2019-11-08
Il cazzotto di Clint ai censori: «Il politicamente corretto sta indebolendo la società»
Nella raccolta delle sue interviste, Eastwood si conferma allergico al conformismo. E nel suo nuovo film difende la dignità del proletariato bianco irriso dalla sinistra.Alla fine, pare che dobbiamo ringraziare una mandria di vacche. Clint Eastwood - il regista, non l'uomo né l'attore - è apparso lì, in mezzo alle bestie. «Ho cominciato a interessarmi alla macchina da presa mentre recitavo negli Uomini della prateria. Stavamo girando la scena di una mandria di bovini lanciati in una corsa impazzita: io cavalcavo in mezzo a tremila mucche, la polvere volava ovunque e l'effetto era davvero straordinario. Sono andato dal regista e gli ho detto: “Dammi una macchina da presa. Là in mezzo c'è della roba stupenda che tu, stando fuori dalla calca, non riesci a vedere". Se ne sono usciti con tutta una serie di problemi sindacali. Come al solito, hanno tutti paura di provare qualcosa di nuovo. Alla fine mi hanno dato un contentino: ho diretto alcuni trailer. Sono rimasto così deluso da tutta la faccenda che ho lasciato perdere». Così è nato un regista e così abbiamo rischiato di perderlo la prima volta. Poi ce ne sono state altre: critici ostili, produttori che volevano confinarlo nei ruoli di successo. «I manager mi chiamavano e mi dicevano: “Maledizione, il film sta andando bene". E io: “Perché non dovrebbe?". Al che loro rispondevano: “Beh, non so, non è un western e tu non fai il poliziotto"».Per nostra fortuna, Clint ha tenuto duro. E ora è tra i più grandi di tutti. A dicembre uscirà negli Stati Uniti il suo nuovo film, anticipato da un trailer diffuso proprio in questi giorni. Si intitola Richard Jewell e, tra le altre cose, è stato in parte girato in Georgia, alla faccia del boicottaggio organizzato dalla Hollywood liberal contro lo Stato che ha adottato leggi molto restrittive contro l'aborto. La pellicola racconta la storia di un agente di polizia ingiustamente accusato di aver partecipato a un attentato. In realtà, l'attacco terroristico fu organizzato dal bombarolo ultraconservatore Eric Rudolph. Il povero Jewell ebbe la sola colpa di aver trovato la borsa piena di esplosivi che Rudolph aveva piazzato al villaggio olimpico di Atlanta nel 1996. In questo modo, il poliziotto evitò un massacro, ma l'Fbi, forse per deviare l'attenzione dalle proprie mancanze, invece di trattate Jewell da eroe lo accusò di essere in combutta con gli attentatori. I media liberal fecero il resto, esponendo il poveraccio al pubblico ludibrio. I quotidiani e le riviste infierirono, comici come Jay Leno lo massacrarono. Jewell era un redneck, un americano del sud grasso, non ricco e un po' sfigato. Viveva con la madre e fu trattato come il solito bifolco demente. Cioè più o meno come i giornalisti progressisti trattano oggi gli elettori di Donald Trump. Eastwood non ha mai digerito questa mancanza di rispetto. Il regista, è cosa nota, è un sostenitore di Trump, che considera un antidoto a buonisti e «leccaculo». Soprattutto, Clint ce l'ha con il politically correct: «L'era politicamente corretta in cui ci troviamo non sta facendo bene a nessuno. Sta indebolendo la società. Le persone non dovrebbero prendersi così seriamente. Sono fortunato di essere cresciuto in un'epoca in cui tutti scherzavano su tutto», ha detto tempo fa.Che il buonismo non sia il suo mestiere si evince chiaramente dalla lettura di Fedele a me stesso (Minimum Fax) una strepitosa antologia delle interviste che Clint ha rilasciato tra il 1971 e il 2011. E da cui emerge prima di tutto il ritratto di un grande libertario, un individualista tendente a destra ma sostanzialmente impossibile da incasellare. «Mi piace l'individualismo. Credo di preferire le persone individualiste», dice in una conversazione. E numerose volte, nel corso della carriera, ha ripetuto il concetto: «Tendo a considerarmi più che altro un “libero pensatore". In realtà le mie scelte politiche non collimano completamente con nessuna delle due fazioni, io mi considero un po' un libertario, nel senso che ritengo che si debba permettere alla gente di vivere in pace, rispettando le libertà individuali».Gli sono sempre piaciuti gli eroi solitari e anticonformisti. «Sono cosciente dell'attrazione che esercitano su di me questi personaggi», spiega altrove. «Perché? Forse perché ho sempre odiato la corruzione del