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2022-08-21
I giudici Usa scoprono la sòla dei fondi «etici»
iStock
La favola degli investimenti Esg pare avviarsi in America verso una fine non lietissima, sia pure dopo avere fatto in questi anni la felicità dei pesci grossi di Wall Street. I criteri Esg (Environment, social e governance) sono indicatori che permettono la scelta di un investimento basandosi non tanto sul rendimento atteso, quanto sulla cosiddetta «sostenibilità» ambientale, sociale e gestionale. La classificazione Esg è un modo per indirizzare le masse finanziarie dei grandi investitori verso impieghi di un certo tipo, che rispettino cioè parametri considerati etici, anche prescindendo dai rendimenti. Le variabili misurate sono le più disparate e vanno dalle emissioni di CO2 al rispetto delle minoranze Lgbtqia+ presenti in azienda, dalla rappresentanza di genere e di etnia all’interno dei consigli di amministrazione alla gestione della privacy di dipendenti e clienti. Naturalmente, vista l’opportunità di assicurarsi commissioni più alte per un nuovo prodotto finanziario, Wall Street in questi anni non ha esitato a coccolare la nuova creatura, sino a farla diventare un business immenso, che oggi vale qualcosa come 20.000 miliardi di dollari.
La distinzione degli investimenti secondo questo marchio porta con sé, però, una corposa serie di questioni. Sul piano tecnico, c’è un problema intrinseco legato al fatto che i criteri di investimento Esg (o meglio i rischi di una non aderenza a essi) non sono riflessi nei bilanci e nei conti economici di un’azienda, dunque risulta impossibile definire il «valore» legato a essi. Né esiste alcuna garanzia sul fatto che un investimento classificato come Esg effettivamente attui le politiche aziendali conseguenti: chi controlla davvero? Ma soprattutto, la classificazione Esg ha incoraggiato una transizione ecologica sbilenca e dannosa, con una concentrazione di investimenti che ha prosciugato altri settori vitali dell’economia.
In un rapporto della scorsa primavera, la banca d’affari americana Jp Morgan ha spiegato come la rigida regolamentazione Esg abbia diminuito gli afflussi di capitale verso i settori tradizionali e in particolare quelli delle materie prime. Il risultato è stato un calo degli investimenti che ha provocato un aumento dei prezzi del petrolio e, di conseguenza, della benzina (ben prima dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia). Lo spiega benissimo Bill Dutcher, presidente della Anadarko Minerals, un piccolo produttore di petrolio e gas dell’Oklahoma. In una lettera inviata al Wall Street Journal qualche giorno fa, con una robusta dose di ironia, Dutcher afferma di sostenere il sistema Esg perché «se combinati con normative sempre crescenti, gli investimenti Esg riducono quelli nell’esplorazione e produzione nazionale di petrolio e gas. Il calo della spesa riduce le forniture disponibili di petrolio e gas nazionali, il che fa aumentare i prezzi. Quindi vorrei ringraziare i gestori patrimoniali woke, come Blackrock, per aver contribuito all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas». In sintesi, l’orientamento politico degli investimenti si è tradotto in una grave distorsione del mercato e in una crisi economica di cui vediamo oggi solo l’inizio. Una crisi che colpirà soprattutto le classi più deboli.
Non è un caso, dunque, che qualche giorno fa negli Stati Uniti 19 procuratori generali abbiano scritto una lunga lettera aperta al Wall Street Journal in cui pongono delle domande sulle modalità con cui il grande fondo Blackrock gestisce i suoi investimenti Esg. I procuratori pensano che ci possa essere troppa identificazione del fondo gestito da Larry Fink con gli obiettivi delle varie Ong che si dedicano al tema della sostenibilità, tale da alterare il principio per cui i fondi perseguono il miglior risultato per il cliente e non fini politici. Anche se per ora si tratta solo di una lettera e non c’è una vera inchiesta, il fatto è notevole perché pone questioni reali. Ma c’è di più, il problema è più ampio della mera aderenza in termini legali alla regolamentazione finanziaria. Nei fatti, la classificazione Esg è il tentativo di imporre un’agenda politica orientando gli investimenti verso un determinato tipo di economia e, in definitiva, di rapporti sociali. Pur riguardando un ambito tecnico come quello finanziario, il tema è prettamente politico e origina, ancora una volta, dall’ondata progressista radicale woke, quella degli autoproclamati «risvegliati», che detestano la tradizione e l’identità sociale e culturale.
