2021-05-05
I partiti premono: «Cartabia venga in Aula»
Le forze politiche si svegliano e chiedono al Guardasigilli, pronta a scaricare il dossier alla Procura generale della Cassazione, di riferire in Parlamento sullo scandalo Csm. Forza Italia alza il tiro: «Troppe toghe oscure, serve una commissione d'inchiesta».Carmelo Miceli vuole imporre ai pm un limite di 18-24 mesi per decidere sugli indagati.La politica si sveglia, seppure in ritardo, sulla bufera che ha investito il Csm: ieri i partiti di maggioranza e opposizione hanno chiesto al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, di riferire urgentemente in Parlamento sulla vicenda dei verbali con le dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara. La Cartabia dunque dovrà uscire dal letargo, probabilmente suo malgrado: ieri mattina, una scarna nota diffusa da «fonti del ministero della Giustizia» aveva fatto sapere che c'era stata una «telefonata ieri sera (l'altro ieri, ndr) tra la ministra della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione sulla nuova bufera che ha investito il Csm. Marta Cartabia e Giovanni Salvi», proseguivano le fonti, «hanno fatto il punto della situazione e convenuto che sia la Procura generale a valutare ora iniziative disciplinari, già preannunciate. La ministra della Giustizia Marta Cartabia segue con attenzione gli sviluppi della vicenda». E meno male! Mentre il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è anche il capo del Csm, continua a non dire mezza parola su questa incredibile vicenda, i partiti politici, come dicevamo, ieri si sono mossi, tutti, chiedendo all'ineffabile Guardasigilli di riferire in Parlamento. Il primo a intervenire nell'aula della Camera per affrontare la questione è stato il deputato di Azione-+Europa Enrico Costa, che ha detto di ritenere necessario che «si faccia chiarezza» su quanto sta accadendo. A ruota, Pierantonio Zanettin, di Forza Italia, ha chiesto alla Cartabia di riferire sulle «inquietanti vicende che riguardano la magistratura». «Riteniamo sia urgente», ha sottolineato Roberto Turri della Lega, «che il ministro venga in Aula al più presto». Alfredo Bazoli, del Pd, ha parlato di «una vicenda dai contorni oscuri, dal carattere ambiguo, con la tecnica del dossieraggio per gettare fango e discredito. Quindi anche noi», ha aggiunto il deputato dem, «riteniamo sia opportuno un chiarimento e ci associamo alla richiesta che la ministra riferisca in Aula il prima possibile». Identica richiesta da parte di Lucia Annibali di Italia viva e Federico Conte di Leu. Ha chiesto «chiarezza e trasparenza» Eugenio Saitta, del M5s. Dall'opposizione, Galeazzo Bignami, di Fdi, ha sottolineato che «è doveroso che il ministro riferisca in Aula». «Sarà mia premura riferire al presidente Fico», ha detto il vicepresidente Andrea Mandelli, presidente di turno dell'assemblea. Durissimo il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri: «È urgente e prioritaria la commissione d'inchiesta parlamentare sul Csm e sulla magistratura. Troppe toghe oscure oggi minano un'istituzione fondamentale. Servono pulizia e verità. Troppi tacciono. E anche le massime istituzioni devono parlare. Ma Davigo», ha aggiunto Gasparri, «perché non risponde pubblicamente? E perché tanti giornalisti che lo hanno esaltato non lo incalzano? Ha parlato con la presidenza della Repubblica? Con quali istituzioni si è confrontato?».Da una parte, dunque, il panorama politico, dall'altra il mondo della magistratura che vive in stato di fibrillazione. Inevitabilmente, visto che il Csm e quattro Procure della Repubblica - Milano, Brescia, Perugia e Roma - sono coinvolte nel caso dei verbali in cui Amara parla della presunta loggia segreta. Fino ad oggi l'ex consulente di Eni non ha consegnato agli inquirenti la lista in cui figurerebbero 40 nomi e avrebbe detto che la conserva Giuseppe Calafiore all'estero. Il clima più teso, dicevamo, si respira a Palazzo dei Marescialli, dato che uno dei protagonisti principali di questa storia è Piercamillo Davigo, il quale proprio oggi verrà ascoltato dai pm di Roma. A distanza di poco più di un anno, era l'aprile del 2020 quando l'ex toga di Mani pulite riceveva il materiale dal pm Paolo Storari (che rischia un procedimento per incompatibilità ambientale), ci si interroga su chi al Csm abbia visto le carte provenienti da Milano. Secondo la versione fornita da Davigo, il vicepresidente David Ermini e il procuratore generale della Cassazione erano a conoscenza dei verbali di Amara. Eppure dallo stesso Csm circola la voce che almeno otto consiglieri sapessero, tra questi il laico Fulvio Gigliotti e i togati di Area (corrente progressista) Giuseppe Cascini e Giuseppe Marra di A&i. Ieri si è mosso anche il tribunale di Milano: il suo presidente Roberto Bichi ha acquisito dalla Procura di Brescia gli atti del fascicolo archiviato che era stato aperto dopo che i pm milanesi, su decisione del loro capo Francesco Greco, avevano trasmesso ai colleghi passaggi di un verbale di Amara in cui gettava un'ombra sui giudici del processo Eni-Nigeria. Greco dovrà anche presentare due relazioni sulla vicenda Amara: una al procuratore generale della Cassazione Salvi e l'altra a Francesca Nanni, pg della Corte di Appello di Milano. Ma non è finita qui, perché la Procura di Brescia, competente in materia penale sui colleghi meneghini, ha formalmente aperto un fascicolo. Domani la decisione del tribunale del Riesame di Roma sulla restituzione del materiale sequestrato all'ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, indagata per calunnia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-partiti-premono-cartabia-venga-in-aula-2652875465.