True
2018-06-11
La Borsa è il posto migliore per mettere al sicuro il proprio fondo pensione
True
www.youtube.com
- Un po' alla volta gli italiani cominciano a sentire la necessità della previdenza complementare. Secondo la relazione annuale Covip, gli strumenti integrativi rendono in ogni caso più del Tfr.
- Al Nord Italia va quasi il 60% della raccolta, mentre il Centro italia resta al palo. Il secondo pilastro non sfonda in Molise e in Basilicata: hanno meno dell'1% di aderenti.
- Cresce il numero di iscritti ma calano i versamenti. Uno su quattro non paga. Pesa la mancanza di liquidità, soprattutto tra i lavoratori under 30.
Lo speciale contiene tre articoli
Partiamo da una considerazione: investire in un fondo pensione oggi conviene molto di più che attendere la rivalutazione del Tfr. A dirlo è la relazione annuale Covip, l'autorità amministrativa indipendente che ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione. Secondo lo studio, investire in un prodotto della previdenza complementare in media, nel 2017, ha permesso ritorni netti (perciò considerando nel computo tutti i costi) tra il 2% e il 5% circa in base al tipo di investimento.
Il merito di questi buoni risultati è in gran parte dei mercati azionari. L'andamento positivo degli ultimi anni ha infatti sostenuto i rendimenti, favoriti in Italia anche da un regime fiscale agevolato che permette di scaricare fiscalmente quanto versato. In particolare, i fondi pensione negoziali e i fondi aperti hanno reso in media rispettivamente il 2,6% e il 3,3%. Per i Pip nuovi di ramo III il rendimento medio è stato del 2,2% e per le gestioni separate di ramo I l'1,9%. Nello stesso periodo il Tfr si è rivalutato, al netto delle tasse, dell'1,7%. Sempre considerando il 2017, i comparti azionari sono quelli che hanno reso in assoluto di più: il 5,9% nel caso dei fondi negoziali, il 7,2% in quello dei fondi aperti e il 3,2% per chi ha scelto il ramo III.
Nel periodo dal 2008 al 2017, molto difficile a causa della turbolenza dei mercati finanziari, il rendimento netto medio annuo composto dei fondi pensione negoziali è stato del 3,3%, quello dei fondi aperti del 3%, dei Pip del 2,8% per le gestioni di ramo I e del 2,2% per quelle di ramo III, sempre superiore anche in questo caso rispetto alla rivalutazione del Tfr, che è stata del 2,1%. A livello di costi, i Pip sono i prodotti più onerosi: su un orizzonte temporale di dieci anni, l'indicatore sintetico dei costi è in media del 2,2% (1,9% per le gestioni separate di ramo I e 2,3% per le gestioni di ramo III), mentre si conferma la minore onerosità dei fondi pensione negoziali (0,4%) e dei fondi pensione aperti (1,3%).
Come dicevamo, dunque, gli strumenti azionari puri sono quelli che, in tutti i tipi di fondi pensione, hanno garantito i rendimenti migliori, seguiti da quelli bilanciati e, con molta distanza, dai prodotti obbligazionari. Questi ultimi si dividono in due categorie. I prodotti pensionistici che puntano sull'obbligazionario puro (e che hanno perso più di tutti con risultati dello zero virgola) e quelli misti che hanno fatto leggermente meglio. Il consiglio dunque è di scegliere prodotti azionari o bilanciati con la prospettiva di tenere a lungo l'investimento. In questo modo le difficoltà dei mercati verranno attenuate anno dopo anno.
Secondo lo studio Covip, alla fine del 2017, i fondi pensione in Italia erano 415: 35 fondi negoziali, 43 fondi aperti, 77 piani individuali pensionistici, 259 fondi preesistenti (quelli prima dell'emanazione del decreto legislativo 124 del 1993 che istituisce la previdenza complementare) e Fondinps (un fondo residuale istituito nel 2005 e al quale confluisce il Tfr dei lavoratori decidono di investire parte del salario in una forma complementare pur non avendo un fondo negoziale di categoria). Rispetto al 2016, si è registrata una riduzione di 37 prodotti. Di questi, 35 fondi erano preesistenti.
Grazie a tutti questi prodotti, dal 2005 (anno in cui c'è stata la riforma della previdenza integrativa in Italia) alla fine del 2017 gli italiani avevano versato nella previdenza complementare 162,3 miliardi di euro, un valore in aumento del 7,3% rispetto all'anno precedente (con una media di 2620 euro a contribuente): un ammontare pari al 9,5% del prodotto interno lordo e al 3,7% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.
I contributi raccolti solo nel 2017 sono stati pari a 14,9 miliardi di euro, di cui quasi tre quarti in arrivo dalle forme previdenziali di nuova istituzione. I contributi destinati ai fondi aperti e ai Pip sono cresciuti di circa il 9%, mentre l'incremento nei fondi negoziali è stato soltanto al 3,5%. In compenso, secondo la Covip, nel 2017, il sistema della previdenza complementare ha dato ai suoi contribuenti 7,6 miliardi di euro. I riscatti (chi cioè ha avuto bisogno di denaro prima di smettere di lavorare) sono stati pari a quasi 2,2 miliardi di euro, mentre le anticipazioni (chi ha chiesto solo una parte del capitale prima del tempo), pari a oltre 2 miliardi di euro, sono in linea con il valore elevato del 2016.
Quello che è chiaro dai dati forniti dalla Covip, è che gli italiani stanno sempre più entrando nell'ordine di idee che la pensione pubblica non sarà più sufficiente e che, pertanto, diventa indispensabile correre ai ripari. L'importante, però, è anche scegliere il modo migliore per farlo e i dati forniti dalla commissione di vigilanza sui fondi pensione servono proprio a questo.
