2024-07-27
La Harris fa il filo ad abortisti e trans ma snobba gli elettori cattolici
Kamala Harris (Getty Images)
In uno spot la vice-Biden cita tutte le minoranze tranne quella fedele alla Chiesa di Roma. Che di solito porta alla Casa Bianca.Barack e Michelle Obama «telefonano» a Kamala Harris: una sceneggiata che nasconde la freddezza dell’ex presidente. Che vuole comunque mettere il becco nelle nomine in caso di vittoria.Lo speciale contiene due articoli.La campagna di Kamala Harris ha pubblicato il suo primo spot elettorale. Come prevedibile, si tratta di un inno a favore delle minoranze, in pieno stile «identity politics». Una strategia che potrebbe, però, ben presto rivelarsi problematica.Innanzitutto, la storia insegna come le campagne elettorali americane impostate esclusivamente sulle minoranze non arrivino di solito molto lontano: nel 1984, il reverendo Jesse Jackson andò sonoramente a sbattere, seguendo questa linea. Una linea che, guarda caso, fu intelligentemente evitata da Barack Obama nel 2008. D’altronde, basta ricordare la fallimentare campagna elettorale con cui la Harris si presentò alle primarie dem di quattro anni fa: dopo una partenza sprint, fu costretta a ritirarsi addirittura due mesi prima che la competizione elettorale vera e propria avesse inizio, visto che i sondaggi le attribuivano appena il 4% dei consensi a livello nazionale.Un secondo aspetto da sottolineare è che la vicepresidente si sta sì concentrando sulle minoranze. Ma ne sta trascurando una: quella dei cattolici. Il che lascia trasparire una certa assenza di lungimiranza. Non è un mistero che, spesso, chi in America vince il voto cattolico riesca poi a conquistare la Casa Bianca. Fu, per esempio, il caso di George W. Bush nel 2004, di Obama nel 2008 e di Donald Trump nel 2016. Eppure la Harris non sembra intrattenere rapporti troppo calorosi con i fedeli della Chiesa di Roma. E sono i fatti a parlare.Nel 2018, da senatrice, contestò al candidato giudice, Brian C. Buescher, la sua appartenenza all’associazione cattolica dei Cavalieri di Colombo, definendo quest’ultima una «organizzazione di soli maschi» che si «opponeva al diritto di scelta delle donne». Tutto questo ignorando o fingendo di ignorare che dei Cavalieri di Colombo avevano fatto parte importanti esponenti dem del passato, come John e Ted Kennedy. Un ulteriore elemento che pone la Harris in contrasto con i cattolici è il suo ferreo sostegno all’aborto. Secondo la Catholic news agency, quando corse per il Senato nel 2016, ricevette finanziamenti elettorali da vari esponenti del Center for reproductive rights e di Planned parenthood: quella stessa Planned parenthood che, appena pochi giorni fa, ha dato il proprio endorsement alla sua campagna presidenziale. Sempre nel 2016, da procuratrice generale della California, la Harris ordinò di fatto un raid nella casa di David Daleiden, un attivista pro life che aveva condotto un’indagine sotto copertura proprio all’interno di Planned parenthood. Come se non bastasse, la Harris sponsorizzò, nel 2015, anche il Reproductive fact act: un disegno di legge che voleva imporre ai centri per la vita di fornire informazioni su dove fosse possibile richiedere l’interruzione di gravidanza.Non solo. Da vicepresidente, la Harris ha poi sostenuto l’Equality act: una norma che, secondo i vescovi americani, avrebbe violato la libertà religiosa, «costringendo i professionisti sanitari, contro il loro miglior giudizio medico, a sostenere trattamenti e procedure associati alla transizione di genere». E veniamo, quindi, alla questione transgender.Tra i papabili candidati vice della Harris stanno circolando, in questi giorni, soprattutto due nomi: quello del governatore dell’Illinois, J.B. Pritzker, e quello del suo collega del Kentucky, Andy Beshear. Il primo, oltre ad aver firmato norme statali a favore dell’affermazione di genere, ha come cugina la miliardaria Jennifer Pritzker: donna trans che, in passato, ha finanziato delle cliniche per l’identità di genere e donato all’Università di Victoria due milioni di dollari per istituire una cattedra in «studi transgender». Un tempo gravitante attorno al Partito repubblicano, Jennifer Pritzker passò infine a sostenere Joe Biden in occasione della campagna elettorale del 2020. Dall’altra parte, Beshear, l’anno scorso, ha posto il veto su un disegno di legge, sponsorizzato dai repubblicani, che avrebbe vietato di affrontare il tema dell’identità di genere negli istituti scolastici. Sarà un caso, ma il National center for transgender equality ha appena dato il proprio endorsement alla candidatura presidenziale della Harris.