I Guns n'roses pubblicano la versione celebrativa di Appetite for destruction, loro album capolavoro ma tolgono One in a million, il brano accusato di razzismo e omofobia.
I Guns n'roses pubblicano la versione celebrativa di Appetite for destruction, loro album capolavoro ma tolgono One in a million, il brano accusato di razzismo e omofobia. E fu così che i titani del rock'n'roll decisero di imbracciare la chitarra e intonare un inno alla feroce divinità dei nostri tempi: l'antirazzismo. Il prossimo 29 giugno uscirà in tutto il mondo una versione di gran lusso di Appetite for destruction, album pubblicato dai Guns n'roses nel 1987. Una pietra miliare del rock americano, un disco selvaggio e potente, che contiene brani celeberrimi come Sweet child o' mine, Welcome to the jungle e Paradise city. La nuova edizione è una sorta di cofanetto celebrativo, che comprende ben 73 tracce, di cui 49 mai pubblicate, per un totale di quattro cd e sette lp. All'interno, i fan troveranno anche la ristampa di Gn'r Lies, ep uscito nel 1988, proprio mentre il gruppo cominciava ad assaporare il successo a livello globale. Insomma, stiamo parlando di un pezzo rilevante di storia e di cultura pop. C'è un solo ma non trascurabile inconveniente. Nel cofanetto manca una canzone, che in origine faceva parte proprio di Gn'r Lies. Il brano in questione è One in a million, ed è conosciutissimo. Infatti le riviste musicali hanno subito notato l'assenza sospetta. Perché il brano è stato tolto? La band non ha commentato, ma il motivo è stato perfettamente sintetizzato dal Guardian: «Il linguaggio razzista e omofobo della canzone». In effetti, il testo è piuttosto esplicito, già nella seconda strofa: «Polizia e negri, si chiaro/ Levatevi dai piedi/ Non ho bisogno di comprare/ Nessuna delle vostre/ Catene d'oro oggi/ No, non ho bisogno di manette/ Strette davanti al mio didietro/ Mi serve solo il mio biglietto, fino ad allora/ Perché non mi lasciate in pace?». Poi, poco oltre: «Immigrati e froci/ Non hanno senso per me/ Vengono nel nostro Paese/ E pensano di poter fare i comodi loro/ Come formare un piccolo Iran,/ O spargere qualche cazzo di malattia/ Parlano in così tanti stramaledetti modi/ Ma per me è tutto greco». Quando la canzone uscì, furono in tanti ad arrabbiarsi, a partire da Tipper Gore (ex moglie di Al Gore, e nota attivista) e Boy George. Ma i Guns, sostanzialmente, se ne fregarono. Dopo tutto, non stiamo mica parlando di un pezzo di musica colta o sacra, bensì di un brano rock, per altro suonato da un gruppo noto per gli eccessi e l'atteggiamento sfrontato. Inutile fare i bigotti: il rock è questo, ed è fatto anche di parolacce, atteggiamento strafottente e tutta la paccottiglia che ben conosciamo. Axl Rose, cantante e leader della band, non è certo famoso per l'equilibrio e le opere di bene. Anzi, ha trascorso gran parte della sua esistenza a comportarsi da psicopatico. Però ha scritto una tonnellata di canzoni splendide, e insieme a Slash (chitarrista e altra colonna portante) ha saputo rinnovare un genere che, alla fine degli anni Ottanta, sembrava soffocare in mezzo ai capelli cotonati e ai lustrini. Il suono della band di Los Angeles è innervato di blues e di punk, ma anche di rock classico, di folk, di hard rock. Tra l'altro, se proprio volessimo stilare una classifica dei brutti, sporchi e cattivi della chitarra elettrica, i Guns non sarebbero certo ai primi posti. Inoltre, va considerato il contesto in cui è stata scritta One in a million. Nel 1987, quando sbarcò nella metropoli californiana, Axl Rose aveva appena 25 anni e un passato non proprio facilissimo. Il suo padre naturale fu ammazzato, il suo patrigno lo gonfiava di botte, e già prima dei 18 anni frequentava compagnie non molto edificanti. Giunto a Los Angeles, si trovò davanti a un mondo ostile, non per nulla cantava «benvenuti nella giungla». Nel 1992, parlando con Rolling Stone, spiegò: «La storia del razzismo è una stronzata. Ho usato una parola che era un tabù. Ero incazzato a causa di alcune persone di colore che stavano tentando di derubarmi. Volevo insultare quelle persone di colore in maniera specifica. Non volevo supportare il razzismo. Quando ho usato la parola froci, non stavo attaccando i gay. Attaccavo un elemento dei gay. Avevo appena sentito una storia su di un uomo affetto da Aids che era stato rilasciato dalla prigione della contea di Los Angelese e che si stava prostituendo. Ho avuto la mia buona razione di episodi con gay aggressivi e ne ero scocciato». Poi, aggiunse una riflessione un po' naif ma profonda: «Credo che ci sarà sempre una forma di razzismo - per quanto ci piacerebbe che ci fosse pace - perché le persone sono differenti. La cultura nera è differente». Difficile accusare i Guns di razzismo, anche perché Slash è per metà nero (e ha pure inciso il celebre riff di chitarra di Black or White di Michael Jackson). Nemmeno l'accusa di omofobia regge. Axl ebbe brutte esperienze, in gioventù: a 18 anni fu quasi violentato da un uomo mentre faceva l'autostop verso Los Angeles. Ma fu Elton John in persona a dichiarare: «Mai in un milione di anni ho pensato che Axl Rose fosse omofobo... combatterò per chiunque sia frainteso e travisato dagli idioti là fuori». Però, a quanto pare, questa volta la band ha preferito evitare polemiche. Il clima, rispetto agli anni Ottanta, è decisamente cambiato. Anche allora i Guns ebbero qualche guaio con la censura, per via del dipinto di Robert Williams piazzato sulla copertina di Appetite for destruction. Troppo estremo, fu rifiutato dai distributori, e la band dovette cambiare illustrazione. Ma un conto è un quadro, un altro conto sono i testi. Oggi che l'antirazzismo domina la scena, le rockstar si devono adeguare. Discorso diverso per i numerosi rapper che affollano la scena americana. Uno di loro, Kendrick Lamar, ha addirittura vinto il premio Pulitzer. Eppure nei suoi testi non mancano certo né l'omofobia né la misoginia. L'odio per gli omosessuali, gli attacchi ai bianchi e la riduzione della donna a oggetto sono capisaldi dell'immaginario hip hop. Però nessuno si scandalizza, nessuno chiede alle istituzioni del genere di emendare i propri capolavori. Si vede che il buonismo non è uguale per tutti. Ma se anche i ribelli rock si piegano, non siamo messi bene.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».






