2022-11-23
Il barbaro che con una scopa salvò la Lega
Roberto Maroni (Imagoeconomica)
È morto a 67 anni Roberto Maroni, una vita per il Carroccio e il suo Nord. Da ministro dell’Interno promosse i respingimenti, primo argine contro l’invasione. E nel 2012 «spazzò» via lo scandalo dei diamanti del cerchio magico di Umberto Bossi. Evitando la fine del partito.Il barbaro sognante è partito per l’ultimo viaggio. Indossa la cravatta verde e gli immancabili occhiali dalla montatura rossa, «l’unica cosa di sinistra che mi metto addosso». Roberto Maroni se n’è andato a 67 anni senza fare rumore, rispettando l’innata gentilezza del carattere, mentre era ancora notte nella valle dell’Olona varesino fra Vedano e Lozza, dove da molti mesi combatteva contro un tumore micidiale. La moglie Emilia Macchi e i figli Chelo, Filippo e Fabrizio lo hanno salutato così: «A chi ti chiedeva come stavi, anche negli ultimi istanti rispondevi: Bene! Eri così, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico». Poi una frase di Emily Dickinson: «Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio è sostanza divina». Con la cravatta «verde Lega» e gli occhiali rossi, Maroni ha contribuito a fondare la seconda Repubblica e l’ha attraversata da protagonista, anzi da metronomo di quello straordinario gruppo rock messo insieme negli anni Ottanta da Umberto Bossi e destinato a lasciare un segno indelebile nella storia politica del nostro Paese. Il Senatur era il frontman, lui il bassista (anche se ha sempre suonato l’organo Hammond nel gruppo «Distretto 51»); indispensabile per dare il ritmo e stemperare gli ardori popolari del leader in canottiera. Simbologie padane.L’amore per il territorio di uno dei padri della Lega si può riassumere in due flash. Primo: il suo lascito politico è un libro del 2012 dal titolo Il mio Nord, nel quale recupera gli insegnamenti di Gianfranco Miglio per rilanciare l’Euroregione lombardo-veneta in grado di trattenere il 75% del gettito fiscale al grido di «solidali sì ma non fessi». Ha creduto profondamente nell’autonomia e nel 2017 ha lanciato e stravinto il referendum per ottenerla; ora Roberto Calderoli avrà il compito di regalargli una vittoria postuma. Secondo: la sua ultima battaglia è stata contro la nazionalizzazione della Lega voluta da Matteo Salvini, un progetto che lo ha portato a scontrarsi con il segretario e ad allontanarsi da lui. Per l’ex governatore della Lombardia «la nostra anima deve riposare all’ombra delle Alpi». Eppure amava il mare così tanto da concedersi, nel 2018, una traversata atlantica in catamarano con cinque amici.Nato a Varese alle Idi di marzo del 1955, Maroni è stato tre volte ministro nei governi di Silvio Berlusconi (Interno e Welfare), primo inquilino non democristiano del Viminale nell’Italia repubblicana. A 39 anni, ma con un altro passo rispetto ad avventizi come Luigi Di Maio. Durante l’alluvione del Piemonte del 1994, i vecchi inviati ricordano quando ad Asti, ricoperta di fango dopo il ruggito del Tanaro, arrivò in prefettura su una jeep un signore piccolo e silenzioso con le gelosce sformate dalla melma. Era lui, in prima linea a qualche ora dal disastro. Aveva già fatto un sopralluogo e a chi aveva perso tutto disse: «Lo Stato è qui accanto a voi, ripartiremo insieme». Un leghista con il senso delle istituzioni, allora non era scontato. Se glielo facevi notare, l’avvocato Bobo rispondeva: «Se scavi dentro di me trovi un italiano orgoglioso di esserlo e non solo grazie agli studi di giurisprudenza». Mediatore nato, all’interno del partito era definito «Bobo rosè» per i suoi amori a sinistra da teenager: mentre frequentava il liceo classico Cairoli, militava in un gruppo marxista-leninista e fino ai 24 anni era di Democrazia proletaria. Conformismo giovanile. Gli è rimasto appiccicato solo il motto di Mao, che ripeteva sempre: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è propizia. «Poi ho conosciuto Bossi e ho capito che quelle erano vecchie categorie politiche. La nostra gente aveva altre priorità», dirà. In quel Nord «che laùra e paga», la questione settentrionale esisteva già; serviva qualcuno che la cavalcasse. A farlo arrivò la Lega di lotta e di governo, Bossi in piazza e Maroni nelle istituzioni.Durante il primo esecutivo Berlusconi arrivò anche un fastidioso intoppo. Da ministro dell’Interno, Bobo firmò con Alfredo Biondi (ministro della Giustizia) il decreto contro le carcerazioni facili nel sabba collettivo di Tangentopoli, subito ribattezzato «decreto salvaladri». Mentre il popolo leghista protestava e Bossi fumava dalle orecchie, Maroni ammise di non aver capito la portata del provvedimento, subendo il dileggio di parte dei militanti. I padani duri e puri lo avrebbero perdonato due anni dopo (1996) nella stagione secessionista delle ampolle, quando si oppose fisicamente alla perquisizione - ritenuta arbitraria - della sede di via Bellerio: la polizia caricò e lui finì all’ospedale. Era stata ordinata dal pm di Verona, Guido Papalia; dopo il folcloristico assalto del «tanko» al campanile di San Marco, gli investigatori cercavano prove che la «guardia padana» fosse una formazione paramilitare e Maroni fu accusato di aver causato «uno stato di depressione del sentimento nazionale». La classica bolla di sapone.Da ministro ottenne buoni risultati. Ancora oggi prefetti e questori rimpiangono quel periodo al Viminale; i suoi decreti sicurezza con i respingimenti furono il primo argine all’invasione e il primo campanello d’allarme per «l’Europa delle chiacchiere». Quando si occupò di Welfare, seppe costruire una riforma delle pensioni senza creare macelleria sociale come qualche lacrimevole signora competente pochi anni dopo. Infine, con un eclatante gesto simbolico (e folcloristico), salvò la Lega dall’estinzione. Era il 2012, da segretario del partito organizzò a Bergamo la notte delle scope verdi per «netà fo’ ol polèr», pulire il pollaio, dopo lo scandalo dei diamanti del cerchio magico di Bossi. Il Senatur venne giubilato, il partito riuscì a sopravvivere ripartendo dal 4% verso il rilancio nella stagione salviniana. Ha sempre ritenuto Giancarlo Giorgetti (che ieri lo ha ricordato con gli occhi lucidi e un commosso singhiozzo) il suo figlioccio, con una sola critica: «Tifa Southampton, almeno tifasse Northampton».Dopo i cinque anni a palazzo Lombardia Maroni si è molto defilato. Un po’ per dedicarsi alle solite inchieste a sfondo politico dalle quali è uscito a testa alta, un po’ per divergenze strategiche con il segretario, un po’ per l’insorgere del male. Nel 2021 avrebbe voluto candidarsi a sindaco di Varese, ma alla fine rinunciò. Allora disse una frase emblematica: «Quando arrivano certi ospiti indesiderati ti accorgi che la politica con la p minuscola non è più fra le priorità». La famiglia, la musica, il Milan, la scrittura sì. Per sempre. In ottobre è uscito il suo thriller Il Viminale esploderà. Poi il barbaro sognante si è arreso e oggi riposa dove ha sempre voluto: all’ombra delle Alpi.