2021-07-31
I pasticci di Di Maio sul dossier Egitto: il nuovo ambasciatore è un terno al lotto
Un mese di dubbi e veti, tre nomi che non convincono. Il Cairo non è solo i casi Regeni e Zaki, ma anche 3 miliardi di export.Non sarà probabilmente ricordato come un faraone della politica estera, ma Luigi Di Maio rischia di maledirsi da solo sulla scelta dell'ambasciatore in Egitto. Probabilmente la più delicata in assoluto, in questa fase, per l'Italia. Giampaolo Cantini, che in quattro anni ha gestito con equilibrio i rapporti con il Cairo, nonostante i casi Regeni e Zaki, a settembre lascerà la sede e il ministro annaspa da settimane nella ricerca del sostituto. In lizza ci sono al momento tre diplomatici, almeno due dei quali convincono ben poco il Quirinale. Ma soprattutto, dicono gli ambasciatori con maggiore esperienza, si rischia che il successore di Cantini non arrivi a far ricevere i manager italiani manco da un usciere di ministero. L'Egitto non è solo Giulio Regeni, torturato e ucciso nel gennaio del 2016 dalla polizia segreta egiziana, e neppure Patrick Zaki, lo studente bolognese tenuto in galera da mesi perché considerato un oppositore del regime di al Sisi. Per un qualunque Stato dell'Occidente, la tutela dei diritti umani non può che passare attraverso il mantenimento dei canali diplomatici (ed economici) aperti. E in Egitto, dove le l'export italiano vale oltre 3 miliardi l'anno, operano tantissime aziende italiane, dall'Eni a Fincantieri, passando per Ansaldo e Cementir, oltre a decine di piccole imprese che devono potersi sentire sicure sul territorio. Nei rapporti con al Sisi, Di Maio dovrebbe probabilmente prendere come faro le poche, secche, parole che Mario Draghi dedicò al presidente turco Recep Erdogan il 9 aprile scorso: «Con questi, chiamiamoli per quello che sono, “dittatori", bisogna esser franchi nell'esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni e visioni della società. Bisogna essere pronti a cooperare per assicurare gli interessi del proprio Paese». E si comincia dalla scelta dell'ambasciatore giusto. La scelta definitiva è attesa per la prossima settimana, dopo almeno un mese di rinvii e titubanze. Salvo colpi di scena dell'ultima ora, i nomi sulla scrivania del titolare della Farnesina sono tre, tutti in qualche modo bloccati da veti incrociati e dubbi vari. Il primo è quello di Natalia Quintavalle, ispettore generale del ministero dal 2019. È stata la prima donna console generale a New York, ma in trent'anni di carriera non ha mai fatto l'ambasciatore. E politicamente, secondo le voci che circolano alla Farnesina, è da sempre vicina alla sinistra e alle principali Ong. Insomma, oltre ad avere una grave carenza nel curriculum, Quintavalle rischierebbe di allargare il fossato con il Cairo. Per queste ragioni, anche al Quirinale sono molto preoccupati di una scelta simile. Ma i consiglieri di Sergio Mattarella non sono meno perplessi per l'ultima carta giocata da Di Maio, su suggerimento del segretario generale della Farnesina, Ettore Sequi, ovvero Michele Quaroni. L'attuale rappresentante aggiunto dell'Italia a Bruxelles, diplomatico di terza generazione (il nonno, Pietro Quaroni, è stato anche presidente Rai negli anni Sessanta), ha innanzitutto il medesimo problema della Quintavalle: molti incarichi politici e romani, ma non ha mai fatto l'ambasciatore. In più, Quaroni III è sul taccuino nero dell'Egitto (e degli Stati Uniti) perché in sede di G7 era contrario al programma di aiuti del Fondo monetario internazionale al Cairo, senza il quale avremmo probabilmente avuto i barconi pieni di egiziani diretti verso le nostre coste. Anche se parlare di «veto del Quirinale» su Quintavalle e Quaroni magari è un po' improprio, sta di fatto che Di Maio si trova in difficoltà su entrambi i nomi. E in quest'impasse si è infilato il compagno di partito Stefano Patuanelli, che di mestiere fa il ministro delle Politiche agricole, ma si vuole liberare del suo consigliere diplomatico, Luciano Pezzotti. Oltre ad esser stato console a Gerusalemme, Pezzotti almeno è stato ambasciatore, anche se in un posto dove parlano di più i fucili, ovvero Kabul. Quello che si raccoglie alla Farnesina, tra i diplomatici di maggior esperienza, è un interrogativo semplice quanto sconsolato: ma è possibile che Di Maio non sappia guardare i curriculum? Il rischio di fallire la scelta per il Cairo arriva in un momento delicato nei rapporti con Palazzo Chigi. Tutto è cominciato con l'incredibile pasticcio del blocco della vendita di armi ad Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, deciso in silenzio dalla Farnesina il 29 gennaio scorso, sulla base di una valutazione sbagliata, ovvero che le due nazioni fossero in guerra in Yemen (l'intervento invece è sotto l'egida Onu). Dopo la denuncia della Verità, ai primi di luglio Di Maio ha innescato una parziale retromarcia, con l'Italia che rischia di restare fuori da una torta che vale 58 miliardi per i prossimi anni. Draghi non l'ha presa benissimo e adesso è allo studio un cambio di passo: l'autorizzazione alla vendita di armi all'estero potrebbe passare o a una cabina di regìa interministeriale, o direttamente a Palazzo Chigi. Il rischio, per la Farnesina, è che passino a Palazzo Chigi anche le nomine nelle ambasciate più delicate, come il Cairo.