2023-03-16
Il complotto c’era: ma di Amara & C. «Giornali e tv usati contro l’Eni»
Piero Amara (Imagoeconomica)
La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio di 12 imputati per il falso depistaggio: alla sbarra oltre all’ex legale siciliano anche Vincenzo Armanna e Giuseppe Calafiore. Contestata pure la truffa del petrolio iraniano.I vertici dell’Eni non hanno mai ordito complotti per far saltare il processo Eni-Nigeria, anzi erano vittime delle trame di una banda di faccendieri che poteva contare sul sostegno di alcuni organi di informazione. È quanto emerge dalle quattordici pagine con cui i magistrati milanesi Laura Pedio, Stefano Civardi e Monia Di Marco hanno richiesto il rinvio a giudizio per dodici imputati nel cosiddetto filone sul «depistaggio». Un passaggio decisivo per portare a processo gli oscuri mestatori che, negli ultimi due lustri, con le loro false dichiarazioni, hanno tratto in inganno stuoli di pm.All’inizio delle investigazioni per gli inquirenti i principali sospettati per il depistaggio erano i manager del Cane a sei zampe Claudio Descalzi e Claudio Granata, ma oggi, dopo sei anni, i magistrati fanno marcia indietro e ci fanno sapere che in realtà gli ispiratori erano l’avvocato siracusano Piero Amara, i suoi storici sodali Giuseppe Calafiore e Vincenzo Armanna, ex dirigente della compagnia petrolifera, oltre ad altri vecchi manager dell’Eni, mentre Descalzi e Granata erano le vittime. In particolare delle dichiarazioni concordate rese tra luglio e dicembre del 2019 da Armanna, Amara e Calafiore sul cosiddetto Patto della Rinascente, ovvero del racconto di un incontro dentro al grande magazzino, in realtà mai avvenuto, con Granata per far ritrattare le dichiarazioni di Armanna contro l’azienda. Nell’istanza i reati contestati sono l’associazione per delinquere, la calunnia, l’induzione a rendere false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, truffa, frode in commercio, l’impiego di denaro provento di reato e di illeciti amministrativi. Gli imputati, come detto, sono 12, oltre a tre società che non esistono più o sono in liquidazione, come l’Eni trading & shipping (Ets), la Napag Srl e la Napag limited, a cui, le ultime due, i proprietari, nel frattempo, hanno cambiato il nome.Le indagini, iniziate nel 2017, sono state chiuse nel dicembre del 2021, poi il fascicolo era stato trasferito a Brescia per competenza su ordine della Procura generale della Cassazione (ipotizzando che ci fosse un magistrato in veste di persona offesa), è tornato a Milano e l’1 marzo è stata firmata la richiesta di rinvio a giudizio. E così si è chiuso anche l’ultimo spezzone della mega inchiesta sull’Eni che ha caratterizzato gli ultimi anni della gestione a trazione progressista della Procura milanese, quando era capitanata da Francesco Greco, affiancato dai suoi più stretti collaboratori, gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale. Uno scontro giudiziario terminato il 3 marzo 2023 con il «visto agli atti» del procuratore Marcello Viola, il «Papa straniero» della corrente moderata di Magistratura indipendente che nessuno voleva; un armistizio che ha sancito che il complotto c’è stato per davvero, ma che gli autori del depistaggio non erano i vertici dell’Eni bensì l’avvocato siracusano Amara e qualche ex dirigente del Cane a sei zampe forse troppo sensibile alle manovre di avvicinamento del lobbista siciliano. Ad Amara vengono, infatti, contestati ben quattro reati. Lui e Armanna sono accusati di associazione per delinquere unitamente all’ex capo dell’ufficio legale dell’Eni Massimo Mantovani, agli ex avvocati interni dell’azienda Vincenzo Larocca e Michele Bianco e all’ex numero due di Eni Antonio Vella perché «si associavano fra di loro allo scopo di commettere più delitti». L’attività delittuosa sarebbe andata avanti dall’estate del 2014 fino al dicembre 2019 e quindi anche dopo l’inizio della presunta collaborazione di Amara, iniziata il 24 aprile 2018. Nella richiesta di rinvio a giudizio, che viene emessa in un procedimento nuovo di zecca, il numero 4659/23 che riunisce tutti i precedenti procedimenti aventi ad oggetto le imprese dell’avvocato siciliano e dei suoi sodali, ricompare, al capo B, l’ipotesi di calunnia commessa ai danni dell’avvocato Luca Santamaria che era stata trasmessa a Brescia dove il pm aveva presentato istanza di archiviazione incontrando, però, l’opposizione dello stesso Santamaria.Rispetto all’avviso di chiusura delle indagini, al capo F, c’è una grossa novità: la Procura contesta, a quattro anni di distanza, a Mantovani, all’imprenditore Francesco Mazzagatti e al collega nigeriano Omamofe Boyo, la truffa patita dall’Eni per il greggio trasportato in Italia dalla