2019-06-04
Il ciccione, il tossico e lo scalmanato. La boxe è ritornata un pugno di cattivi
Andy Ruiz Jr., campione dei massimi mangiando al fast food, divide l'olimpo con la testa calda Deontay Wilder e l'ex cocainomane Tyson Fury. Fantasmi politicamente scorretti si aggirano sul ring. Il gong annuncia il ritorno dei cattivi nella nobile arte. Lontano dai racconti celebrativi del romanziere F. X. Toole (a cui Clint Eastwood si è ispirato per il film Million dollar baby), o dall'immaginario dell'outsider eticamente puro alla Rocky Balboa, la boxe torna a essere terreno di gladiatori belluini e affamati. Di quelli che alle lusinghe di chi vorrebbe annoverarli tra i ranghi dei «buoni», come comanda il vangelo del marketing sportivo, preferiscono l'odore della paura dell'avversario. Paura che di certo non ha avuto Andy Ruiz Jr., quando due giorni fa ha abbattuto il campione britannico Anthony Joshua per Ko tecnico alla settima ripresa al Madison Square Garden di New York, accaparrandosi in un sol boccone i titoli Ibf, Ibo, Wba e Wbo dei pesi massimi. È il primo iridato messicano dei massimi. A vederlo, più che un atleta, il ventinovenne nato nell'Imperial Valley da genitori immigrati, sembra un cattivo dei film sui gangster alla Pablo Escobar: 188 centimetri per 112 chili, distribuiti con una consistenza adiposa foraggiata, dicono le malelingue, da ricchissimi pasti nei fast food. Ruiz ha tempestato di colpi Joshua (che aveva un record di 22 vittorie, di cui 21 per Ko) il quale ha ceduto dopo essere finito al tappeto per quattro volte. Dando dimostrazione pratica di una vecchia regola del pugilato: il vero campione è chi sa incassare meglio. «Volevo che gli scettici si ricredessero, tutti pensavano che sarei caduto alla terza ripresa e invece ho vinto. Sul ring ha parlato il mio sangue messicano», ha commentato Ruiz, che deve ringraziare la sua formidabile ostinazione. Ha esordito tra i professionisti nel marzo 2009, a 20 anni da compiere (è nato l'11 settembre del 1989), e da allora ha collezionato 32 vittorie (di cui 21 per Ko) e una sola sconfitta, per Ko tecnico, senza tuttavia incontrare avversari di particolare valore. I cronisti si sono affrettati nel rievocare un episodio del 1990: il signor nessuno Buster Douglas picchia a sorpresa Mike Tyson e pone fine al suo strapotere. In realtà, massa muscolare a parte, Ruiz è molto più simile a Tyson di quel che si possa pensare. Entrambi, pur con i dovuti distinguo di talento e fisicità, fanno parte della risma dei sottovalutati, che non fanno nulla per apparire simpatici o per assecondare facili cliché. Pugili diversi rispetto agli eroi positivi come Evander Holyfield o Vitalij Klyčko, impegnato politicamente nella sua Ucraina. Pugili come Deontay Wilder, che nel dicembre 2018 ha incrociato i guantoni nella Wbc con Tyson Fury, ex campione Wba, Ibf, Ibo, Wbo, in un match terminato in parità. Wilder ha una percentuale di Ko del 95.12%. Ha vinto il titolo Wbc dei massimi nel 2015. Soprannominato «The Bronze Bomber», nome affibbiatogli in memoria di Joe Louis (che era «The Brown Bomber»), alle Olimpiadi del 2008, da dilettante, ha subìto una sconfitta dal nostro Clemente Russo. Ma quando è diventato professionista ha inanellato un record di 32 vittorie consecutive. È un tizio agitato: il 4 maggio 2013 Wilder è stato arrestato a Las Vegas per violenza domestica nei confronti della moglie, accusa dalla quale è stato assolto. Riappacificatosi con la consorte, è tornato in tribunale pochi mesi più tardi, accusato di tentato strangolamento ai danni di Brian Kerwin e Jack Rodson, giornalisti della testata americana MyTime, presentatisi a casa sua per un'intervista concordata. Il pugile, tramite i suoi legali, si è giustificato sostenendo di aver agito istintivamente, condizionato dalla falsa impressione che dei ladri stessero entrando in casa. Un cattivo ragazzo, ma non troppo, in lizza per diventare uno dei massimi più competitivi del panorama contemporaneo. A pari merito col rivale Tyson Fury, colosso britannico di 206 cm per 116 chili. Tyson, chiamato così proprio in onore di Iron Mike, è nato a Manchester 30 anni fa da genitori irlandesi di origini gitane. La sua famiglia vanta una lunga storia nel mondo del pugilato. Il padre, conosciuto come John Gipsy Fury, è stato un pugile professionista degli anni '80, il cugino Andy Lee è un vecchio campione Wbo mediomassimi. Lui, dopo un veloce percorso da dilettante, il 28 novembre 2015 batte ai punti l'ucraino Volodymyr Klyčko e si laurea campione del mondo per la prima volta in carriera. Ma iniziano i guai. L'8 dicembre l'Ibf ritira il titolo in seguito all'accordo tra Fury e Klyčko per un rematch fissato il 9 luglio 2016. Secondo la federazione, l'inglese avrebbe dovuto affrontare il loro candidato numero uno, V"jačeslav Hlazkov. Il 24 giugno 2016 la rivincita con Klyčko viene posticipata in seguito a un infortunio dello stesso Fury. Il 23 settembre il match viene ancora posticipato poiché Fury risulta positivo alla cocaina. Alcool e droga diventano compagni di viaggio, gli viene sospesa la licenza pugilistica. Inizia un percorso di disintossicazione che dura tre anni. Ritorna sul ring. Dice: «Se non fossi cristiano, mi ucciderei. Ero in balia della depressione, ho usato la droga credendo fosse un modo per combatterla e uscirne». Si conquista il diritto a sfidare Wilder e a porre la sua candidatura per diventare il numero uno tra i massimi. Facendo spellare le mani ai suoi fan, pronti a celebrare le gesta di quel gigante umanamente imperfetto, ma dal pugno micidiale, e a difenderlo dall'accusa di omofobia guadagnata dopo la partecipazione a una trasmissione televisiva della britannica Bbc. Alla domanda su quali fossero tre fattori che avrebbero potuto determinare la fine del mondo, Fury, rispose: «Uno è la legalizzazione dell'omosessualità, un altro è l'aborto e l'ultimo è la pedofilia. Chi avrebbe mai pensato negli anni Cinquanta o Sessanta che i primi due sarebbero stati legalizzati?». Dichiarazioni che hanno fatto stracciare le vesti ai sostenitori del politicamente corretto. Perché questa è l'era dei pugili affamati, a volte grassi, di sicuro forti, che non smaniano per apparire buoni a tutti i costi.