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2024-12-02
Ultima figuraccia di Biden: si rimangia la parola e concede la grazia al figlio
Joe Biden e il figlio Hunter (Ansa)
E meno male che era Donald Trump a politicizzare la Giustizia! Domenica, Joe Biden ha concesso il perdono presidenziale a suo figlio Hunter, che aveva subito due condanne penali: una per possesso illecito di arma da fuoco e l’altra per reati fiscali. Rischiava fino a 25 anni di prigione per la prima e fino a 17 per la seconda. Se i legali di Hunter hanno prontamente chiesto l’archiviazione dei suoi casi giudiziari, le polemiche non sono tardate a esplodere. «La grazia concessa da Joe a Hunter include gli ostaggi del 6 gennaio, che sono stati imprigionati per anni? Che abuso e ingiustizia giudiziari!», ha tuonato Trump, mentre malumori si sono registrati anche tra esponenti dem, a partire dal governatore del Colorado, Jared Polis. Ora, è vero che Bill Clinton graziò suo fratello Roger nel 2001 e che Trump fece altrettanto con il consuocero Charles Kushner nel 2020. Tuttavia la mossa di Biden appare assai controversa sotto svariati aspetti.
Innanzitutto, a giugno, Biden aveva escluso di voler graziare suo figlio. «Ho detto che mi atterrò alla decisione della giuria. Lo farò. E non gli concederò il perdono», disse. Una linea, questa, che era stata confermata il 7 novembre dalla portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. In secondo luogo, Biden ha giustificato la grazia, lasciando intendere che Hunter avrebbe subito una persecuzione politico-giudiziaria. «Nessuna persona ragionevole che esamina i fatti dei casi di Hunter può giungere ad altra conclusione se non che Hunter è stato preso di mira solo perché è mio figlio, e questo è sbagliato», ha affermato il presidente uscente. Eppure, quando Trump definì una «caccia alle streghe» la condanna che aveva subito sul caso Stormy Daniels, proprio Biden lo accusò di «cercare di indebolire il sistema giudiziario». Non solo. Nel 2022, quando il tycoon si lamentò del raid dell’Fbi in casa sua, l’allora Speaker della Camera, Nancy Pelosi, sentenziò: «Nessuno è al di sopra della legge».
In terzo luogo, oltre alla palese incoerenza del presidente, emerge un ulteriore aspetto controverso. Il perdono concesso ad Hunter è estremamente ampio e somiglia molto a quello con cui, nel 1974, Gerald Ford salvò di fatto Richard Nixon, appena dimessosi a causa dello scandalo Watergate. «Ho concesso a Robert Hunter Biden un perdono completo e incondizionato per quei reati contro gli Stati Uniti che ha commesso o potrebbe aver commesso o a cui ha preso parte durante il periodo che va dal primo gennaio 2014 al primo dicembre 2024», si legge nel testo della grazia. Questo vuol dire che Biden non ha salvato il figlio soltanto dagli effetti delle condanne subite ma che lo ha anche «scudato» rispetto ad altri reati che potrebbe aver commesso negli ultimi dieci anni.
Non è del resto un caso che il presidente uscente abbia citato esplicitamente il 2014. Non dimentichiamo che Hunter entrò ai vertici della controversa azienda ucraina Burisma proprio quell’anno e che i procuratori stavano ancora indagando su di lui per presunta violazione della legge che impone la registrazione ai lobbisti operanti per conto di entità straniere. Si tratta di un filone, quest’ultimo, che stava lambendo lo stesso Joe Biden: nonostante l’attuale inquilino della Casa Bianca avesse spesso detto di non essere mai stato coinvolto negli affari del figlio, è emerso invece che, tra il 2014 e il 2015, Hunter mise più volte in contatto il padre, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti in carica, con i suoi controversi partner in affari. A rivelarlo fu un ex socio e amico di Hunter, Devon Archer, durante un’audizione al Congresso l’anno scorso.