Gianluca Baldini
INFOGRAFICA
La Lombardia vale un quinto dell'intero sistema nazionale
A un primo sguardo verrebbe da dire che il Sud sia la parte dell'Italia con meno iscritti alla pensione complementare, perché tradizionalmente meno abbiente. Invece, anche se di poco, è il Centro Italia l'area con meno iscritti. Ampiamente in prima posizione troviamo invece il Nord. L'analisi arriva dalla relazione annuale della Covip, la commissione di vigilanza sulle pensioni, che dal 2016 ha la possibilità di indicare la composizione demografica degli iscritti alle diverse forme di previdenza complementare. Su 7,56 milioni di italiani che hanno una pensione integrativa, il 56,7% arriva dal Nord Italia (il 25% dal Nord Est e il 31,8% dal Nord Ovest). L'Italia meridionale e le isole rappresentano invece il 23,2% degli iscritti, mentre il centro il 19,9%.
Dando uno sguardo alle Regioni, solo la Lombardia vale un quinto di tutti il sistema di previdenza complementare italiano con il 20,2% degli iscritti. In seconda posizione troviamo il Veneto con il 10,5%. Medaglia di bronzo all'Emilia Romagna con l'8,6%. Ci sono poi il Piemonte con l'8,5% del totale e il Lazio, che con Roma dovrebbe dare un notevole apporto al sistema, ma che in realtà è in quinta posizione con l'8,3%. Seguono poi la Toscana (7,2%) e la Campania con il 6%. Importante anche l'apporto della Sicilia con il 5,3%, quello della Puglia con il 4,7% e del Trentino Alto Adige con il 3,4%.
Ciò che stupisce, però, è che ancora oggi ci siano ancora regioni dove la previdenza integrativa non esista o quasi. In Valle d'Aosta c'è lo 0,3% degli iscritti del Paese, in Basilicata lo 0,8% e in Molise lo 0,5%. Certo, si tratta di Regione poco popolose, ma su 7,6 milioni di italiani, facendo due calcoli, si tratta di pochissime migliaia di persone. Davvero poche anche per quelle aree.
A livello di prodotti, il Nord Ovest (che vale poco meno di un terzo di tutta Italia) si divide abbastanza equamente. I fondi negoziali sono stati scelti dal 31,3% degli iscritti, il 33,9% ha scelto un fondo aperto, il 29,9 un piano individuale pensionistico e il 41,6% si è affidato a un fondo preesistente. Simile la scelta di prodotti nell'area nordorientale del Paese. Il 25,7% ha scelto un fondo negoziale, il 28,6% uno aperto, il 21,9% un fondo preesistente e il 24% un Pip. Anche al centro la divisione tra i quattro tipi di prodotti di previdenza complementare è piuttosto omogenea con circa il 20% per ogni strumento. Le differenze maggiori si riscontrano invece al Sud. In quest'area la fanno da padrone i fondi negoziali (probabilmente perché inclusi all'interno di un contratto di lavoro) con il 24,4% degli iscritti e i Pip con il 25,2%. I fondi aperti, che può comprare qualunque lavoratore, sono stati scelti solo dal 18% dei contribuenti. Ancora più bassa la quota dei prodotti pensionistici preesistenti (15%).
Da questa fotografia si intuisce dunque come l'Italia, in termini di pensione complementare, sia ancora a macchia di leopardo, con zone molto attive (come la Lombardia o il Veneto) e aree in cui non ci sono abbastanza soldi per sottoscrivere una pensione integrativa.
Gianluca Baldini
Crescono gli iscritti ma uno su quattro non fa versamenti
Continua a crescere il numero degli iscritti alla previdenza complementare, ma quasi uno su quattro non fa versamenti. È quanto emerge dalla relazione annuale della Covip, presentata alla Camera dei deputati dal presidente Mario Padula. Alla fine del 2017, spiega la commissione sui fondi pensione, il numero di iscritti alla previdenza complementare era di 7,6 milioni, in crescita del 6,1% rispetto all'anno precedente, per un totale di circa 8,3 milioni di posizioni in essere (che includono di posizioni doppie o multiple, che fanno capo allo stesso iscritto).
I contributi per singolo iscritto sono stati in media di 2.620 euro nell'arco dell'anno, ma il numero delle posizioni sulle quali nel corso dell'anno non sono confluiti versamenti è stato di 2,1 milioni, in crescita del 14% rispetto al 2016: il 23,5% del totale degli iscritti alla previdenza complementare (1,8 milioni), quasi un quarto, non ha effettuato contribuzioni nel 2017.
Ma come hanno investito i loro soldi i contribuenti italiani? L'allocazione degli investimenti effettuati dai fondi pensione, sottolinea la Covip, mostra rispetto agli scorsi anni una tendenza alla maggiore diversificazione tra tipologie di titoli. A fine 2017, la quota degli investimenti in titoli di Stato è stata pari al 41,5%, diminuendo di cinque punti percentuali rispetto all'anno precedente; per circa due terzi la diminuzione è imputabile ai titoli di stato italiani, la cui quota a fine 2017 è scesa al 22,7%. Sono invece aumentate le quote degli investimenti in altri tipi di obbligazioni (pari al 16,6%), in titoli azionari (pari al 17,7%) e in fondi comuni di investimento (pari al 14,4%). Anche i depositi si sono mostrati in aumento, avendo raggiunto il 7,2% del patrimonio da investire. Gli investimenti immobiliari, in forma diretta e indiretta, presenti quasi esclusivamente nei fondi preesistenti, rappresentano il 2,9% del patrimonio, in diminuzione però di 0,4 punti percentuali rispetto al 2016.
