2022-12-09
«I test non rilevano la carica virale». Ma i positivi restano ai domiciliari
Una ricerca su Nature mostra l’inefficacia dei tamponi nello stabilire la reale infettività dei contagiati. Che però, qui, sono ancora costretti all’isolamento per almeno 5 giorni. Regola che Orazio Schillaci dovrebbe abolire.Uno studio su 21 Paesi evidenzia che le politiche sanitarie anti pandemia hanno portato a divisioni sociali e all’emarginazione dei renitenti al vaccino da parte degli inoculati.Lo speciale contiene due articoli. «Ad oggi, non esistono test diagnostici che determinino in modo affidabile la presenza di virus infettivi». È questa, la principale conclusione di uno studio appena pubblicato su Nature, che fa il punto della reale capacità di ridurre il numero delle persone con Covid all’interno di una strategia di sanità pubblica, basata sulle risultanze da bastoncini infilati nelle narici. Questione di estrema attualità, considerando che il ministro della Salute Orazio Schillaci ha promesso la riduzione della quarantena prima di Natale, ma ancora non c’è ombra del decreto. Se i tamponi non sono in grado di stabilire le cariche virali di un soggetto risultato positivo al test, come si può chiuderlo in isolamento con la motivazione che la quarantena impedisce la trasmissione del Sars-CoV-2? «La carica virale può variare notevolmente da individuo a individuo, come risultato della suscettibilità individuale e dell’immunità da precedenti infezioni o vaccinazioni, il che porta a differenze nella loro propensione a trasmettere il virus», scrivono tre ricercatori dell’Università di Ginevra: Olha Puhach e la virologa Isabella Eckerle del dipartimento di medicina, Benjamin Mayer del Centro di vaccinologia del dipartimento di patologia e immunologia. Aggiungono che «la maggior parte dei pazienti con Covid-19 non infetta altri individui poiché espellono poche, o nessuna particella virale dalle vie aeree». La probabilità di trasmissione raggiunge il picco «all’insorgenza dei sintomi», ma così come la carica virale perde forza con il passare del tempo, «anche la probabilità di trasmissione diminuisce gradualmente». Gli autori spiegano che non si conosce ancora quale sia la dose infettiva necessaria perché avvenga la trasmissione secondaria del Covid, e diventiamo così contagiosi per le persone con cui entriamo in contatto. «L’associazione tra presenza di virus infettivo nelle vie respiratorie e infettività degli stessi individui è poco conosciuta», sottolineano, confermando le segnalazioni di uno studio già pubblicato a giugno 2021 sulla rivista scientifica Life di Mdpi, Multidisciplinary digital publishing institute. Nel paper, che rappresentava la posizione ufficiale di Waspalm, l’associazione mondiale delle società di patologie cliniche di tutto il mondo, l’oncologo Mariano Bizzarri, professore di patologia clinica alla Sapienza, assieme ad altri esperti evidenziava come «l’enorme numero di risultati, sia falsi positivi che falsi negativi», dei tamponi molecolari Rt-Pcr, non renda affidabile il «processo decisionale basato su tali dati». L’esortazione, era quella di «affinare i test analitici attualmente disponibili, per identificare rapidamente le persone in grado di trasmettere realmente il virus, con l’obiettivo di controllare e prevenire grandi focolai», dal momento che «la vita e la libertà di centinaia di milioni di persone, così come l’economia dei Paesi di tutto il mondo, dipendono in ultima analisi da tali opportune valutazioni». Quindi, a inizio estate 2021 il mondo scientifico sapeva che i tamponi tuttora utilizzati non sono una procedura di screening valida per tracciare l’evoluzione dei contagi. Lo studio su Nature, conferma i dubbi sull’affidabilità di questi strumenti analitici nell’identificare le persone che possono trasmettere il virus. Eppure, se positivi ancora ci obbligano all’isolamento domiciliare di almeno 5 giorni, al termine dei quali occorre fare un altro tampone che deve risultare negativo prima di poter uscire nuovamente di casa. Se il test continua a indicare una presunta o reale positività «persistente», la quarantena prosegue fino a un massimo di 14 giorni. Fino a pochi mesi fa, pure l’isolamento per i contatti stretti dei positivi non era uguale per tutti. I non vaccinati, o coloro che non avevano completato il ciclo, erano costretti a una quarantena di 10 giorni e solo se al termine il tampone tornava negativo, tornavano in liberà. Dimezzata, invece, la misura per i vaccinati con due dosi e del tutto «superflua», guarda caso, per gli asintomatici che avevano ricevuto il booster. Insomma, l’ennesima discriminazione compiuta non su basi scientifiche comprovanti una diversa contagiosità, ma