petroliera White moon nel maggio 2019, un carico oggetto di numerose denunce da parte dell’Eni a partire dal 13 giugno 2019 quando l’azienda ha segnalato alla Pedio che la nave era giunta in prossimità del porto di Milazzo con un petrolio acquistato dall’Eni che non era di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice Oando (rappresentata da Boyo), ma di «qualità superiore e più pregiata» presumibilmente iraniana, oro nero sottoposto a embargo. L’Eni in data 15 luglio 2019 ha denunciato espressamente Amara e Mazzagatti in veste di titolari effettivi della Napag, fornitrice del greggio diverso da quello pattuito. Tale truffa non viene, però, contestata dalla Procura ad Amara né si hanno notizie di sequestri da costui subiti anche in relazioni alle ulteriori vicende contestate.Nel capo I viene contestato ad Amara, Mazzagatti e Cambareri l’incredibile acquisto di uno stabilimento petrolchimico iraniano. Infatti con il denaro truffato all’Eni, circa 26 milioni di euro, Amara e suoi complici hanno acquistato, attraverso una società di Singapore, il 60 per cento della Mehr petrochemical co., proprietaria della suddetta azienda, senza tirare fuori un solo euro e, ancora oggi, si stanno godendo i frutti di questa mirabolante operazione visto che la Procura di Milano e, prima ancora, quella di Roma non hanno mai sequestrato nulla all’avvocato siracusano. Questo affare, tale e quale, era già stata contestato ben quattro anni fa, nel gennaio del 2019, dall’ex pubblico ministero capitolino Stefano Fava quando era in servizio alla Procura di Roma. Tuttavia la richiesta di arresto e di sequestro fatta dal sostituto procuratore non era stata inoltrata al Gip dall’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone che, anzi, coadiuvato dagli aggiunti Rodolfo Sabelli e Paolo Ielo, aveva revocato il procedimento a Fava. Nella richiesta di rinvio a giudizio c’è la conferma dei lauti pagamenti in contanti ad Amara da parte della Napag, emolumenti che sarebbero stati fatti arrivare dall’ex presidente della Ets Mantovani per far rendere al legale false dichiarazioni all’autorità giudiziaria. Ricordiamo che Amara da febbraio 2018 fino ai primi di maggio dello stesso anno è stato detenuto a Regina Coeli e da maggio a luglio è stato agli arresti domiciliari su richiesta della Procura di Roma che in quel periodo lo interrogava insieme con i pm di Milano (proprio sul presunto complotto) e Messina. Quasi nello stesso periodo, tra maggio 2018 e gennaio 2019, i titolari della Napag, Mazzagatti e Giuseppe Cambareri, hanno consegnato 307.000 euro alla moglie di Amara, Sebastiana Bona, e al suo avvocato Francesco Montali. Nelle sue informative la Guardia di finanza elenca anche i trasferimenti di cash in favore di Amara, per un totale di 774.000 euro, avvenuti da maggio 2015 ad aprile 2018, quindi anche nel periodo in cui Amara era ospite delle patrie galere. Per questo denaro nessuna accusa è stata rivolta ad Amara, alla moglie o a Montali e nessun provvedimento di sequestro risulta agli atti. Eppure secondo le Fiamme gialle Montali avrebbe svolto «un ruolo di collettore per le somme di denaro» e avrebbe aiutato il suo assistito a comunicare con l’esterno quando era agli arresti, anche concedendo «l’utilizzo del proprio smartphone e del proprio profilo Wickr “Balù”». Forse per par condicio nella richiesta di rinvio a giudizio non compare più la contestazione di favoreggiamento rivolta nei confronti dell’avvocato Roberto Ripepi, difensore di Mazzagatti, per avere suggerito ad alcuni testimoni le risposte da dare agli inquirenti. Ultimo dato che emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio è il ruolo che avrebbero assunto nel depistaggio alcuni «organi di stampa», così genericamente definiti dai pubblici ministeri e non indicati per nome, forse per carità di patria. Per i pm gli imputati «strumentalizzavano alcuni organi di stampa, veicolando loro notizie al fine di dare risalto mediatico alle false accuse formulate» si legge nel documento. In un altro passaggio si fa riferimento in particolare «alle accuse calunniose formulate a Trani e Siracusa» rilanciate da alcuni media. Ma va detto che negli atti del procedimento sono evidenziati i rapporti di Armanna e Amara con alcuni inviati della carta stampata e della tv, in particolare del Fatto quotidiano e di Report. Tanto che la prima teorizzazione del Patto della Rinascente è stata fatta sul piccolo schermo. Ma ovviamente gli inquirenti non citano quelle comparsate nella contestazione di calunnia. Si tratta, infatti, di un reato che si può commettere solo accusando falsamente qualcuno di fronte all’autorità giudiziaria. Mentre per la diffamazione a mezzo stampa si procede su querela di parte.