sistema, in qualsiasi forma».Non per nulla tra i suoi antieroi più famosi c'è Henry Callaghan, a più riprese accusato di essere una specie di vigilante fascistoide. «Forse mi si può accusare di essere vecchio stampo, di sognare un'era in cui le cose erano più semplici, più ovvie e più oneste. Il potere della burocrazia continua a crescere mentre il pianeta si restringe e i problemi della società diventano sempre più complicati. Ho paura che l'indipendenza individuale stia diventando un sogno obsoleto», ha detto Clint nel 1984. «I moduli, i lunghi iter amministrativi, i comitati e i sottocomitati ci sommergono. […] Quello che dice Harry Callaghan sostanzialmente è: “Se devi compilare quindici copie di ogni rapporto, il malvivente avrà tempo di commettere un altro crimine prima che tu abbia finito. Arriva un momento in cui bisogna smettere di tergiversare". È una posizione estrema, ma è lì che torna l'ironia, senza la quale il pubblico non ti seguirebbe. È una cosa che mi dice il mio istinto. Da parte mia, sono riuscito a restare abbastanza indipendente, ma per arrivarci ho dovuto lottare, e continuo a farlo ogni giorno». Alla fine, il grande tema della cinematografia di Eastwood è proprio la lotta del singolo contro il sistema: «Alcuni, per esempio, sono ancora attaccati all'idea che i film dell'ispettore Callaghan siano una specie di manifesto di destra. Certo, se si vuole etichettare qualcuno, si possono considerare quei film in quel modo. Ma possono essere interpretati anche in modo diverso. Se ci si prende la briga di pensarci su. Di sicuro si può considerare l'ispettore Callaghan come un singolo che si mette contro il sistema».E contro il sistema, in fondo, è sempre stato anche Eastwood, a partire dagli inizi. «Hollywood è strana. Tutti cercano la formula magica», raccontava Clint già nel 1971. «Un anno sono due tizi in moto, l'anno dopo una ragazza che sta morendo di cancro, e il mercato viene inondato di imitazioni. Per anni ho vagato in cerca di un lavoro ed era sempre la stessa storia: avevo la voce troppo bassa, dovevo farmi incapsulare i denti, strizzavo troppo gli occhi, ero troppo alto... questo continuo tentativo di demolire il mio ego doveva per forza farmi diventare una persona migliore, oppure un perfetto stronzo». Beh, sono in tanti a considerarlo un pochino stronzo, specie per le sue idee anticonformiste. Ma lui ha sempre tirato dritto: «Non capisco perché qualcuno debba vedere delle ramificazioni politiche in un film. Dopotutto, se ti piace fare dei film, se ti piace coprire tutto lo spettro, non c'è nessun film in particolare che rispecchi quello che pensi nella vita reale. Per esempio, ho sempre detto che Adolf Hitler dev'essere un personaggio affascinante da interpretare in un film. Probabilmente interpretarlo sarebbe il sogno di ogni attore. Ma ciò non significa che quell'attore sia un nazifascista». A dire il vero, ha fatto anche il politico. Sindaco di Carmel, in California. Lì, si legge nel libro uscito da Minimum Fax, «una volta un poliziotto si appostò per una settimana vicino all'Hog's Breath Inn di proprietà di Eastwood, in attesa dell'attore. Alla fine Eastwood comparve; il poliziotto entrò tirando fuori con un movimento rapido e improvviso un'enorme magnum calibro 357 da dietro la schiena. I clienti si buttarono tutti a terra. Ma lui voleva solo l'autografo di Eastwood sulla canna; si era portato un attrezzo per inciderlo. Eastwood firmò, poi rimase un attimo a pensare e infine disse: “Non lasciarla in giro", come se il tizio potesse rapinare un negozio di liquori e lasciar cadere la pistola sul pavimento». fede a sé stessoEcco Eastwood: poche parole, tanta concretezza. E un manifesto politico di poche frasi (pronunciate a Rolling Stone): «Senza voler sembrare una testa di cazzo pseudointellettuale, è responsabilità mia essere fedele a me stesso. Se funziona per me, allora va bene. Se inizio a fare scelte sbagliate, allora mi tiro indietro e lascio che ci pensi qualcun altro».
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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Terry Rozier (Getty Images)
L’operazione Royal Flush dell’Fbi coinvolge due nomi eccellenti: la guardia dei Miami Heat Terry Rozier e il coach dei Portland Trail Blazers Chauncey Billups, accusati di frode e riciclaggio in un vasto giro di scommesse truccate e poker illegale gestito dalle storiche famiglie mafiose.