Non solo. Archer, che era stato nel board di Burisma, raccontò anche che quest’ultima aveva assunto Hunter proprio per avere protezione dalle «pressioni» investigative che arrivavano dal governo di Kiev. Ricordiamo sempre che Biden, nel 2015, intimò all’allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, di licenziare il procuratore generale Viktor Shokin, minacciando di bloccare gli aiuti americani all’Ucraina, qualora ciò non fosse avvenuto. Sarà stato un caso, ma Shokin, silurato poi nel 2016, aveva indagato su Burisma per corruzione. Ricordiamo anche che, a partire dal 2014, Biden, da vicepresidente americano, sovrintendeva ai rapporti tra Washington e Kiev. Il fatto che suo figlio fosse entrato ai vertici di Burisma proprio quell’anno fece emergere fondati sospetti di conflitto d’interessi. La gravità del perdono ad Hunter non sta quindi solo nell’incoerenza di Biden ma anche nel fatto che, per la sua ampiezza, la grazia riguarda questioni che sfiorano lo stesso presidente uscente.
Insomma, chi ha politicizzato la Giustizia sono stati principalmente i dem. E comunque, dal punto di vista eminentemente politico, il perdono ad Hunter rappresenta, volente o nolente, un assist a Trump. Il presidente in pectore ha infatti l’occasione non solo di ritorcere contro i suoi avversari l’accusa di strumentalizzare il sistema giudiziario ma, grazie a questo precedente, avrà più margine di manovra per graziare chi vorrà. Non solo. Avrà anche maggiore leva per far passare al Senato due nomine che hanno irritato i progressisti negli scorsi giorni: parliamo di Pam Bondi a procuratore generale e, soprattutto, Kash Patel a direttore dell’Fbi. Ovviamente Biden non può non rendersi conto di quello che la sua grazia comporta. Va però tenuto presente che il presidente uscente è ormai in modalità «muoia Sansone con tutti i filistei». Dopo essere stato brutalmente silurato dal Partito democratico a luglio, ha soltanto voglia di mettergli i bastoni tra le ruote e di salvaguardare i propri famigliari.
Ma il bue dem dà del cornuto a Trump
I dem sono finiti in un cortocircuito. Hanno accusato per anni Donald Trump di aver politicizzato la Giustizia. Peccato che ad agire in questo modo sia in realtà stata l’amministrazione Biden. E non ci riferiamo soltanto alla grazia che il presidente uscente ha concesso a suo figlio.
Continuano a ripetere che Trump voglia usare i poteri presidenziali per vendicarsi dei suoi nemici. Eppure è stato il procuratore generale designato da Joe Biden, Merrick Garland, a nominare un procuratore speciale, Jack Smith, che ha incriminato quello che, ai tempi, era l’avversario elettorale dello stesso Biden. Era inoltre il 2016, quando l’Fbi aprì un’indagine sulla presunta collusione tra il team elettorale di Trump e Mosca. Ebbene, il rapporto investigativo del procuratore speciale John Durham ha dimostrato che non si registravano elementi sufficienti per avviare quell’inchiesta. Non solo. Quel rapporto ha anche individuato tracce di faziosità politica alla base dell’indagine e ha infine puntato il dito contro il fatto che i federali chiesero e ottennero dei mandati di sorveglianza ai danni di un consigliere del tycoon, facendo riferimento al dossier di Christopher Steele: un documento, poi rivelatosi largamente infondato, che non era stato verificato a dovere. Se dunque c’è qualcuno che ha subito l’uso politico della Giustizia finora in America, quello è Trump.
Lascia quindi perplessi che molti si stiano stracciando le vesti per il fatto che il tycoon abbia nominato Kash Patel a direttore del Bureau. Secondo alcuni è troppo fedele al presidente in pectore, secondo altri sarebbe invece troppo inesperto. Ora, la logica che sta alla base di questa nomina è chiara: Trump vuole ristrutturare pesantemente il Bureau e punta a promuovere un radicale spoil system al suo interno. In questo senso, vuole sostituire quel Christopher Wray che, da lui nominato nel 2017, non è riuscito a riformare la macchina né tantomeno ad arginare la filiera burocratica risalente alle amministrazioni precedenti.