I fondi di investimento Esg che detengono quote importanti nelle aziende sono spesso impegnati attivamente nel far cambiare la rotta delle strategie aziendali, votando nelle assemblee degli azionisti contro il parere dei manager o facendo pressione perché vengano adottate certe politiche. Alcuni ex manager di Blackrock sono molto vicini alla Casa Bianca del democratico Joe Biden. Il rischio è che l’influenza della lobby Esg porti a un’imposizione per legge dei criteri, obbligando così tutte le aziende a rispettarli. Il tema Esg negli Usa è molto presente nella campagna elettorale in corso per le elezioni di midterm che si terranno a novembre, con i candidati repubblicani impegnati a smontarne la retorica favoleggiante.
La realtà ha dimostrato che la transizione ecologica, diventata una corsa al green a tutti i costi, è un pericoloso abbaglio, che l’Esg ha gonfiato a dismisura e che ora presenta il conto. Come sempre, sarà la dura realtà a incaricarsi di decretare la fine delle illusioni.
Dai pomodori in scatola ai cosmetici. La stretta sul gas è una mina vagante
Dopo l’annuncio della chiusura per manutenzione del gasdotto Nord Stream 1, dato nel tardo pomeriggio di venerdì da Gazprom, i prezzi sui mercati all’ingrosso nel continente sono letteralmente esplosi, portando le quotazioni su nuovi livelli record proprio in prossimità della chiusura (257 €/MWh il future di settembre). La cosa preoccupante è che in proporzione stanno salendo molto di più le scadenza lontane, alzando l’estremo della curva forward. Brutto segno, perché significa che oggi il mercato considera che le difficoltà non finiranno nel breve termine ma si estenderanno almeno per un altro anno, forse due.
La situazione è gravissima ma il governo pare assente. Come del resto evidente sin dall’inizio, gli interventi tampone per abbassare oneri di sistema e Iva dei mesi scorsi non hanno sortito effetti, se non dare un temporaneo sollievo a imprese e famiglie. Il problema, anziché risolversi, è peggiorato e con il mese di agosto sono arrivate le bollette mostruose relative ai consumi di luglio, durante il quale i prezzi avevano ricominciato a correre. Oltre agli interventi tampone, il governo si è concentrato sugli aspetti punitivi nei confronti degli operatori, inventando una tassa sugli extraprofitti (che farà un buco nell’acqua) e un divieto di modifica unilaterale delle clausole di prezzo dei contratti che probabilmente avrà come unico effetto quello di far fallire qualche operatore medio-piccolo. Della proposta italiana di un tetto al prezzo del gas si parlerà a Bruxelles a fine settembre, quando forse sarà troppo tardi. Anche ammettendo che si possa fare, quasi certamente questo comporterà che la Russia interromperà totalmente i flussi verso l’Europa ed occorre esserne coscienti.
Si tratta di vedere quante imprese riusciranno a riprendere la produzione dopo la pausa di agosto. L’associazione degli industriali delle conserve alimentari vegetali lanciano l’allarme: «Il costo del gas aumentato del 1.000% e l’aumento dei prezzi dei pomodori da parte delle aziende del bacino del Sud Italia stanno mettendo in ginocchio centinaia di imprese». Inoltre «le nostre produzioni si concentrano in 45/60 giorni e questi aumenti così repentini hanno un’influenza specifica non programmabile», continuano. Ma con questi prezzi, i costi di produzione sono diventati proibitivi non solo per i settori cosiddetti energivori.
Anche aziende meno dipendenti dal costo dell’energia, come quelle dei cosmetici, vedono rialzi dei costi superiori al 30%. Le possibilità per le aziende sono solo due: sospendere l’attività o scaricare a valle i maggiori costi. Nel primo caso, significa portare i libri in tribunale entro pochi mesi. Nel secondo caso, andare fuori mercato rispetto ad Asia e Usa e alimentare un’inflazione a due cifre.
La guerra economica europea con la Russia, fatta di sanzioni, sta facendo un’unica vittima, l’Europa stessa. Germania e Italia subiranno le peggiori conseguenze derivanti dalla carenza di gas e dai conseguenti prezzi alle stelle. In questo quadro, in Italia solo razionamenti pesanti (e immediati) possono contribuire a contenere i danni (non ad evitarli). In Germania cresce il fronte di chi vorrebbe aprire il Nord Stream 2 (ieri è stato il turno di Wolfgang Kubicki, vicepresidente del Bundestag e del partito liberale FdP). Proprio il governo semaforo di Olaf Scholz ha davanti a sé una difficile scelta da compiere: rompere il fronte Nato e aprire il gasdotto o affrontare la disastrosa recessione che seguirà se nulla cambia. L’intera Europa è appesa a un filo.
