2022-01-09
Hanno inventato i no vax vaccinati
L’obbligo e le relative sanzioni non si abbattono solo sui renitenti alla puntura, ma anche su chi si è già fatto due dosi. E domani tre, quattro, cinque: infatti non c’è alcun limite. È stato avviato un meccanismo infernale che mette i cittadini in balìa del governo.Molti plaudono all’introduzione dell’obbligo vaccinale dai 50 anni in su, convinti che la legge riguardi la minoranza che finora ha rifiutato l’iniezione. In realtà non sanno che il provvedimento riguarda anche coloro che sono già stati inoculati con doppia e, in futuro, anche tripla dose. Infatti, il decreto approvato dal governo e pubblicato ieri notte, non fissa un limite all’obbligo di offrire il braccio alla patria. Non dice che gli italiani sono considerati renitenti al vaccino se non si sono sottoposti alla prima e alla seconda puntura. Spiega che dal primo febbraio sono passibili di multa tutti coloro che non «abbiano effettuato la dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario entro i termini di validità delle certificazioni verdi Covid-19». In pratica, con un colpo di mano, il governo mette fuori legge 25 milioni di italiani che non si sono precipitati a fare la terza dose, minacciandoli di sanzione se non si affretteranno a prenotare l’iniezione. Detto in poche parole, nel mirino di Roberto Speranza e compagni non ci sono solo gli irriducibili che non hanno ancora ceduto all’inoculazione, ma tutti quelli che non hanno fatto il booster. La sorpresa, che già lascia basiti in quanto fino a ieri le persone che avevano ricevuto due dosi non erano certo trattate alla stregua dei no vax, non è finita. Considerando il fatto che sono sempre di più gli italiani che hanno ricevuto la terza dose, ma risultano positivi alla variante Omicron, tra un po’ l’esecutivo potrebbe decidere che anche chi non si sia sottoposto a una quarta iniezione debba essere multato e sospeso dal lavoro. Già, perché una volta che si sono forzati i diritti delle persone, è un gioco stabilire se ci si debba fermare alla seconda, alla terza, alla quarta o alla quinta iniezione. Chi decide infatti qual è la dose giusta da iniettare? Chi difende il diritto sancito dall’articolo 32 della Costituzione? Se si sono chiusi gli occhi di fronte alle prime violazioni, è assai probabile che si possano chiudere anche dinanzi a quelle successive. Se si può obbligare qualcuno a vaccinarsi, minacciandolo di privarlo dello stipendio, del diritto a utilizzare i mezzi pubblici, di accedere ad alcuni esercizi e perfino di vivere una vita normale, considerandolo niente di meno che un untore, cioè un pericolo per la salute pubblica anche se non ha alcun sintomo, domani si potrà fare altrettanto sul presupposto che una persona non si è sottoposta al numero di iniezioni stabilito dalla suprema autorità.Forse a qualche lettore il mio discorso parrà provocatorio e portato alle estreme conseguenze. In realtà così non è, prova ne sia che, tra poche settimane, chi non si sarà sottoposto alla terza dose rischierà non soltanto la multa, ma soprattutto di vedersi privato da una serie di diritti, costretto a compensare la mancanza della terza dose con un tampone, ovviamente a sue spese. Tutto ciò, lo ricordo, riguarderà 25 milioni di italiani a cui dobbiamo sommare circa 6 milioni di cosiddetti no vax. In pratica, la metà della popolazione o si affretta a correre ai centri vaccinali o dal primo febbraio è considerata fuori legge, passibile di sanzione e di limitazioni. Non so se tutto ciò sia chiaro a chi ha applaudito all’obbligo vaccinale. Nemmeno sono a conoscenza se questa escalation di privazione delle libertà di scelta degli individui sia stata compresa da chi si ritiene al sicuro in quanto si è sottoposto alla terza dose. Come ormai è evidente a chiunque voglia vedere il fenomeno, non è vero che non c’è due senza tre: non c’è tre senza quattro e forse cinque, perché i vaccini perdono via via efficacia e quindi è necessaria una rincorsa continua, la cui utilità pare dubbia. Nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato quanto accaduto a Massimo Galli. Il virologo star della tv, sempre pronto a dispensare opinioni dall’alto della sua cattedra, nonostante la terza dose è stato contagiato dal Covid e se l’è vista brutta. Checché ne dica ora, se non fosse stato esperto di infezioni, pratico di ospedali e terapie, se cioè fosse stato un Massimo Galli qualunque, nonostante la terza dose sarebbe stato condannato a curarsi con tachipirina e vigile attesa, come il 99,9% degli italiani, molti dei quali proprio per aver atteso una guarigione che non c’è stata sono finiti in terapia intensiva se non al camposanto. Nel caso di Galli il professore, invece si è praticata subito una cura con le monoclonali e questo ha risolto il caso, evitando peggioramenti. Vi chiedete che cosa voglio dire? Che l’obbligo non salva dal contagio e nemmeno dal peggioramento dalle condizioni di chi è contagiato. I vaccini aiutano, ma non sono in grado di fermare i contagi e serve aumentare le terapie per evitare che la malattia peggiori. La prova di tutto ciò è data dall’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di sanità. Nel mese di dicembre, su oltre 1 milione di contagiati, 251.000 erano non vaccinati, 850.000 avevano ricevuto in gran parte almeno due dosi, se non tre. A proposito di ospedalizzazioni, il rapporto vede una leggera prevalenza di vaccinati, mentre la maggioranza di persone che finisce in terapia intensiva non si è vaccinata. Il 65%, infatti, non si è sottoposto neppure alla prima iniezione, mentre il 35 è vaccinato. Questo dimostra alcune cose. La prima è che è falso parlare di epidemia di non vaccinati, a meno che 850.000 italiani siano invisibili. La seconda è che chi non ha fatto l’iniezione rischia molto di più, ma questo non significa che chi ne ha fatta una, due o tre possa sentirsi al sicuro. Massimo Galli insegna. O per lo meno: lui insegna poco, la sua esperienza di più. Ps. Per aver svelato i suoi guai sanitari, l’ex primario del Sacco in un’intervista sulla Stampa ci definisce «meschini pennivendoli». Secondo la lingua italiana, meschino è sinonimo di miserabile, mentre pennivendolo lo si dice di chi mette in vendita la sua penna. Noi non siamo né la prima né la seconda cosa: siamo semplicemente giornalisti che non si inchinano davanti a un barone universitario. E, a differenza di Galli, non siamo nemmeno accusati di truccare i concorsi per favorire gli amici.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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