Il problema dunque è che, in parole povere, c’è una gran fetta di italiani che la previdenza integrativa non se la può permettere perché non ha sufficiente liquidità. Tra questi chi ha maggior problemi sono i lavoratori intorno ai 30 anni. «I giovani rimangono ai margini del sistema di previdenza complementare, anche per effetto delle difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro con continuità di rapporto e adeguatezza di retribuzione. Ne va della loro copertura previdenziale», ha detto il presidente della Covip, Mario Padula, presentando la relazione annuale al Parlamento.
«Al di sotto dei 34 anni», ha continuato, «la partecipazione alla previdenza complementare, (che in quello scaglione è del 19%), è di oltre un terzo inferiore rispetto alle fasce di età più mature e la contribuzione è meno della metà. Lo stesso vale per le donne, la cui partecipazione è più bassa degli uomini: 25,4 contro 31,4% in media, forbice che si mantiene su tutte le classi di età; la contribuzione è di un quinto inferiore», ha concluso.
Con questi numeri, non resta che capire come si muoverà il neonato governo italiano. Da un lato la pensione pubblica non potrà garantire ai futuri pensionati uno stile di vita dignitoso, dall’altro chi oggi lavora, spesso, non può permettersi una pensione integrativa. Un problema serissimo che, fino a oggi, nessun governo è mai riuscito a risolvere.
Gianluca Baldini
Continua a leggereRiduci
Un po' alla volta gli italiani cominciano a sentire la necessità della previdenza complementare. Secondo la relazione annuale Covip, gli strumenti integrativi rendono in ogni caso più del Tfr. Al Nord Italia va quasi il 60% della raccolta, mentre il Centro italia resta al palo. Il secondo pilastro non sfonda in Molise e in Basilicata: hanno meno dell'1% di aderenti. Cresce il numero di iscritti ma calano i versamenti. Uno su quattro non paga. Pesa la mancanza di liquidità, soprattutto tra i lavoratori under 30. Lo speciale contiene tre articoli Partiamo da una considerazione: investire in un fondo pensione oggi conviene molto di più che attendere la rivalutazione del Tfr. A dirlo è la relazione annuale Covip, l'autorità amministrativa indipendente che ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione. Secondo lo studio, investire in un prodotto della previdenza complementare in media, nel 2017, ha permesso ritorni netti (perciò considerando nel computo tutti i costi) tra il 2% e il 5% circa in base al tipo di investimento. Il merito di questi buoni risultati è in gran parte dei mercati azionari. L'andamento positivo degli ultimi anni ha infatti sostenuto i rendimenti, favoriti in Italia anche da un regime fiscale agevolato che permette di scaricare fiscalmente quanto versato. In particolare, i fondi pensione negoziali e i fondi aperti hanno reso in media rispettivamente il 2,6% e il 3,3%. Per i Pip nuovi di ramo III il rendimento medio è stato del 2,2% e per le gestioni separate di ramo I l'1,9%. Nello stesso periodo il Tfr si è rivalutato, al netto delle tasse, dell'1,7%. Sempre considerando il 2017, i comparti azionari sono quelli che hanno reso in assoluto di più: il 5,9% nel caso dei fondi negoziali, il 7,2% in quello dei fondi aperti e il 3,2% per chi ha scelto il ramo III. Nel periodo dal 2008 al 2017, molto difficile a causa della turbolenza dei mercati finanziari, il rendimento netto medio annuo composto dei fondi pensione negoziali è stato del 3,3%, quello dei fondi aperti del 3%, dei Pip del 2,8% per le gestioni di ramo I e del 2,2% per quelle di ramo III, sempre superiore anche in questo caso rispetto alla rivalutazione del Tfr, che è stata del 2,1%. A livello di costi, i Pip sono i prodotti più onerosi: su un orizzonte temporale di dieci anni, l'indicatore sintetico dei costi è in media del 2,2% (1,9% per le gestioni separate di ramo I e 2,3% per le gestioni di ramo III), mentre si conferma la minore onerosità dei fondi pensione negoziali (0,4%) e dei fondi pensione aperti (1,3%). Come dicevamo, dunque, gli strumenti azionari puri sono quelli che, in tutti i tipi di fondi pensione, hanno garantito i rendimenti migliori, seguiti da quelli bilanciati e, con molta distanza, dai prodotti obbligazionari. Questi ultimi si dividono in due categorie. I prodotti pensionistici che puntano sull'obbligazionario puro (e che hanno perso più di tutti con risultati dello zero virgola) e quelli misti che hanno fatto leggermente meglio. Il consiglio dunque è di scegliere prodotti azionari o bilanciati con la prospettiva di tenere a lungo l'investimento. In questo modo le difficoltà dei mercati verranno attenuate anno dopo anno. Secondo lo studio Covip, alla fine del 2017, i fondi pensione in Italia erano 415: 35 fondi negoziali, 43 fondi aperti, 77 piani individuali pensionistici, 259 fondi preesistenti (quelli prima dell'emanazione del decreto legislativo 124 del 1993 che istituisce la previdenza complementare) e Fondinps (un fondo residuale istituito nel 2005 e al quale confluisce il Tfr dei lavoratori decidono di investire parte del salario in una forma complementare pur non avendo un fondo negoziale di categoria). Rispetto al 2016, si è registrata una riduzione di 37 prodotti. Di questi, 35 fondi erano preesistenti. Grazie a tutti questi prodotti, dal 2005 (anno in cui c'è stata la riforma della previdenza integrativa in Italia) alla fine del 2017 gli italiani avevano versato nella previdenza complementare 162,3 miliardi di euro, un valore in aumento del 7,3% rispetto all'anno precedente (con una media di 2620 euro a contribuente): un ammontare pari al 9,5% del prodotto interno lordo e al 3,7% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. I contributi raccolti solo nel 2017 sono stati pari a 14,9 miliardi di euro, di cui quasi tre quarti in arrivo dalle forme previdenziali di nuova istituzione. I contributi destinati ai fondi aperti e ai Pip sono cresciuti di circa il 9%, mentre l'incremento nei fondi negoziali è stato soltanto al 