solo per punire i non inoculati. «Secondo le evidenze scientifiche del Consiglio superiore di sanità, se una persona è positiva, è positiva: sintomi o non sintomi non hanno un effetto rispetto al fatto di essere positivi», tuonava a settembre Roberto Speranza, poco prima di essere rimosso dalla poltrona di ministro della Salute grazie all’esito delle politiche. Ribadiva l’utilità dell’isolamento «per evitare che il contagio possa diffondersi in maniera troppo larga». Lo studio appena uscito su Nature riporta, invece, che «solo una minoranza, circa l’8%» dei pazienti positivi per Sars-CoV-2 «ha titoli virali infettivi significativamente più elevati rispetto al resto della popolazione». Dal momento che «ormai la malattia è profondamente diversa da quella originaria», come ha dichiarato, il neo ministro Schillaci non può più rinviare la modifica di una normativa pensata (male) per uno stato di emergenza e che ancora ignora l’importanza di monitorare la presenza dei marcatori immunologici. «Gli unici parametri affidabili, in grado di fornire una stima corretta della diffusione del virus», tra la popolazione, ricordava Waspalm.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-test-non-rilevano-la-carica-virale-ma-i-positivi-restano-ai-domiciliari-2658903781.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="toh-i-diktat-causano-discriminazioni" data-post-id="2658903781" data-published-at="1670555971" data-use-pagination="False"> Toh, i diktat causano discriminazioni Che le politiche anti Covid abbiano generato una lunga lista di odiose discriminazioni, non è certo una sorpresa. Almeno, per chi finora non abbia voluto negare la realtà. Ma a confermare la delirante deriva presa in questi anni dalle politiche sanitarie, e a scoprire l’acqua calda, ci ha pensato anche uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, svolta da Michael Petersen dell’Università di Aarhus in Danimarca, che ha coinvolto oltre 15.000 persone di 21 Paesi, (campionate in modo da essere rappresentative del loro Stato) che coprono culture diverse in tutto il mondo. Gli autori includono dati rappresentativi dei Paesi a basso e medio reddito, oltre a quelli dei Paesi ad alto reddito. Dalla ricerca, è emerso che i soggetti adeguatisi alle disposizioni sulla profilassi reagiscano con atteggiamenti discriminatori nei confronti della popolazione contraria al vaccino, che viene quindi percepita dai vaccinati come una minaccia per la salute pubblica. E di quest’ultimo fenomeno, almeno in Italia, non si può non ritenere responsabili la politica e soprattutto i media, colpevoli di aver aizzato una caccia alle streghe contro i presunti untori non vaccinati. Dalla ricerca emerge inoltre che le persone vaccinate esprimono atteggiamenti discriminatori nei confronti dei renitenti a livelli pari o superiori agli atteggiamenti discriminatori rivolti ad altri bersagli comuni, come gli immigrati o le persone tossicodipendenti. Ma, ci permettiamo di precisare, nel caso di immigrati e persone con dipendenze, nessun giornale o politico (giustamente) si sognerebbe di gioire (almeno, non in pubblico), qualora costoro fossero lasciati fuori dai locali o venisse loro impedito di prendere un autobus, come invece è avvenuto per i privi di green pass. Nel complesso, continua la ricerca, questo pregiudizio tende a essere unilaterale. Lo studio rileva anche che coloro che rifiutano i vaccini si sono sentiti discriminati. Non era difficile presumerlo: chi non esibiva il Qr Code ottenuto dalla vaccinazione, è stato lasciato ai margini. Così, mentre ai dodicenni è stato impedito di fare sport e a migliaia di persone di poter lavorare, oltre che di entrare in un ristorante al caldo o tagliarsi i capelli dal parrucchiere, lo sdegno di giornali e opinionisti da salotto si riversava sulle proteste. Certo, chi ha associato le restrizioni subite durante la pandemia a quelle inflitte agli ebrei negli anni Quaranta ha varcato il confine del buonsenso. Ma non certo di più di chi ha avallato e goduto dell’umiliazione di migliaia di cittadini, bollati come idioti, complottisti, «terrapiattisti» o no vax tout court. I diktat partoriti in Italia dalla pandemia hanno avuto quanto meno il merito di rendere palese quanto possano essere pericolosi conformismo e servilismo. Perché, se all’inizio della pandemia la perdita della ragione poteva essere giustificata dalla paura del virus, dopo anni lo zelo dimostrato da virostar, politica e informazione, è imperdonabile. E crea divisione sociale: non lo certificano solo i «barbari» anti green pass, bensì pure lo studio su Nature.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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