
Fra le condizioni strappate da Nicola Zingaretti ai grillini per imbastire un governo, c'è il patto di non belligeranza in roccaforti come l'Emilia Romagna. Il Giglio magico attacca con Maria Elena Boschi: «Accordi? Mi pare complicato».Nicola Zingaretti apre la saracinesca del cantiere per le elezioni regionali, Maria Elena Boschi la abbassa. E così, dopo solo un giorno di tregua, nel Pd l'opposizione torna a compiere le sue manovre di disturbo contro il segretario, che ha appena coronato la sua operazione più delicata. I lettori della Verità conoscono già il punto nascosto su cui da una settimana batte il vero cuore pulsante della trattativa tra Movimento 5 stelle e Pd. Il nodo da sciogliere, come abbiamo scritto, non sono state un pugno di poltrone più o meno volatili, ma piuttosto un vero e proprio accordo politico per fronteggiare il prevedibile contropiede di Matteo Salvini. Lo abbiamo scritto tre giorni fa quando - nella grande euforia dell'accordo fatto - molti avevano trascurato il peso di questo importantissimo punto. Ieri, come per una maledizione ineluttabile, il tema di queste alleanze è ridiventato argomento di scontro dentro il partito. In ballo ci sono quattro regioni, ma ovviamente il vero punto di discrimine è l'Emilia Romagna. La regione storica dove per prima si radicò la sinistra, agli inizi dell'Ottocento. L'ultima in cui la Lega ha sfondato, diventando addirittura maggioranza nel voto delle ultime europee. Un uomo come Pierluigi Bersani lo considera una vera e propria minaccia: «Ué, ragazzi! Siamo lì, lì, filo filo: o tu riesci a costruire accordo politico serio, e adesso le condizioni ci sono, oppure il finale è già scritto». Persino Carlo Calenda, che sta rompendo con il Pd a livello nazionale, proprio sul tema dell'accordo con i pentastellati - se gli chiedi cosa farà in Emilia - si fa possibilista: «Non c'è nessuna relazione tra i due livelli», spiega, «ad un mio simpatizzante dell'Emilia Romagna direi di sostenere la coazione di sinistra. Primo perché Bonaccini è una brava persona. Secondo», aggiunge l'ex ministro, «perché lì c'è da salvare una esperienza di buongoverno. In questo caso è giusto», conclude Calenda, «fermare Salvini, che non è il fascismo ma una tigre di cartone». Ed è a questo punto che arrivano le parole dell'ex ministra Maria Elena Boschi, che entra nella delicatissima trattativa con la leggerezza di un elefante in cristalleria: «Un accordo? Mi sembra molto complicato», dice l'ex sottosegretaria parlando di possibili alleanze o patti di desistenza con i pentastellati alle prossime regionali, «una cosa è un accordo di governo, altra cosa un matrimonio politico. Non correrei troppo». Per non parlare del fuoco di sbarramento del finanziere David Serra, altro nume tutelare delle Leopolde che ha addirittura sparato a zero sull'accordo: «Il M5s», attacca, «rappresenta il concetto di parassita. Vivono solo sulle spalle altrui. Non creano nulla. Non costruiscono nulla. Prendono salari da chi paga le tasse e dicono no a tutto perché sono incapaci di fare qualsiasi cosa. Parassiti. Spero solo», conclude Serra, «che il governo non si faccia perché io non lo farei mai un governo col M5s». E poco dopo Serra si spinge ancora più in là: «Penso non si debba mai fare un governo con i populisti perché per definizione mentono», sostiene il finanziere, «usano la parola “popolo" per aumentare la disoccupazione e distruggere crescita e fiducia e finanziano tutto solo con debito». Segnali di malumore. E forse addirittura una valvola di sfogo, per gli uomini di Matteo Renzi. Solo una settimana fa Renzi conquistava i titoli e prendeva in mano l'agenda del Palazzo, con la sua proposta di un governo, adesso assiste alla nascita di un'alleanza politica. La regia di Zingaretti ha prodotto un voto semi unanime (perché in quella sede i renziani non potevano dire no, e il solo Matteo Richetti ha avuto la forza di votare contro). D'altra parte, mai come due giorni fa Zingaretti è stato esplicito: “Davanti a noi - ha spiegato il segretario parlando al suo stato maggiore - abbiamo elezioni difficili in Regioni diverse. L'Umbria tra poche settimane, poi Calabria, Veneto, la Toscana e l'Emilia Romagna. Appuntamenti fondamentali che dovremo affrontare stringendoci accanto a chi li combatterà in prima fila". Parole in cui si avverte quasi un tono di battaglia, un senso di preoccupazione. “Dobbiamo fare ogni sforzo - aggiunge Zingaretti - per costruire in ciascuna di queste realtà l'offerta politica e programmatica più credibile. Anche naturalmente sul versante di alleanze che il nuovo quadro politico potrà favorire, ma che comunque andranno verificate e costruite sempre sul primato di valori e programmi condivisi." Ma come si costituisce l'alleanza? Con un apparentamento elettorale? Con una desistenza velata? Zingaretti non ha dubbi. Servirà un vero e proprio patto, che giocoforza diventa un guanti di sfida, ma anche un pericolo. Perché tutti sono contenti che la partita “sul filo" si riapra (come dice Bersani), ma molti si chiedono anche cosa accadrebbe se la Lega di Lucia Borgonzoni dovesse vincere. Qualcuno ricorda l'unico precedente associabile. Quello del governo di Massimo D'Alema, che fu costretto a dimettersi dopo la sconfitta per 9 a 6 alle regionali 2000. Anche allora non c'era nessuna relazione apparente tra governo e amministrative. Ma il vento del centrodestra minò le basi di consenso del centrosinistra orfano, dopo il prodicidio.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.