3,5%. In compenso, secondo la Covip, nel 2017, il sistema della previdenza complementare ha dato ai suoi contribuenti 7,6 miliardi di euro. I riscatti (chi cioè ha avuto bisogno di denaro prima di smettere di lavorare) sono stati pari a quasi 2,2 miliardi di euro, mentre le anticipazioni (chi ha chiesto solo una parte del capitale prima del tempo), pari a oltre 2 miliardi di euro, sono in linea con il valore elevato del 2016. Quello che è chiaro dai dati forniti dalla Covip, è che gli italiani stanno sempre più entrando nell'ordine di idee che la pensione pubblica non sarà più sufficiente e che, pertanto, diventa indispensabile correre ai ripari. L'importante, però, è anche scegliere il modo migliore per farlo e i dati forniti dalla commissione di vigilanza sui fondi pensione servono proprio a questo. Gianluca Baldini INFOGRAFICA !function(e,t,n,s){var i="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName(t)[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(s)&&(s=d+s),window[i]&&window[i].initialized)window[i].process&&window[i].process();else if(!e.getElementById(n)){var a=e.createElement(t);a.async=1,a.id=n,a.src=s,o.parentNode.insertBefore(a,o)}}(document,"script","infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js"); <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-mercati-azionari-spingono-i-fondi-pensione-ritorni-fino-al-5-2576520371.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-lombardia-vale-un-quinto-dell-intero-sistema-nazionale" data-post-id="2576520371" data-published-at="1765241717" data-use-pagination="False"> La Lombardia vale un quinto dell'intero sistema nazionale A un primo sguardo verrebbe da dire che il Sud sia la parte dell'Italia con meno iscritti alla pensione complementare, perché tradizionalmente meno abbiente. Invece, anche se di poco, è il Centro Italia l'area con meno iscritti. Ampiamente in prima posizione troviamo invece il Nord. L'analisi arriva dalla relazione annuale della Covip, la commissione di vigilanza sulle pensioni, che dal 2016 ha la possibilità di indicare la composizione demografica degli iscritti alle diverse forme di previdenza complementare. Su 7,56 milioni di italiani che hanno una pensione integrativa, il 56,7% arriva dal Nord Italia (il 25% dal Nord Est e il 31,8% dal Nord Ovest). L'Italia meridionale e le isole rappresentano invece il 23,2% degli iscritti, mentre il centro il 19,9%.Dando uno sguardo alle Regioni, solo la Lombardia vale un quinto di tutti il sistema di previdenza complementare italiano con il 20,2% degli iscritti. In seconda posizione troviamo il Veneto con il 10,5%. Medaglia di bronzo all'Emilia Romagna con l'8,6%. Ci sono poi il Piemonte con l'8,5% del totale e il Lazio, che con Roma dovrebbe dare un notevole apporto al sistema, ma che in realtà è in quinta posizione con l'8,3%. Seguono poi la Toscana (7,2%) e la Campania con il 6%. Importante anche l'apporto della Sicilia con il 5,3%, quello della Puglia con il 4,7% e del Trentino Alto Adige con il 3,4%. Ciò che stupisce, però, è che ancora oggi ci siano ancora regioni dove la previdenza integrativa non esista o quasi. In Valle d'Aosta c'è lo 0,3% degli iscritti del Paese, in Basilicata lo 0,8% e in Molise lo 0,5%. Certo, si tratta di Regione poco popolose, ma su 7,6 milioni di italiani, facendo due calcoli, si tratta di pochissime migliaia di persone. Davvero poche anche per quelle aree. A livello di prodotti, il Nord Ovest (che vale poco meno di un terzo di tutta Italia) si divide abbastanza equamente. I fondi negoziali sono stati scelti dal 31,3% degli iscritti, il 33,9% ha scelto un fondo aperto, il 29,9 un piano individuale pensionistico e il 41,6% si è affidato a un fondo preesistente. Simile la scelta di prodotti nell'area nordorientale del Paese. Il 25,7% ha scelto un fondo negoziale, il 28,6% uno aperto, il 21,9% un fondo preesistente e il 24% un Pip. Anche al centro la divisione tra i quattro tipi di prodotti di previdenza complementare è piuttosto omogenea con circa il 20% per ogni strumento. Le differenze maggiori si riscontrano invece al Sud. In quest'area la fanno da padrone i fondi negoziali (probabilmente perché inclusi all'interno di un contratto di lavoro) con il 24,4% degli iscritti e i Pip con il 25,2%. I fondi aperti, che può comprare qualunque lavoratore, sono stati scelti solo dal 18% dei contribuenti. Ancora più bassa la quota dei prodotti pensionistici preesistenti (15%).Da questa fotografia si intuisce dunque come l'Italia, in termini di pensione complementare, sia ancora a macchia di leopardo, con zone molto attive (come la Lombardia o il Veneto) e aree in cui non ci sono abbastanza soldi per sottoscrivere una pensione integrativa.Gianluca Baldini <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/i-mercati-azionari-spingono-i-fondi-pensione-ritorni-fino-al-5-2576520371.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="crescono-gli-iscritti-ma-uno-su-quattro-non-fa-versamenti" data-post-id="2576520371" data-published-at="1765241717" data-use-pagination="False"> Crescono gli iscritti ma uno su quattro non fa versamenti Continua a crescere il numero degli iscritti alla previdenza complementare, ma quasi uno su quattro non fa versamenti. È quanto emerge dalla relazione annuale della Covip, presentata alla Camera dei deputati dal presidente Mario Padula. Alla fine del 2017, spiega la commissione sui fondi pensione, il numero di iscritti alla previdenza complementare era di 7,6 milioni, in crescita del 6,1% rispetto all'anno precedente, per un totale di circa 8,3 milioni di posizioni in essere (che includono di posizioni doppie o multiple, che fanno capo allo stesso iscritto).I contributi per singolo iscritto sono stati in media di 2.620 euro nell'arco dell'anno, ma il numero delle posizioni sulle quali nel corso dell'anno non sono confluiti versamenti è stato di 2,1 milioni, in crescita del 14% rispetto al 2016: il 23,5% del totale degli iscritti alla previdenza complementare (1,8 