2019-07-15
Ernesto Maria Ruffini (Ansa)
Mister Fisco fa una mossa prevista nel copione spifferato dal consigliere del Quirinale: «Elly Schlein non la vedo premier. Servirebbe un governo tutti insieme». E ad Assisi battezza la nuova creatura in salsa prodiana.
«Non vedo Elly Schlein come premier». Finito di separare con la forchetta le verdure dal roast beef e di raccontarsi come uno Special one di sacrestia («Mai votato Dc anche se nipote di cardinale, a 15 anni fumavo la pipa»), Ernesto Maria Ruffini dà il titolo all’intervistatore del Foglio. «Ai miei occhi chi si vede adesso come premier anziché guadagnare punti ne perde. All’assemblea pd è andato a votare meno di un terzo dei membri». Una frase destinata a far andare di traverso la particola consacrata domenicale a Dario Franceschini, totem cattodem del Nazareno e neo-sponsor (con il Correntone) della Elly a Palazzo Chigi. Ma sembra che il Metternich di Piacenza debba rifare tutto perché l’ex gabelliere dell’Agenzia delle Entrate scende in campo e non ha alcuna intenzione di fare la comparsa.
«Io ci sarò quando sarà il momento», puntualizza riferendosi alle primarie, mentre schizza un disegno sul tovagliolo; a sinistra se la tirano tutti da artisti, avrà letto che all’inizio lo faceva anche Picasso per pagare il conto. Poi il promotore dei comitati «Più uno» aggiunge: «Ci sarò se si parla di contenuti. Il centrosinistra ha perso le elezioni non perché non avesse un leader ma perché non aveva un’idea. Quando l’ha avuta, con Romano Prodi, ha vinto». Più che a un campo largo aspira a un campo aperto «perché servirebbe un governo tutti insieme». Il governissimo, l’esecutivo del presidente, l’acme dei sogni bagnati della sinistra in affanno. Leggi e ti viene un dubbio: questa dove l’avevo già sentita? Ma certo, è l’emendamento Garofani. È la traduzione in bella copia della strategia del consigliere del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
«Speriamo che cambi qualcosa prima delle prossime elezioni, ci vorrebbe un provvidenziale scossone»; per sconfiggere il centrodestra «basterebbe una grande lista civica nazionale», aveva rivelato Francesco Garofani durante una cena sportiva. Le frasi terremotarono la pace di cachemire del Colle e costarono a questo impertinente giornale, che le pubblicò, accuse patetiche e infamanti di complottismo e di eversione. Il Quirinale emise un comunicato grondante indignazione («Si è sconfinato nel ridicolo»). Il sistema mediatico dei colletti stirati scodinzolò. Il Pd si allarmò per la delegittimazione implicita della segretaria. Adesso arriva in motorino il nipote del cardinale di Palermo e ripete il progetto senza avere toccato un dito di vino: sono anche queste chiacchiere in libertà?
Ruffini fa lo gnorri, ammette solo che «a sinistra c’è rassegnazione e Garofani è un amico, ci lega anche il tifo (per la Roma, ndr)». Lapidario, telegrafico, si sta allenando a realizzare il sogno da ragazzino: fare lo scrittore delle frasi dei Baci Perugina. Il resto quadra tutto. Ex direttore dell’Agenzia delle Entrate ha come brodo di coltura il grande centro, come nume tutelare Mattarella, come leader da imitare Prodi («Ascolto sempre i suoi preziosi consigli»), come taxi da acchiappare il Pd, come pianta da coltivare l’ulivo. Da 30 anni i cattodem sono fermi al semaforo prodiano e oggi più che mai considerano Schlein un’intrusa «che non percepisce la realtà e non ascolta nessuno» (dixit Pier Luigi Castagnetti che una volta a settimana pranza con il capo dello Stato).
Il centrosinistra cattolico si è rimesso in moto con la speranza di attraversare il grande deserto elettorale. Sarà la sesta o settima volta che ci prova e finora i risultati sono stati da zero virgola. Ma «la provvidenza» di Ruffini è la stessa di Garofani, di Paolo Gentiloni, di Andrea Riccardi, del Sant’Egidio al completo, del cardinal Matteo Zuppi, del Vaticano gesuita e della Cei, di Graziano Delrio, del mattarellismo ecumenico. Sconfessato dal Pantheon, Franceschini si allineerà. Per la Schlein stanno per arrivare tempi duri. Rischia di scomparire in una catacomba o di farsi guidare la mano mentre stila le prossime liste elettorali; la seguace di Manu Chao dovrà vergare sotto dettatura i nomi di candidati e cacicchi per lei impresentabili, che guardacaso nel 2029 eleggeranno il presidente della Repubblica.