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Wall Street fa miliardi grazie ai criteri di investimento Esg, cioè che rispettano l’agenda green e gender free. Ma che distorcono il mercato spingendo la transizione verde a danno dei settori tradizionali. Ora 19 procuratori federali vogliono vederci chiaro.Dai pomodori in scatola ai cosmetici. La stretta sul gas è una mina vagante. Nord Stream 1 è fermo, l’impennata dei prezzi spaventa i settori più diversi tra loro.Lo speciale comprende due articoli. La favola degli investimenti Esg pare avviarsi in America verso una fine non lietissima, sia pure dopo avere fatto in questi anni la felicità dei pesci grossi di Wall Street. I criteri Esg (Environment, social e governance) sono indicatori che permettono la scelta di un investimento basandosi non tanto sul rendimento atteso, quanto sulla cosiddetta «sostenibilità» ambientale, sociale e gestionale. La classificazione Esg è un modo per indirizzare le masse finanziarie dei grandi investitori verso impieghi di un certo tipo, che rispettino cioè parametri considerati etici, anche prescindendo dai rendimenti. Le variabili misurate sono le più disparate e vanno dalle emissioni di CO2 al rispetto delle minoranze Lgbtqia+ presenti in azienda, dalla rappresentanza di genere e di etnia all’interno dei consigli di amministrazione alla gestione della privacy di dipendenti e clienti. Naturalmente, vista l’opportunità di assicurarsi commissioni più alte per un nuovo prodotto finanziario, Wall Street in questi anni non ha esitato a coccolare la nuova creatura, sino a farla diventare un business immenso, che oggi vale qualcosa come 20.000 miliardi di dollari.La distinzione degli investimenti secondo questo marchio porta con sé, però, una corposa serie di questioni. Sul piano tecnico, c’è un problema intrinseco legato al fatto che i criteri di investimento Esg (o meglio i rischi di una non aderenza a essi) non sono riflessi nei bilanci e nei conti economici di un’azienda, dunque risulta impossibile definire il «valore» legato a essi. Né esiste alcuna garanzia sul fatto che un investimento classificato come Esg effettivamente attui le politiche aziendali conseguenti: chi controlla davvero? Ma soprattutto, la classificazione Esg ha incoraggiato una transizione ecologica sbilenca e dannosa, con una concentrazione di investimenti che ha prosciugato altri settori vitali dell’economia.In un rapporto della scorsa primavera, la banca d’affari americana Jp Morgan ha spiegato come la rigida regolamentazione Esg abbia diminuito gli afflussi di capitale verso i settori tradizionali e in particolare quelli delle materie prime. Il risultato è stato un calo degli investimenti che ha provocato un aumento dei prezzi del petrolio e, di conseguenza, della benzina (ben prima dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia). Lo spiega benissimo Bill Dutcher, presidente della Anadarko Minerals, un piccolo produttore di petrolio e gas dell’Oklahoma. In una lettera inviata al Wall Street Journal qualche giorno fa, con una robusta dose di ironia, Dutcher afferma di sostenere il sistema Esg perché «se combinati con normative sempre crescenti, gli investimenti Esg riducono quelli nell’esplorazione e produzione nazionale di petrolio e gas. Il calo della spesa riduce le forniture disponibili di petrolio e gas nazionali, il che fa aumentare i prezzi. Quindi vorrei ringraziare i gestori patrimoniali woke, come Blackrock, per aver contribuito all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas». In sintesi, l’orientamento politico degli investimenti si è tradotto in una grave distorsione del mercato e in una crisi economica di cui vediamo oggi solo l’inizio. Una crisi che colpirà soprattutto le classi più deboli.Non è un caso, dunque, che qualche giorno fa negli Stati Uniti 19 procuratori generali abbiano scritto una lunga lettera aperta al Wall Street Journal in cui pongono delle domande sulle modalità con cui il grande fondo Blackrock gestisce i suoi investimenti Esg. I procuratori pensano che ci possa essere troppa identificazione del fondo gestito da Larry Fink con gli obiettivi delle varie Ong che si dedicano al tema della sostenibilità, tale da alterare il principio per cui i fondi perseguono il miglior risultato per il cliente e non fini politici. Anche se per ora si tratta solo di una lettera e non c’è una vera inchiesta, il fatto è notevole perché pone questioni reali. Ma c’è di più, il problema è più ampio della mera aderenza in termini legali alla regolamentazione finanziaria. Nei fatti, la classificazione Esg è il tentativo di imporre un’agenda politica