milioni), quasi un quarto, non ha effettuato contribuzioni nel 2017.Ma come hanno investito i loro soldi i contribuenti italiani? L'allocazione degli investimenti effettuati dai fondi pensione, sottolinea la Covip, mostra rispetto agli scorsi anni una tendenza alla maggiore diversificazione tra tipologie di titoli. A fine 2017, la quota degli investimenti in titoli di Stato è stata pari al 41,5%, diminuendo di cinque punti percentuali rispetto all'anno precedente; per circa due terzi la diminuzione è imputabile ai titoli di stato italiani, la cui quota a fine 2017 è scesa al 22,7%. Sono invece aumentate le quote degli investimenti in altri tipi di obbligazioni (pari al 16,6%), in titoli azionari (pari al 17,7%) e in fondi comuni di investimento (pari al 14,4%). Anche i depositi si sono mostrati in aumento, avendo raggiunto il 7,2% del patrimonio da investire. Gli investimenti immobiliari, in forma diretta e indiretta, presenti quasi esclusivamente nei fondi preesistenti, rappresentano il 2,9% del patrimonio, in diminuzione però di 0,4 punti percentuali rispetto al 2016.Il problema dunque è che, in parole povere, c’è una gran fetta di italiani che la previdenza integrativa non se la può permettere perché non ha sufficiente liquidità. Tra questi chi ha maggior problemi sono i lavoratori intorno ai 30 anni. «I giovani rimangono ai margini del sistema di previdenza complementare, anche per effetto delle difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro con continuità di rapporto e adeguatezza di retribuzione. Ne va della loro copertura previdenziale», ha detto il presidente della Covip, Mario Padula, presentando la relazione annuale al Parlamento.«Al di sotto dei 34 anni», ha continuato, «la partecipazione alla previdenza complementare, (che in quello scaglione è del 19%), è di oltre un terzo inferiore rispetto alle fasce di età più mature e la contribuzione è meno della metà. Lo stesso vale per le donne, la cui partecipazione è più bassa degli uomini: 25,4 contro 31,4% in media, forbice che si mantiene su tutte le classi di età; la contribuzione è di un quinto inferiore», ha concluso.Con questi numeri, non resta che capire come si muoverà il neonato governo italiano. Da un lato la pensione pubblica non potrà garantire ai futuri pensionati uno stile di vita dignitoso, dall’altro chi oggi lavora, spesso, non può permettersi una pensione integrativa. Un problema serissimo che, fino a oggi, nessun governo è mai riuscito a risolvere.Gianluca Baldini
iStock
Essi, infatti, incidevano il tronco della Manilkara chicle e raccoglievano la sostanza che ne colava, per poi bollirla fino al raggiungimento della consistenza giusta per appallottolarla in pezzetti da masticare. La parola chicle è il nome in lingua nahuatl della pianta da cui i Maya estraevano la gomma, la Manikara chicle, appunto, che è una pianta angiosperma dicotiledone della famiglia delle Sapotaceae diffuse nei Paesi dell’America centrale e in Colombia, un bell’albero sempreverde dalla grande chioma che arriva fino a 40 metri di altezza, presente dalla messicana Veracruz fin le coste atlantiche della Colombia. L’albero della Manikara chicle cresce nelle foreste, fino a 1.100 metri sul livello del mare, pensate, e non solo i Maya ne masticavano le palline, ma, in un certo senso, anche noi. Il nome che comunemente si dà in Piemonte alla gomma da masticare, cicles, deriva proprio dal nome di questa pianta, arrivato da noi attraverso una marca di gomme da masticare americana negli anni appena successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Da cicles deriva anche cicca, altro modo di chiamare colloquialmente il chewing gum. E proprio dalla corteccia della Manikara chicle e da altre piante congeneri nasce questo lattice che in passato si usava come unica materia prima gommosa (e naturale) per preparare le gomme da masticare. Le tesi sul passaggio dalla gomma naturale masticata dai Maya a quella di produzione occidentale sono varie. Secondo alcuni, la gomma da masticare occidentale nasce per riciclare quantitativi di quel lattice dei Maya esportato negli Usa, però senza successo. Nel 1845, il generale messicano Santa Ana, in fuga a New York dopo un colpo di Stato che lo aveva esautorato dal potere, propone all’imprenditore Thomas Adams una partita di chicle, che però non supera il processo di vulcanizzazione e non va bene per l’uso industriale. Così Adams pensa di aggiungere sciroppo di zucchero e un aroma (ovvero sassofrasso o liquirizia) e nel 1866 lancia il bon bon da ciancicare sul mercato alimentare, col nome di Adams - New York Chewing gum. Chewing gum significa letteralmente gomma masticante, cioè masticabile, ossia da masticare. La gomma da masticare si fa strada nel cuore e soprattutto nelle bocche degli americani: nel 1885 l’imprenditore di Cleveland William J. White sostituisce lo sciroppo di zucchero con lo sciroppo di glucosio, più performante nella miscelazione con altri ingredienti, e aromatizza con quello che poi diventerà l’archetipo assoluto della gomma da masticare, anche perché rinfresca l’alito, la menta piperita. Nel 1893 William Wrigley crea due nuove gomme da masticare, la Spearmint e Juicy fruit. Secondo altre tesi, prima di Thomas Adams il primo a commerciare una gomma da masticare, ottenuta però dalla linfa di abete rosso, fu John B. Curtis, che nel 1848 produsse la State of Maine Pure Spruce Gum, una ricetta segreta che oltretutto non brevettò mai. La gomma da masticare arriva in Europa, coi soldati americani, durante la Prima Guerra Mondiale, in Francia. Da noi, arriva con la Liberazione che pone fine alla Seconda Guerra Mondiale. Per un po’ di tempo gli italiani masticano americano. Poi, il dolcificio Perfetti di Lainate, nato infatti nel 1946, inizia a produrre chewing gum italiano con il nome, giustamente americano, Brooklyn. Il formato non è sferico ma a lastrina, lo slogan noto a tutti, «la gomma del ponte», sottinteso di Brooklyn, insomma la gomma americana.