È chiaro che, qualora dovesse scegliere J.B. Pritzker o Beshear come running mate, la vicepresidente peggiorerebbe ulteriormente i propri rapporti con il mondo cattolico. Da questo punto di vista, è significativo il fatto che, pur essendo cattolico, Biden, nel 2020 vinse sì il voto dei fedeli alla Chiesa di Roma, ma di pochi punti: segno che, probabilmente, fu penalizzato proprio dall’essere in ticket con la Harris. D’altronde, papa Francesco è sempre stato molto netto nel criticare tanto l’aborto quanto l’ideologia gender.Per la vicepresidente si tratta di un nodo spinoso. Non a caso Trump sta lavorando molto sul voto cattolico. Ha scelto innanzitutto un running mate cattolico, come J.D. Vance. Inoltre ha da tempo focalizzato la sua attenzione sull’elettorato ispanico, che è storicamente in gran parte legato alla Chiesa romana. A fine aprile, un sondaggio del Pew research center rilevò che il candidato repubblicano aveva il sostegno del 55% dei cattolici contro il 43% raccolto, invece, da Biden. Parliamo di un gap significativo che la Harris farà fatica a colmare, soprattutto se dovesse scegliere di puntare tutto su «identity politics» e radicalismo in materia di temi etici.Il rischio per la vicepresidente è quello di rimanere vittima della propria autoreferenzialità, scambiando la totalità dell’America per San Francisco o New York. Non è col settarismo più o meno fighetto ma con la trasversalità e la capacità di sparigliare le carte che si vincono le elezioni negli Stati Uniti. Che la Harris lo abbia compreso resta, al momento, da dimostrare. E i cattolici, a novembre, potrebbero giocarle un brutto scherzo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/harris-abortisti-trans-snobba-cattolici-2668824189.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="obama-lappoggia-ma-non-si-fa-vedere" data-post-id="2668824189" data-published-at="1722073611" data-use-pagination="False"> Obama l’appoggia ma non si fa vedere Alla fine l’endorsement di Barack Obama è arrivato. Ieri, la campagna di Kamala Harris ha pubblicato un video in cui si vede la vicepresidente rispondere a una telefonata dell’ex inquilino della Casa Bianca. «Ti abbiamo chiamato per dirti che Michelle e io non potremmo essere più orgogliosi di sostenerti e di fare tutto il possibile per farti superare queste elezioni e arrivare allo studio ovale», dichiara Obama nel video, senza però apparire. «Oh mio Dio, Michelle, Barack, questo significa così tanto per me», replica la Harris. Con questo endorsement sembrerebbe che ormai l’establishment del Partito democratico sia compattamente a favore della candidatura della vicepresidente la quale ha anche virtualmente l’appoggio della maggior parte dei delegati alla convention nazionale di agosto. Eppure, attenzione: non è tutto oro quel che luccica. Innanzitutto l’endorsement degli Obama è arrivato piuttosto in ritardo rispetto a quello di altri big dem, come i Clinton e Nancy Pelosi. Inoltre, appena martedì scorso, uno dei principali esponenti dell’entourage dello stesso Obama, il suo ex senior advisor David Axelrod, ha detto di considerare Donald Trump come «notevolmente favorito» rispetto alla Harris in vista delle elezioni di novembre. D’altronde, negli ultimi due anni Axelrod non ha mai nascosto di nutrire grande simpatia e stima per il governatore della California, Gavin Newsom (un Newsom che, tuttavia, non ha voluto rischiare di bruciarsi scendendo in campo ad appena tre mesi dal voto di novembre). Non solo. Sempre Axelrod, domenica scorsa, aveva invocato un «processo aperto» per sostituire la candidatura di Biden, lasciando quindi intendere di non auspicare una successione automatica. Probabilmente Obama ha sempre saputo che la Harris fosse destinata a partire piuttosto svantaggiata: secondo il sito Fivethirtyeight, meno del 40% degli americani apprezza la sua attività come vicepresidente. Inoltre, un recentissimo sondaggio dell’Emerson college dà Trump davanti a lei in ben quattro Stati chiave. È quindi verosimile che, in questi ultimi giorni, ai vertici dell’Asinello si siano svolte delle trattative. E che, messo di fronte al poco tempo rimasto prima del voto, Obama abbia alla fine accettato la Harris, ottenendo magari in cambio di aver voce in capitolo non solo nella scelta del suo candidato vice ma anche in quella dei ministri di un’eventuale nuova amministrazione dem. C’è infine chi ritiene l’endorsement dell’ex presidente dem come qualcosa di salvifico per la sempre più probabile candidata dell’Asinello. Anche in questo caso, bisogna andare con i piedi di piombo. Gli Obama si sono alienati le simpatie di una parte della sinistra dem dopo che, nel 2016, decisero di dare l’appoggio a Hillary Clinton anziché a Bernie Sanders. Il loro «tocco magico» si è, quindi, notevolmente affievolito. D’altronde, a mettere in guardia dall’«euforia» di questi giorni in casa dem è stato ieri anche uno stratega clintoniano come James Carville. I giochi sono ancora da fare, sia chiaro. Ma la strada per la Harris resta al momento in salita.
Jose Mourinho (Getty Images)