
Quando si è disputata la finale dei Mondiali di Messico '70, persa dall'Italia 4 a 1, avevo appena 7 anni: la batosta ha dimostrato che non sempre le cose vanno come vorremmo. Un presagio per il Paese, che da lì a poco avrebbe dimenticato il boom economico.La prima partita di cui ho avuto coscienza come un fatto di una certa importanza è una partita che non ho visto né allo stadio, né in televisione, è una partita della quale ho sentito parlare. Era il 1970, e c'erano i mondiali in Messico, e io avevo appena compiuto 7 anni e le partite non le guardavo, non so perché. Direi che non ero abituato, o che era uno spettacolo che i miei consideravano troppo cruento, per un bambino così piccolo, ma forse anche no, perché due anni prima, nel 1968, avevano portato me e mio fratello a San Siro a vedere la partita che avrebbe incoronato il Milan campione d'Italia per la nona volta. Mio babbo era milanista, i miei fratelli e mia mamma lo sono ancora, io per un po' lo sono stato, adesso son degli anni che ho smesso, tengo solo per il Parma, che mi basta e mi avanza, come squadra alla quale tenere. Di quella prima partita vista allo stadio, a San Siro, a 5 anni, mi ricordo solo che quando il Milan aveva fatto gol, il gol che voleva dire che il Milan era campione d'Italia, io mi ero spaventato per il rumore che aveva fatto la gente. Un grido terribile, come se fosse successo chissà che cosa; mi ricordo mio nonno che si era voltato, c'era anche mio nonno, anche lui milanista, mi aveva strappato dalle mani la bandierina che avevo in mano e si era messo a sventolarla. Mi sembravan dei matti, e alla fine della partita, se mi avessero chiesto «Sei contento?», io avrei risposto che ero contento, solo che, dentro di me, più della contentezza il sentimento che mi animava era la paura che mi faceva l'impressione di essere in mezzo a dei matti. A pensarci, forse ero io, che nel Settanta non volevo vedere le partite del mondiale perché troppo cruente. Di quei mondiali del Messico mi ricordo che, quando c'erano i quarti di finale, Italia-Messico, io ero in macchina con mio babbo che ascoltava la partita per radio, e ogni volta che l'Italia segnava, ha segnato 4 volte, in quella partita, l'Italia ha vinto 4 a 1, mio babbo alzava le braccia e mia nonna lo sgridava: «Tieni sodo il volante!». Ma lo diceva in un modo che non era arrabbiata, lo diceva come se fosse contenta; era un periodo, era il 1970, che noi, come famiglia, eravamo contenti: avevamo una bella macchina, svedese, una Volvo, mio babbo aveva una piccola ma florida impresa edile, l'Italia, come nazione, andava verso un progresso che ci sembrava indefinito e ai quarti di finale dei mondiali del Messico vincevamo 4 a 1 contro il Messico, andava tutto come doveva andare. Della partita successiva, di quei mondiali, Italia-Germania 4 a 3, non mi ricordo niente, mentre mi ricordo benissimo la finale, Brasile-Italia 4 a 1, perché mio babbo, poi, negli anni, di quella partita ha parlato moltissime volte. Non si spiegava come mai Ferruccio Valcareggi, l'allenatore, invece di fare entrare Gianni Rivera al posto di Sandro Mazzola all'inizio del secondo tempo, come aveva fatto contro Messico e Germania (e Rivera aveva segnato sia contro il Messico che contro la Germania, Mazzola invece no, diceva mio padre), lo aveva fatto entrare a sei minuti dalla fine, quando il Brasile vinceva già 3 a 1. «Che, in sei minuti, cosa vuoi fare?», diceva mio babbo. A mio babbo piaceva poi molto sottolineare una cosa che non so se sia vera, che quando la nazionale era tornata in Italia, all'aeroporto, a Fiumicino, gli avevan tirato i pomodori. Erano arrivati secondi nel mondo, e gli avevano tirato i pomodori. Ecco io, allora, il 14 giugno del 1970, quando mio babbo lasciava il volante della sua Volvo per esultare perché aveva segnato Rivera, io avevo sette anni e pensavo che tutto stava andando bene e che sarebbe continuato ad andar bene per sempre. Cinque giorni dopo, il 21 giugno del 1970, quando quel benessere calcistico era svaporato per via, forse, del fatto che Valcareggi aveva fatto giocare a Rivera solo 6 minuti, sapevo già che non era così, che le cose non è che ti vanno bene perché sei tu, perché sei italiano e sei bello. Non abbiamo più avuto una Volvo, per dire, in famiglia. E adesso, che siamo nel 2018, e che sono passati 48 anni, da quei mondiali, e che io di anni ne ho 55, adesso io, quando mi sembra di vivere un periodo che le cose non vanno benissimo, quando faccio fatica, quando