
Il conto della guerra del gas: 70 miliardi
(Sean Gallup/Getty Images)
Le sanzioni contro Mosca non hanno causato fin qui il collasso dell’economia russa. Intanto, la differenza tra le stime di crescita del 2021 e i dati di quest’anno mostrano che abbiamo già pagato un prezzo salatissimo. Che potrebbe bruciare altri 95 miliardi. Dal G7 tetto al petrolio, l’Ue parla di quello al metano. Gazprom ferma i flussi per guasto: disastro. Ci hanno illuso che sarebbero bastati pochi gradi di condizionatore per ottenere la pace. Ci hanno ancor più illuso che ci fosse una sola guerra, quella combattuta con le armi. E che le sanzioni adottate da marzo fossero utili e sufficienti per forzare la Russia a cessare il conflitto, un perfetto sostitutivo delle armi convenzionali. Invece, dobbiamo prendere atto del confermarsi di una antica regola: le guerre terminano quando si distrugge militarmente il nemico o lo si costringe in qualche modo ad un negoziato che fa cessare il fuoco. Ci guardiamo bene dal fare i turisti della geopolitica, avventurandoci nell’analisi delle probabilità dei suddetti scenari e ci concentriamo sull’altra guerra, quella sul fronte economico. E qui ci sono interi punti di Pil che si sciolgono come neve al sole, sia per noi che per la Russia. Con l’essenziale differenza che i russi appaiono autosufficienti e potrebbero reggere molto a lungo, mentre noi ci affrancheremo da loro nel 2024, a patto di arrivarci vivi. Intanto, possiamo solo subire l’unica soluzione che ci viene prospettata: la distruzione di domanda e reddito che viene abilmente presentata sotto la voce «risparmi». Da ieri pomeriggio - con l’annuncio da parte di Ursula von der Leyen della necessità di imporre un tetto al prezzo del gas russo, seguito dal comunicato di Gazprom che ha arrestato il flusso attraverso il gasdotto Nord Stream 1 - sono di estrema attualità i peggiori scenari circa i tagli ai consumi, necessari per riequilibrare domanda ed offerta. È il momento di fare due conti anche in casa nostra e capire i costi che abbiamo già sostenuto e, soprattutto, quelli che potremmo sostenere in conseguenza del probabile avveramento dello scenario peggiore di questo conflitto combattuto su un fronte diverso, con l’obiettivo immediato di danneggiare seriamente l’economia russa e sottrarle le risorse per continuare la guerra sul campo. Sul fronte economico le armi sono diverse e subdole. Da un lato, i sette pacchetti di sanzioni decise dalla Ue da marzo fino a luglio scorso - dal sequestro delle riserve della banca centrale di Mosca all’esclusione delle banche dal circuito Swift - dall’altro, l’evidente manipolazione dei flussi di gas esportati dalla Russia al fine di creare tensioni sui prezzi e una, ormai prossima, carenza fisica della materia prima, con conseguente arresto o rallentamento di molte attività produttive dei Paesi occidentali. I dati che abbiamo disponibili sull’andamento dell’economia russa (pur parziali) ci inducono a ritenere quantomeno affrettato quanto dichiarato dal segretario del Pd, Enrico Letta, lo scorso 5 marzo secondo il quale «le sanzioni porteranno l’economia russa al collasso». Il Fmi a luglio ha addirittura previsto un miglioramento del Pil russo rispetto alle precedenti previsioni. Nel 2022 segnerà un -6% e nel 2023 un -3,5%. Non esattamente un collasso. Soprattutto se affianchiamo a quei dati quelli della crescita della bilancia commerciale con l’estero e la relativa facilità con cui la Russia sta cercando e trovando canali alternativi per la vendita di petrolio e gas. Nel frattempo, i dati sul nostro Pil, ci dicono che sotto le bombe (economiche) ci siamo noi e ci siamo avventurati in una guerra armati di fionde con ciabatte e secchiello in testa, sottovalutando gravemente la capacità di resistenza della Russia e l’impatto sulla nostra economia. Con l’aggravante specifica che, secondo il Fmi, nel 2023 saremo i più colpiti in termini di mancata crescita, perché più vulnerabili anche della Germania. Per avere una dimensione almeno approssimata dei danni già subiti e di quelli, ben superiori, che potremmo ancora subire, dobbiamo partire dai dati di crescita del Pil dell’autunno 2021, presenti nella Nadef (la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza) e nelle previsioni della Commissione. È quello il tempo zero, da cui fare partire i calcoli. In quei mesi già si incorporavano le tensioni gravanti sui prezzi di elettricità e gas, ma nulla di più. E tuttavia si ipotizzava ancora una crescita del 4,7% e del 2,8% rispettivamente per il 2022 e 2023. A novembre, la Commissione presentava le sue previsioni con il titolo trasudante ottimismo «dalla ripresa alla crescita, tra fattori sfavorevoli». Ad aprile 2022, è arrivato il Def a dirci che la guerra aveva completamente mutato gli scenari, erodendo 1,6 punti nel 2022 e 1,4 punti nel 2023. Si tratta di 3 punti di Pil, cioè circa 58 miliardi di Pil in fumo. Addirittura 74, stando al dato del Fmi (crescita 2023 +0,7%). Questo nelle condizioni attuali, cioè il cosiddetto scenario base, che si arresta quindi a +3,2% di crescita nel 2022 e 1,3% nel 2023. Ma ora questi numeri sembrano destinati a peggiorare. Infatti sia il Def di aprile che il bollettino economico di Bankitalia di luglio si sono spinti a stimare degli scenari nel caso in cui si interrompesse del tutto il flusso di gas dalla Russia, oltre ad altri peggioramenti sul fronte dei prezzi e del rallentamento del commercio internazionale. Naturalmente le previsioni sono disperse in un intervallo più ampio. Secondo Bankitalia e Def, per il 2022, dovremmo perdere tra 0,8 e 2,2-2,3 punti percentuali di crescita, sempre rispetto allo scenario base, a seconda della gravità delle interruzioni. In cifra assoluta tra 15 e 42 miliardi. Per il 2023 il conto salirebbe: nello scenario peggiore sarebbero a rischio ben 2,7 punti di Pil, circa 53 miliardi. In sintesi, fino a ieri, rispetto all’autunno 2021, la somma della perdita di Pil 2022 e 2023 oscillava tra 58 e 74 miliardi. Da oggi, con il probabile avverarsi dello scenario peggiore, potrebbero aggiungersi altri 95 miliardi tra 2022 e 2023. Qualche giorno fa Giorgio La Malfa su Il Sole 24 Ore concludeva che «se l’Occidente mantiene ferme le sue posizioni il futuro economico della Russia è segnato. Non è quindi il momento di avere esitazioni o incertezze». Ribadiamo che qui non discutiamo la giustezza della causa, ma è essenziale che i cittadini sappiano quanto è già costato e quanto costerà «mantenere le posizioni», ammesso e non concesso che serva a fermare la Russia.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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