Oggi più che mai, ma ben prima di oggi, più o meno a partire dagli anni Sessanta, il chewing gum abbandona la sua fattezza totalmente naturale e diventa sintetico, del tutto o in gran parte sintetico. È un po’ il destino di tutto: nel caso della gomma da masticare il motivo è che in questo modo la produzione costa meno e poi la sinteticizzazione della materia prima sopperisce alla rarefazione degli alberi di sapodilla. Il chicle sintetico è fatto con polimeri sintetici, in particolare gomma butadiene-stirene e acetato di polivinile. Di solito, giusto il 15-20% circa della gomma usata è ancora fatta di lattice di sapodilla (oppure di jelutong, l’albero da lattice Dyera costulata diffuso nelle foreste del Sudest asiatico). A questa base gommosa si aggiungono aromi, edulcoranti e additivi, come lo xantano, che rendono il chewing- gum odierno più elastico del suo antenato Maya. E infatti ciancichiamo a tutto andare, la stima di consumo mondiale è di circa 350 miliardi di gomme da masticare all’anno, circa 30 milioni in Italia.
D’altronde, c’è un chewing gum per ogni occasione. I chewing gum in commercio oggi sono divisibili in quattro gruppi: con lo zucchero, senza lo zucchero, chewing gum rivestiti e chewing gum medicati. Nei primi abbiamo quasi l’80% di peso in zuccheri, come saccarosio e sciroppo di glucosio. Il chewing gum senza zucchero contiene polioli naturali come sorbitolo, xilitolo, eritritolo, dolcificanti naturali a basso contenuto calorico, basso rischio cariogenico e e basso indice glicemico, oppure dolcificanti sintetici ad alta intensità come l’aspartame, il sucralosio, l’acesulfame K. Le gomme da masticare rivestite sono quelle col ripieno e quelle medicate sono, invece, addizionate di sostanze nutritive o composti farmaceutici, per promuovere funzioni specifiche del nostro organismo e prevenire alcuni disturbi, come le gomme antinausea per il mal d’auto e le gomme alla nicotina per la disintossicazione dal fumo. Queste ultime, naturalmente, non devono essere usate in circostanze diverse da quelle per cui nascono.
Ma masticare gomme fa bene o fa male? Se guardiamo all’antenato della gomma da masticare, sicuramente masticare materie di estrazione naturale, in primo luogo resine, è una prassi umana radicata e volta ad uno scopo innanzitutto curativo. Pensate che nel sito neolitico di Kiriekki, in Finlandia, i ricercatori hanno di recente rinvenuto un pezzo di resina risalente al terzo millennio prima di Cristo, ricavato da corteccia di betulla, con segni di denti ben visibili. Anche i greci del V secolo a.C. usavano masticare resine di lentisco. I nostri antenati masticavano resine per estrarne i fenoli, che hanno proprietà antinfiammatorie. Non masticavano solo resine: i malesi masticavano noci di betel, etiopi e yemeniti il qat del Corno d’Africa, i Maya, appunto, palline di chicle. Oggi, continuiamo a masticare. Dopo cioccolatini e caramelle, il chewing gum è il terzo piccolo boccone dolce preferito al mondo, naturalmente non si ingoia e l’apporto calorico è certamente inferiore a quello di cioccolatini e caramelle, quindi molti masticano il terzo, anziché mangiare i primi due per stare a dieta.
Masticare il chewing gum può avere aspetti positivi. Se dopo un pasto o uno snack non abbiamo modo di lavare i denti con spazzolino e dentifricio, rischiamo che la diminuzione del valore del PH della placca conseguente al pasto intacchi smalto e dentina aumentando il rischio di carie. Per alzarlo, allora, e riportarlo a livelli di normalità si può masticare chewing gum senza zucchero, in questo modo stimoliamo la produzione di saliva, la cui aumentata quantità nel cavo orale ha l’effetto di riportare il PH della placca dentaria a un valore normale, debellando il rischio carie. Particolarmente adatto pare essere il chewing gum senza zucchero con xilitolo, del quale è stata appurata la capacità di inibire la crescita dei batteri che, lasciati invece liberi, possono demineralizzare lo smalto e la dentina, favorendo la nascita della carie. La produzione extra di saliva aiuta questo effetto preventivo della carie del chewing gum con xilitolo, perché la saliva contiene enzimi ed anticorpi che hanno un effetto antibatterico naturale. La saliva ha anche l’effetto di rimineralizzare e quindi rafforzare lo smalto dentario. Masticare il chewing gum dopo un pasto fuori casa poi ha un effetto detergente sui denti. Masticare il chewing gum ha un effetto rinfrescante sull’alito, tuttavia questo non si può considerare un intervento curativo a lungo termine nel caso si soffra di alitosi stabile, che va indagata e curata alla radice. Idem la pulizia dei denti, non si può certamente considerare la masticazione del chewing gum equivalente a lavare i denti con lo spazzolino e poi a passare il filo interdentale. La masticazione del chewing gum non dovrebbe superare i 15-20 minuti e massimo per 3 chewing gum al giorno. Se si esagera, invece, si rischia di creare problemi all’articolazione della mascella e ai muscoli della bocca e delle guance. Inoltre, essendo le gomme da masticare contemporanee estremamente adesive rispetto a quella di sola origine naturale, si rischia di tirare via otturazioni dentali, se se ne hanno, e creare problemi ad altre presenze nella bocca come ponti, protesi e apparecchi (soprattutto in quest’ultimo caso, non si deve masticare la gomma). Sembra poi che masticare chewing gum aiuti la concentrazione.