Nel 2020, l’Fbi giocò del resto un ruolo cruciale nel mettere sotto pressione le grandi piattaforme web, affinché censurassero lo scoop del New York Post che inguaiava Joe e Hunter Biden. «L’Fbi ci avvertì di una possibile operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma in vista delle elezioni del 2020», ha dichiarato Mark Zuckerberg lo scorso agosto, per poi proseguire: «Quell’autunno, quando abbiamo visto un articolo del New York Post su accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato presidenziale dem Joe Biden, lo abbiamo inviato ai fact checker per la revisione e ne abbiamo temporaneamente ridotto la diffusione in attesa di risposta». D’altronde, l’Fbi esercitò pressioni simili anche su Twitter. Peccato però che i contenuti dello scoop del New York Post fossero veri e che la disinformazione russa, paventata da qualcuno, non c’entrasse nulla.
Come se non bastasse, sotto Biden e Garland l’Fbi si è dato molto da fare per colpire i gruppi sgraditi ai dem. Era il 2023, quando fu diffuso un documento interno del Bureau, che metteva nel mirino alcune frange di cattolici tradizionalisti, accusate di estremismo. Emerse poi però che le fonti utilizzate per questo tipo di dossier erano inaffidabili, tanto che l’Fbi fu costretto a sconfessare platealmente il documento. Senza poi dimenticare l’esagerato dispiegamento di forze usato dai federali per arrestare, nel 2022, Mark Houck: un attivista pro life che venne poi assolto al processo tenutosi l’anno successivo. Insomma, sentire i dem paventare un uso politico della Giustizia da parte di Trump lascia francamente sorridere.
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Joe salva Hunter dalle due condanne subite e da tutti i possibili reati commessi dal 2014. Cioè, da quando il rampollo entrò nell’ucraina Burisma. The Donald: «È un abuso».Lo scudo è un autogol per il partito, che da sempre accusa il tycoon di politicizzare la giustizia. Un altro cortocircuito, dopo gli sfondoni dell’Fbi e le censure sui social.Lo speciale contiene due articoli.E meno male che era Donald Trump a politicizzare la Giustizia! Domenica, Joe Biden ha concesso il perdono presidenziale a suo figlio Hunter, che aveva subito due condanne penali: una per possesso illecito di arma da fuoco e l’altra per reati fiscali. Rischiava fino a 25 anni di prigione per la prima e fino a 17 per la seconda. Se i legali di Hunter hanno prontamente chiesto l’archiviazione dei suoi casi giudiziari, le polemiche non sono tardate a esplodere. «La grazia concessa da Joe a Hunter include gli ostaggi del 6 gennaio, che sono stati imprigionati per anni? Che abuso e ingiustizia giudiziari!», ha tuonato Trump, mentre malumori si sono registrati anche tra esponenti dem, a partire dal governatore del Colorado, Jared Polis. Ora, è vero che Bill Clinton graziò suo fratello Roger nel 2001 e che Trump fece altrettanto con il consuocero Charles Kushner nel 2020. Tuttavia la mossa di Biden appare assai controversa sotto svariati aspetti.Innanzitutto, a giugno, Biden aveva escluso di voler graziare suo figlio. «Ho detto che mi atterrò alla decisione della giuria. Lo farò. E non gli concederò il perdono», disse. Una linea, questa, che era stata confermata il 7 novembre dalla portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. In secondo luogo, Biden ha giustificato la grazia, lasciando intendere che Hunter avrebbe subito una persecuzione politico-giudiziaria. «Nessuna persona ragionevole che esamina i fatti dei casi di Hunter può giungere ad altra conclusione se non che Hunter è stato preso di mira solo perché è mio figlio, e questo è sbagliato», ha affermato il presidente uscente. Eppure, quando Trump definì una «caccia alle streghe» la condanna che aveva subito sul caso Stormy Daniels, proprio Biden lo accusò di «cercare di indebolire il sistema giudiziario». Non solo. Nel 2022, quando il tycoon si lamentò del raid dell’Fbi in casa sua, l’allora Speaker