mi devo dire, nella mia testa, «Dài dài dài dài dài», mi sembra che sia normale, perché son dei decenni, che funziona così, nella mia vita: bisogna fare fatica. Quando invece mi sembra che vada tutto bene, quando tutto mi sembra funzioni alla perfezione, io, sarò strano, ma non sono contento: mi vien da agitarmi, da ribellarmi, mi aspetto qualcosa che mi rimetta al mio posto. È una cosa che ho scritto in uno dei primi romanzi che ho poi pubblicato, la storia del filo da torcere, che quando lo trovi lo torci, e quando l'hai torto ne cerchi, e non hai mai finito, mi sembra. E di quei mondiali messicani, e dei calciatori italiani che vi hanno partecipato, Enrico Albertosi, Gigi Riva, Rivera, Mazzola, Roberto Boninsegna, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti e di tutti gli altri, che nel gergo dei commentatori sportivi venivano chiamati «messicani», c'è un'ultima cosa, che voglio dire, e è successa molti anni dopo, quando facevo le superiori e era un periodo che le squadre italiane non potevano assumere calciatori stranieri, perché la nazionale italiana, ai mondiali del '74 e del '78, era andata male, e si era trovato questo rimedio, di chiudere le frontiere, come si diceva allora. E un mio compagno di classe appassionato di baseball, che si chiama Roberto, e che si era messo a seguire un po' il calcio perché il calcio a noialtri maschi della nostra di classe piaceva, lui, una volta, nel 1997, quando il Milan aveva vinto il decimo scudetto con Enrico Albertosi, come portiere (io tenevo ancora per il Milan), questo mio compagno di classe, Roberto, mi aveva detto: «È comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri». «Che stranieri?», gli avevo chiesto io. «Come che stranieri?», mi aveva detto lui, «Albertosi». «Ma Albertosi non è mica straniero», gli avevo detto io. «Come no, aveva detto lui, è messicano».E io, sul momento, non sapevo come dirglielo, a Roberto, che Albertosi era nato a Pontremoli. Era uno sbaglio che mi sembrava così bello, il suo, che mi veniva da dargli ragione. «È vero, Roberto, è comoda, vincere gli scudetti con gli stranieri».(3. Continua)
Stephen Miran (Ansa)
L’uomo di Trump alla Fed: «I dazi abbassano il deficit. Se in futuro dovessero incidere sui prezzi, la variazione sarebbe una tantum».
È l’uomo di Donald Trump alla Fed. Lo scorso agosto, il presidente americano lo ha infatti designato come membro del Board of Governors della banca centrale statunitense in sostituzione della dimissionaria Adriana Kugler: una nomina che è stata confermata dal Senato a settembre. Quello di Stephen Miran è d’altronde un nome noto. Fino all’incarico attuale, era stato presidente del Council of Economic Advisors della Casa Bianca e, in tale veste, era stato uno dei principali architetti della politica dei dazi, promossa da Trump.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 10 novembre con Carlo Cambi
Martin Sellner (Ansa)
Parla il saggista austriaco che l’ha teorizzata: «Prima vanno rimpatriati i clandestini, poi chi commette reati. E la cittadinanza va concessa solo a chi si assimila davvero».
Per qualcuno Martin Sellner, saggista e attivista austriaco, è un pericoloso razzista. Per molti altri, invece, è colui che ha individuato una via per la salvezza dell’Europa. Fatto sta che il suo libro (Remigrazione: una proposta, edito in Italia da Passaggio al bosco) è stato discusso un po’ ovunque in Occidente, anche laddove si è fatto di tutto per oscurarlo.
Giancarlo Giorgetti e Mario Draghi (Ansa)
Giancarlo Giorgetti difende la manovra: «Aiutiamo il ceto medio ma ci hanno massacrati». E sulle banche: «Tornino ai loro veri scopi». Elly Schlein: «Redistribuire le ricchezze».
«Bisogna capire cosa si intende per ricco. Se è ricco chi guadagna 45.000 euro lordi all’anno, cioè poco più di 2.000 euro netti al mese forse Istat, Banca d’Italia e Upb hanno un concezione della vita un po’…».
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dopo i rilievi alla manovra economica di Istat, Corte dei Conti e Bankitalia si è sfogato e, con i numeri, ha spiegato la ratio del taglio Irpef previsto nella legge di Bilancio il cui iter entra nel vivo in questa settimana. I conti corrispondono a quelli anticipati dal nostro direttore Maurizio Belpietro che, nell’editoriale di ieri, aveva sottolineato come la segretaria del Pd, Elly Schlein avesse lanciato la sua «lotta di classe» individuando un nuovo nemico in chi guadagna 2.500 euro al mese ovvero «un ricco facoltoso».