Continua a leggereRiduci
Uno scatto della famiglia anglo-australiana, che viveva nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti (Ansa)
Non è certo un grosso problema: è sufficiente reidratare il paziente e si risolve nel giro di un paio di giorni al massimo. La tragedia è che questo ha allertato il «lupo». Per una indigestione da funghi, la famiglia è stata attenzionata dai servizi sociali.
Levare un bambino alla sua famiglia, staccarlo da sua madre, è un danno di gravità mille. Il cortisolo alle stelle, la fede nel mondo distrutta. Lo stress è talmente atroce che abbatte il sistema immunitario. Un bambino si può levare solo quando sta subendo un danno di gravità duemila. Come si fa a non sbagliarsi? Basta usare il buon senso, la logica e ascoltare i bambini.
Eleonora è morta il 7 gennaio 2005 a Bari. Aveva 16 mesi. Era nata sana come un pesciolino. È morta di stenti, di fame e sete, ma sicuramente avranno avuto un peso le botte, le ecchimosi, le escoriazioni suppurate, le due vecchie fratture a un braccio mai curate, la completa mancanza di sole, e soprattutto le devastanti piaghe da decubito per i pannolini non cambiati. Era legata al passeggino e il passeggino era messo davanti a un muro. Ha vissuto nel dolore e nel terrore: la paura continua dei colpi da parte della madre e del suo convivente (le tiravano addosso di tutto, se piangeva) o anche dei due fratellini a cui era stata regalata come una specie di giocattolo da tormentare. L’ha uccisa la paura che la notte calasse senza nemmeno il mezzo biberon che le davano ogni due giorni. La notte è calata per più di una volta consecutiva senza il mezzo biberon, ed Eleonora è morta di disidratazione. Le assistenti sociali, allertate da vicini perplessi, erano arrivate alla sua porta, per ben quattro volte, avevano fatto toc toc come il lupo davanti alla porta dei tre porcellini, nessuno aveva aperto e il discorso è stato considerato chiuso.
Le assistenti sociali sono persone educate, estremamente rispettose, davanti alle porte chiuse si fermano. I due fratellini di Eleonora sono stati ricoverati in ospedale. Quando hanno loro chiesto se volessero stare con mamma o con la dottoressa, hanno risposto che volevano stare con la dottoressa. I bambini abusati lo capiscono che fuori casa stanno meglio e lo verbalizzano. Un bambino, dopo aver dichiarato innumerevoli volte che la madre era violenta con lui, che lo terrorizzava, che non voleva andare con lei, è stato consegnato alla donna che lo ha sgozzato. Si sono fidati di un qualche esperto, uno psichiatra, un’altra assistente sociale, un giudice che per una qualche teoria letta su un libro ha ritenuto di avere la capacità di stabilire che quella madre non fosse pericolosa, e che il bambino che ne aveva paura fosse uno sciocchino.
Sono le stesse assistenti sociali che, dopo aver tolto un bambino a sua madre con le motivazioni più creative, stanno con le labbra strette e l’orologio in mano a controllare che non si sgarri dai 60 minuti che un giudice, che non ha mai visto quel bambino in vita sua, ha stabilito per la visita due volte al mese. L’assistente sociale sottolinea alla madre che il bambino il giorno del colloquio con lei è agitato, disperato e intrattabile, mentre di solito è sempre «buonissimo». Buonissimo vuol dire apatico e rassegnato, in inglese si usa il termine «functional freezing», congelamento delle emozioni per evitare di essere schiantato dal dolore. Il congelamento deve essere totale perché il bambino possa essere svuotato di qualsiasi emotività e ridotto a cosa. Se il bimbo ha un fratello, viene separato da lui. Sparisce la nonna da cui andava tutti i pomeriggi e che gli faceva i biscotti, spariscono gli amici. A volte sono andati a prenderlo poliziotti armati. Più il trauma è atroce, più potente è il congelamento emotivo che rende il bambino malleabile.