della Camera, Nancy Pelosi, sentenziò: «Nessuno è al di sopra della legge».In terzo luogo, oltre alla palese incoerenza del presidente, emerge un ulteriore aspetto controverso. Il perdono concesso ad Hunter è estremamente ampio e somiglia molto a quello con cui, nel 1974, Gerald Ford salvò di fatto Richard Nixon, appena dimessosi a causa dello scandalo Watergate. «Ho concesso a Robert Hunter Biden un perdono completo e incondizionato per quei reati contro gli Stati Uniti che ha commesso o potrebbe aver commesso o a cui ha preso parte durante il periodo che va dal primo gennaio 2014 al primo dicembre 2024», si legge nel testo della grazia. Questo vuol dire che Biden non ha salvato il figlio soltanto dagli effetti delle condanne subite ma che lo ha anche «scudato» rispetto ad altri reati che potrebbe aver commesso negli ultimi dieci anni.Non è del resto un caso che il presidente uscente abbia citato esplicitamente il 2014. Non dimentichiamo che Hunter entrò ai vertici della controversa azienda ucraina Burisma proprio quell’anno e che i procuratori stavano ancora indagando su di lui per presunta violazione della legge che impone la registrazione ai lobbisti operanti per conto di entità straniere. Si tratta di un filone, quest’ultimo, che stava lambendo lo stesso Joe Biden: nonostante l’attuale inquilino della Casa Bianca avesse spesso detto di non essere mai stato coinvolto negli affari del figlio, è emerso invece che, tra il 2014 e il 2015, Hunter mise più volte in contatto il padre, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti in carica, con i suoi controversi partner in affari. A rivelarlo fu un ex socio e amico di Hunter, Devon Archer, durante un’audizione al Congresso l’anno scorso.Non solo. Archer, che era stato nel board di Burisma, raccontò anche che quest’ultima aveva assunto Hunter proprio per avere protezione dalle «pressioni» investigative che arrivavano dal governo di Kiev. Ricordiamo sempre che Biden, nel 2015, intimò all’allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, di licenziare il procuratore generale Viktor Shokin, minacciando di bloccare gli aiuti americani all’Ucraina, qualora ciò non fosse avvenuto. Sarà stato un caso, ma Shokin, silurato poi nel 2016, aveva indagato su Burisma per corruzione. Ricordiamo anche che, a partire dal 2014, Biden, da vicepresidente americano, sovrintendeva ai rapporti tra Washington e Kiev. Il fatto che suo figlio fosse entrato ai vertici di Burisma proprio quell’anno fece emergere fondati sospetti di conflitto d’interessi. La gravità del perdono ad Hunter non sta quindi solo nell’incoerenza di Biden ma anche nel fatto che, per la sua ampiezza, la grazia riguarda questioni che sfiorano lo stesso presidente uscente.Insomma, chi ha politicizzato la Giustizia sono stati principalmente i dem. E comunque, dal punto di vista eminentemente politico, il perdono ad Hunter rappresenta, volente o nolente, un assist a Trump. Il presidente in pectore ha infatti l’occasione non solo di ritorcere contro i suoi avversari l’accusa di strumentalizzare il sistema giudiziario ma, grazie a questo precedente, avrà più margine di manovra per graziare chi vorrà. Non solo. Avrà anche maggiore leva per far passare al Senato due nomine che hanno irritato i progressisti negli scorsi giorni: parliamo di Pam Bondi a procuratore generale e, soprattutto, Kash Patel a direttore dell’Fbi. Ovviamente Biden non può non rendersi conto di quello che la sua grazia comporta. Va però tenuto presente che il presidente uscente è ormai in modalità «muoia Sansone con tutti i filistei». Dopo essere stato brutalmente silurato dal Partito democratico a luglio, ha soltanto voglia di mettergli i bastoni tra le ruote e di salvaguardare i propri famigliari.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/hunter-biden-grazia-2670285475.