orientando gli investimenti verso un determinato tipo di economia e, in definitiva, di rapporti sociali. Pur riguardando un ambito tecnico come quello finanziario, il tema è prettamente politico e origina, ancora una volta, dall’ondata progressista radicale woke, quella degli autoproclamati «risvegliati», che detestano la tradizione e l’identità sociale e culturale.I fondi di investimento Esg che detengono quote importanti nelle aziende sono spesso impegnati attivamente nel far cambiare la rotta delle strategie aziendali, votando nelle assemblee degli azionisti contro il parere dei manager o facendo pressione perché vengano adottate certe politiche. Alcuni ex manager di Blackrock sono molto vicini alla Casa Bianca del democratico Joe Biden. Il rischio è che l’influenza della lobby Esg porti a un’imposizione per legge dei criteri, obbligando così tutte le aziende a rispettarli. Il tema Esg negli Usa è molto presente nella campagna elettorale in corso per le elezioni di midterm che si terranno a novembre, con i candidati repubblicani impegnati a smontarne la retorica favoleggiante.La realtà ha dimostrato che la transizione ecologica, diventata una corsa al green a tutti i costi, è un pericoloso abbaglio, che l’Esg ha gonfiato a dismisura e che ora presenta il conto. 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La cosa preoccupante è che in proporzione stanno salendo molto di più le scadenza lontane, alzando l’estremo della curva forward. Brutto segno, perché significa che oggi il mercato considera che le difficoltà non finiranno nel breve termine ma si estenderanno almeno per un altro anno, forse due. La situazione è gravissima ma il governo pare assente. Come del resto evidente sin dall’inizio, gli interventi tampone per abbassare oneri di sistema e Iva dei mesi scorsi non hanno sortito effetti, se non dare un temporaneo sollievo a imprese e famiglie. Il problema, anziché risolversi, è peggiorato e con il mese di agosto sono arrivate le bollette mostruose relative ai consumi di luglio, durante il quale i prezzi avevano ricominciato a correre. Oltre agli interventi tampone, il governo si è concentrato sugli aspetti punitivi nei confronti degli operatori, inventando una tassa sugli extraprofitti (che farà un buco nell’acqua) e un divieto di modifica unilaterale delle clausole di prezzo dei contratti che probabilmente avrà come unico effetto quello di far fallire qualche operatore medio-piccolo. Della proposta italiana di un tetto al prezzo del gas si parlerà a Bruxelles a fine settembre, quando forse sarà troppo tardi. Anche ammettendo che si possa fare, quasi certamente questo comporterà che la Russia interromperà totalmente i flussi verso l’Europa ed occorre esserne coscienti. Si tratta di vedere quante imprese riusciranno a riprendere la produzione dopo la pausa di agosto. L’associazione degli industriali delle conserve alimentari vegetali lanciano l’allarme: «Il costo del gas aumentato del 1.000% e l’aumento dei prezzi dei pomodori da parte delle aziende del bacino del Sud Italia stanno mettendo in ginocchio centinaia di imprese». Inoltre «le nostre produzioni si concentrano in 45/60 giorni e questi aumenti così repentini hanno un’influenza specifica non programmabile», continuano. Ma con questi prezzi, i costi di produzione sono diventati proibitivi non solo per i settori cosiddetti energivori. Anche aziende meno dipendenti dal costo dell’energia, come quelle dei cosmetici, vedono rialzi dei costi superiori al 30%. Le possibilità per le aziende sono solo due: sospendere l’attività o scaricare a valle i maggiori costi. Nel primo caso, significa portare i libri in tribunale entro pochi mesi. Nel secondo caso, andare fuori mercato rispetto ad Asia e Usa e alimentare un’inflazione a due cifre. La guerra economica europea con la Russia, fatta di sanzioni, sta facendo un’unica vittima, l’Europa stessa. Germania e Italia subiranno le peggiori conseguenze derivanti dalla carenza di gas e dai conseguenti prezzi alle stelle. In questo quadro, in Italia solo razionamenti pesanti (e immediati) possono contribuire a contenere i danni (non ad evitarli). In Germania cresce il fronte di chi vorrebbe aprire il Nord Stream 2 (ieri è stato il turno di Wolfgang Kubicki, vicepresidente del Bundestag e del partito liberale FdP). Proprio il governo semaforo di Olaf Scholz ha davanti a sé una difficile scelta da compiere: rompere il fronte Nato e aprire il gasdotto o affrontare la disastrosa recessione che seguirà se nulla cambia. L’intera Europa è appesa a un filo.
Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 9 dicembre con Carlo Cambi