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ora-i-dem-riabilitano-berlusconi-riesumando-il-processo-breve" data-post-id="2652875465" data-published-at="1620153472" data-use-pagination="False"> Ora i dem «riabilitano» Berlusconi riesumando il processo breve Mai più indagati per sempre. Basta indagini che non si sa quando iniziano, quando finiscono e, soprattutto, come finiscono. Con l'effetto di trasformare per anni e anni un qualunque cittadino in una specie di imputato fantasma, condannato ancor prima di una sentenza a perdere serenità, affetti, offerte di lavoro, solo e unicamente per l'inerzia del pm di turno. L'occasione di mettere fine a una delle storture più gravi dei processi italiani è nella legge delega per la riforma del rito penale, in discussione alla Camera in commissione Giustizia, dove si sta facendo largo l'idea che se si vuole limitare il fenomeno della prescrizione, si deve intervenire innanzitutto sulle indagini preliminari. Un vecchio cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, che però oggi è stato fatto proprio dal Pd, andando oltre, con una serie di emendamenti, perfino al già puntuale intervento dell'Unione camere penali italiane (Ucpi). Il provvedimento base è quello varato dal governo Conte bis la scorsa primavera, 18 articoletti preparati dall'allora ministro Alfonso Bonafede, volenterosi, ma scoordinati e poco ambiziosi. Adesso che in Via Arenula c'è Marta Cartabia, i partiti che appoggiano il governo di Mario Draghi hanno capito che in Parlamento la delega può essere migliorata. E in commissione a Montecitorio, ieri, l'avvocato siciliano e deputato del Pd Carmelo Miceli ha presentato una serie di emendamenti assai garantisti, che guardano apertamente anche alle posizioni di Azione, Italia viva, di gran parte di Forza Italia e della Lega. In sostanza, grillini a parte, le proposte di Miceli hanno buona possibilità di successo, se la Camera non farà l'errore di spaccarsi nei soliti due fronti, ovvero «amici dei magistrati» contro «amici degli avvocati». Le novità mirano a imporre ai pm, dopo 18-24 mesi dall'iscrizione dell'indagato (a seconda della gravità dei reati), di rispondere entro un tempo certo e ragionevolmente breve (tra uno e sei mesi) su come intendano definire il procedimento: richiesta di archiviazione, o richiesta di rinvio a giudizio. E in caso di inerzia, scatta l'obbligo di discovery delle indagini di fronte al Gip. Lo scopo è evitare che si ripetano casi purtroppo comuni, come quelli di indagati per truffa aggravata tra privati che sono rimasti nel limbo per quattro e mezzo. Del resto, le ultime statistiche del ministero della Giustizia (primo semestre 2018) dicono che il 53% delle prescrizioni è dovuto a indagini lumaca. Di fatto, l'istanza immaginata dagli emendamenti (rivolta al procuratore capo) mette in mora il pm pigro o confusionario. Nel caso non ci siano persone offese del reato, l'indagato chiede semplicemente la definizione della sua posizione. Nel caso vi sia una persona offesa, l'istanza viene notificata anche a essa, in modo che possa naturalmente «controllare» di fronte a un giudice che cosa intende fare davvero la Procura. «Con il Recovery abbiamo un'occasione unica, snellire la giustizia, non solo civile, ma anche penale», spiega Miceli alla Verità. Perché gli stranieri non verranno mai in Italia a investire sulle grandi opere infrastrutturali se poi basta una sequestro preventivo per un presunto reato ambientale (deciso magari da un pm di una piccola Procura a caccia di notorietà), per bloccare un cantiere per anni e anni. La proposta di tempi certi, aggiunge il deputato dem, «consente allo stesso pm, che magari non aveva tempo di scrivere e motivare la richiesta di proscioglimento, di rispondere in tempi rapidi all'istanza dell'indagato». Non che la delega del governo non si fosse posta il problema, ma la soluzione adottata era stata bocciata anche dai penalisti. In particolare, in un documento dei primi di aprile, l'Ucpi lamentava «l'assenza di qualsiasi sanzione» concreta per i pm dormiglioni. E il fatto che anche «la discovery resta fine a se stessa, non essendo finalizzata ad un contraddittorio dinanzi a un giudice terzo». Peraltro, osserva ancora l'Ucpi, «la negligenza rilevante ai fini disciplinari è solo quella inescusabile». Che da noi è una mosca bianca.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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