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-il-bue-dem-da-del-cornuto-a-trump" data-post-id="2670285475" data-published-at="1733175046" data-use-pagination="False"> Ma il bue dem dà del cornuto a Trump I dem sono finiti in un cortocircuito. Hanno accusato per anni Donald Trump di aver politicizzato la Giustizia. Peccato che ad agire in questo modo sia in realtà stata l’amministrazione Biden. E non ci riferiamo soltanto alla grazia che il presidente uscente ha concesso a suo figlio. Continuano a ripetere che Trump voglia usare i poteri presidenziali per vendicarsi dei suoi nemici. Eppure è stato il procuratore generale designato da Joe Biden, Merrick Garland, a nominare un procuratore speciale, Jack Smith, che ha incriminato quello che, ai tempi, era l’avversario elettorale dello stesso Biden. Era inoltre il 2016, quando l’Fbi aprì un’indagine sulla presunta collusione tra il team elettorale di Trump e Mosca. Ebbene, il rapporto investigativo del procuratore speciale John Durham ha dimostrato che non si registravano elementi sufficienti per avviare quell’inchiesta. Non solo. Quel rapporto ha anche individuato tracce di faziosità politica alla base dell’indagine e ha infine puntato il dito contro il fatto che i federali chiesero e ottennero dei mandati di sorveglianza ai danni di un consigliere del tycoon, facendo riferimento al dossier di Christopher Steele: un documento, poi rivelatosi largamente infondato, che non era stato verificato a dovere. Se dunque c’è qualcuno che ha subito l’uso politico della Giustizia finora in America, quello è Trump. Lascia quindi perplessi che molti si stiano stracciando le vesti per il fatto che il tycoon abbia nominato Kash Patel a direttore del Bureau. Secondo alcuni è troppo fedele al presidente in pectore, secondo altri sarebbe invece troppo inesperto. Ora, la logica che sta alla base di questa nomina è chiara: Trump vuole ristrutturare pesantemente il Bureau e punta a promuovere un radicale spoil system al suo interno. In questo senso, vuole sostituire quel Christopher Wray che, da lui nominato nel 2017, non è riuscito a riformare la macchina né tantomeno ad arginare la filiera burocratica risalente alle amministrazioni precedenti. Nel 2020, l’Fbi giocò del resto un ruolo cruciale nel mettere sotto pressione le grandi piattaforme web, affinché censurassero lo scoop del New York Post che inguaiava Joe e Hunter Biden. «L’Fbi ci avvertì di una possibile operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma in vista delle elezioni del 2020», ha dichiarato Mark Zuckerberg lo scorso agosto, per poi proseguire: «Quell’autunno, quando abbiamo visto un articolo del New York Post su accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato presidenziale dem Joe Biden, lo abbiamo inviato ai fact checker per la revisione e ne abbiamo temporaneamente ridotto la diffusione in attesa di risposta». D’altronde, l’Fbi esercitò pressioni simili anche su Twitter. Peccato però che i contenuti dello scoop del New York Post fossero veri e che la disinformazione russa, paventata da qualcuno, non c’entrasse nulla. Come se non bastasse, sotto Biden e Garland l’Fbi si è dato molto da fare per colpire i gruppi sgraditi ai dem. Era il 2023, quando fu diffuso un documento interno del Bureau, che metteva nel mirino alcune frange di cattolici tradizionalisti, accusate di estremismo. Emerse poi però che le fonti utilizzate per questo tipo di dossier erano inaffidabili, tanto che l’Fbi fu costretto a sconfessare platealmente il documento. Senza poi dimenticare l’esagerato dispiegamento di forze usato dai federali per arrestare, nel 2022, Mark Houck: un attivista pro life che venne poi assolto al processo tenutosi l’anno successivo. Insomma, sentire i dem paventare un uso politico della Giustizia da parte di Trump lascia francamente sorridere.
Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
www.carlopelanda.com
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Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
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