La prima notte che il bambino passa in «casa famiglia», vezzoso termine con cui si chiamano gli orfanotrofi statali dove portano i bambini tolti alle famiglie, piange tutta la notte: se è piccolo può arrivare alla disidratazione. Poi si «rasserena», diventa buono. La rassegnazione si paga in malattie. Ci sono processi che dimostrano che è vero che nei campi rom si vendono bambini ladri e bambine prostitute, periodicamente qualche bambino rom muore bruciato vivo nella roulotte che ha preso fuoco, eppure nessuno interviene. I rom non vogliono essere disturbati e le assistenti sociali sono persone rispettose delle civiltà altrui, per questo non intervengono nelle famiglie musulmane che infibulano la figlia di due anni o danno la figlia tredicenne in sposa al cugino mai visto prima. Ma è su tre nomi: Forteto, Bibbiano, Bassa Modenese, che il sistema ha mostrato la sua struttura violentemente patologica. Non metto in dubbio che tra le assistenti sociali esistano persone di buon senso e non malevole, ma un sistema che ha prodotto Bibbiano, il Forteto e la Bassa Modenese è strutturalmente privo di buonsenso e soprattutto malevolo, e deve essere ristrutturato o abolito. Gli assistenti sociali e i giudici hanno un potere totale. Non rispondono degli errori. La facoltà da cui escono gli assistenti sociali, dopo aver dato alcuni esami e superato una tesi, in nulla garantisce buon senso e benevolenza, anzi: è il contrario. Si tratta di una delle facoltà politicamente strutturate, il 99% dei docenti e degli iscritti sono di sinistra. Le assistenti sociali sono il braccio armato della politica della sinistra mondiale: odio per il cristianesimo, odio per la famiglia, amore sviscerato per tutte le tematiche Lgbt. Tra i minuscoli esami con cui le assistenti sociali formano la loro capacità di giudicare il bene e il male, di distruggere famiglie, di annientare la psiche ma anche il corpo dei bambini che hanno la sciagura di attirare la loro attenzione, quindi non Eleonora e non i bambini rom, le incredibili idiozie raccolte sotto il nome di «studi gender» sono considerate una lodevole intuizione scientifica. Le assistenti sociali sono convinte che un uomo possa essere una donna, che un bambino affidato a due maschi che l’hanno comprato non possa che stare benissimo, e che in fondo la famiglia «tradizionale» sia un modello da superare. La terza situazione problematica è la mancanza di un controllo sui controllori. Chi stabilisce che la psiche dell’assistente sociale e del giudice che possono distruggere la vita di altri sia in equilibrio? Si tratta di persone che hanno semplicemente superato degli esami e un concorso. Chi stabilisce che nella sua mente l’assistente sociale, che controlla con le labbra strette che la madre non possa stare con i suoi figli più del numero di minuti stabiliti da lei o da un giudice, non abbia tendenze di aggressività maligna o non le abbia sviluppate facendo questo lavoro?
Sono stati fatti terribili esperimenti, dove persone prese a caso venivano messe nel ruolo del carceriere, dove qualcun altro a caso faceva il carcerato: era una recita. Ma molti hanno sviluppato linee di aggressività maligna. Dove si ha potere sugli altri, è estremamente facile che si sviluppino linee di aggressività maligna, linee di piacere nell’infliggere ad altri dolore attraverso la propria autorità. Ripeto la domanda: chi controlla i controllori? Nel frattempo, se avete bambini in casa, evitate i funghi. Le zucchine costano anche meno.
Continua a leggereRiduci
Soldati di guardia vicino al confine tra Thailandia e Cambogia (Getty Images)
L’ennesimo scontro sta imponendo nuove evacuazioni di massa su entrambi i lati del confine. Il governo della Thailandia ha ordinato a più di 380.000 suoi cittadini di abbandonare subito le aree ad alto rischio, con decine di migliaia che hanno già raggiunto i rifugi allestiti dal governo.
La Cambogia ha spostato circa 1200 famiglie, portandole all’interno del paese e lontane dalla zona dove si combatte. Hun Manet, primo ministro della Cambogia ha pubblicamente accusato la Thailandia, di essersi inventata un incidente fra i militari per tornare ad attaccare la Cambogia, negando che ci sia stato qualsiasi tipo di atto provocatorio da parte dell’esercito di Phnom Penh. Il governo di Bangkok ha invece additato la Cambogia come la nazione che non vuole rispettare l’accordo avendo continuato a minare il confine comune. «Il ministero della Difesa thailandese.ha autorizzato nuove operazioni militari a fronte dell’escalation - ha dichiarato il portavoce dell’esercito Winthai Suvaree - i raid hanno preso di mira infrastrutture militari cambogiane in rappresaglia all’attacco avvenuto in precedenza. il nostro unico obiettivo sono le posizioni di supporto della Cambogia nell’area del passo di Chong An Ma, un’area che doveva essere smilitarizzata».
I combattimenti della scorsa estate in pochi giorni avevano provocato 45 morti ed oltre 250.000 sfollati da entrambe le parti. Alla fine dell’estate a Kuala Lumpur Malesia, Cina e anche Stati Uniti avevano mediato un primo cessate il fuoco che però non era mai stato realmente applicato. A ottobre il presidente statunitense Donald Trump si era impegnato in prima persona co-firmando una dichiarazione congiunta tra le due nazioni e promuovendo allo stesso tempo una serie di nuovi accordi commerciali con Bangkok e Phnom Penh, nel caso avessero accettato un prolungamento del cessate il fuoco. Questo accordo sembrava poter durare, ma meno di un mese fa la Thailandia ha deciso di sospenderlo unilateralmente, accusando la Cambogia di aver minato una zona in territorio thailandese e l’esplosione di una mina aveva anche ferito alcuni soldati. Il primo ministro cambogiano ha ribadito il suo impegno nei confronti dell'accordo, che prevedeva il rilascio di 18 prigionieri cambogiani detenuti in Thailandia da diversi mesi e non ancora liberati. Il problema rimane il posizionamento del confine e la contestazione di alcune aree e templi che si trovano in territorio cambogiano, ma che sono rivendicati da Bangkok.
Le aree contese ospitano diversi templi di grande interesse storico e culturale, tra cui il Preah Vihear. La Corte Internazionale di Giustizia ne ha concesso la sovranità esclusiva a Phnom Penh, ma Bangkok si rifiuta di riconoscere l'autorità della Corte in materia territoriale. In realtà la questione è molto più profondo e da molti anni fra i due paesi del sud-est asiatico la tensione rimane altissima. Entrambe le nazioni sono caratterizzate da un acceso nazionalismo che diventa determinante soprattutto fra le popolazioni che vivono lungo gli oltre 800 chilometri di confine. L’amministrazione statunitense si è detta pronta a riportare i due contendenti al tavolo delle trattative, ma intanto l’aviazione thailandese sta continuando a martellare il territorio cambogiano.
Continua a leggereRiduci
Ecco #DimmiLaVerità dell'8 dicembre 2025. La "dj" ufficiale di Atreju, la deputata di Fdi Grazia Di Maggio, ci parla della festa nazionale del partito di Giorgia Meloni.