In questo aulico contesto, ieri è stata varata «Comunità riformista». Titolo di qualcosa che nasce vecchio. In Umbria, ad Assisi, Santa Maria degli Angeli, più di una benedizione, con lo scopo di «tenere insieme il riformismo socialista, la tradizione del cattolicesimo democratico, la tradizione liberale e quella dell’associazionismo», come ha puntualizzato Enzo Maraio, segretario di Avanti Psi. Ma fra i promotori del minestrone di verdura c’è proprio Ruffini che ha aggiunto: «Il laboratorio che parte qui ad Assisi chiama a raccolta tutte le forze riformiste per contribuire a formare un pensiero politico. L’ambizione è quella di creare una comunità e poi quella di governarla, per fare e per contrapporsi a questo governo».
Dietro di lui è uscito dalla nebbia (o dal sarcofago) un costruttore di percorsi silvani col bollino blu: Bruno Tabacci, simbolo evergreen del galleggiamento politico nella calma piatta dell’arzigogolo. «È necessario che forze del mondo riformatore abbiano la capacità di mettersi insieme; ci vuole generosità, serietà, impegno e profondità nei programmi». Per cominciare aspettano Garofani con un chilo di provvidenza. Poi gli happy few ci sono tutti. Anzi no, manca Clemente Mastella, quello della storica frase: «Quando sento odore di braciola mi avvicino». È solo questione di tempo.
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Pasquale Tridico
A Bruxelles, la commissione guidata da Pasquale Tridico avanza la proposta di prelevare il 2% a chi è oltre 100 milioni. Gettito previsto: 67 miliardi l’anno. I contribuenti europei: si inizia così poi arriva la tassa continentale a tutti.
La patrimoniale proposta da Maurizio Landini, ovvero prelevare l’1,3% sul patrimonio netto di chi possiede più di 2 milioni di euro, è stata rispedita al mittente in Italia, però rischia di rientrare dalla finestra attraverso l’Europa. Al Parlamento europeo, gli eurodeputati hanno infatti esaminato la possibilità di introdurre una forma di imposizione minima sui patrimoni molto elevati, nell’ambito di un più ampio programma volto a rendere i sistemi fiscali «più equi». Il tema è stato al centro di un’audizione organizzata l’11 dicembre dalla sottocommissione per le questioni fiscali del Parlamento europeo - la Fisc presieduta dal grillino Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps - alla quale hanno partecipato rappresentanti della Commissione Ue, dell’Ocse, dell’Osservatorio fiscale dell’Unione e della Tax Foundation Europe.
Al centro del dibattito la proposta illustrata da Gabriel Zucman, economista dell’Osservatorio fiscale della Ue, il quale ha avanzato l’idea di un’imposta minima sui cosiddetti patrimoni «estremi». Secondo i suoi calcoli, tassare al 2% i cittadini europei con patrimoni superiori ai 100 milioni di euro potrebbe garantire un gettito fino a 67 miliardi di euro l’anno. Una cifra considerata appetibile in una fase in cui l’Unione è alla ricerca di nuove risorse per finanziare le proprie politiche, in particolare quelle per la Difesa. Senza contare i 90 e passa miliardi, in pratica a fondo perduto, che a breve prenderanno la direzione di Kiev.
Secondo Tridico, «la Ue continua a confrontarsi con profonde disuguaglianze nelle nostre società e si trova ad affrontare importanti sfide nel mobilitare le risorse necessarie per finanziare le sue politiche», e «lo studio presentato dall’Osservatorio fiscale europeo evidenzia serie preoccupazioni», ha sottolineato il candidato del Campo largo sconfitto recentemente in Calabria, «circa l’efficacia delle imposte sul patrimonio netto finora adottate dai singoli Stati membri nel contrastare le ingenti fortune concentrate in un numero ristretto di cittadini. Queste carenze derivano dalle esenzioni, dall’erosione delle basi imponibili e dalla facilità di mobilità della ricchezza». E dunque? «Per affrontare queste debolezze e offrire una soluzione credibile a livello europeo, si dovrebbero prendere in considerazione nuove proposte, tra cui quella avanzata da mister Zucman», ha detto Tridico.
Il problema, ha replicato invece Michael Christl della Tax Foundation Europe, è che l’europatrimoniale avrebbe degli effetti collaterali non secondari. Secondo Christl, un aumento della pressione fiscale sui grandi patrimoni non porterebbe maggiore equità, bensì disinvestimenti, delocalizzazioni e fughe di capitali verso Paesi extra Ue - a partire dalla Gran Bretagna passando per la Svizzera, fino a Dubai e persino Stati Uniti - rendendo l’Europa meno competitiva e meno attrattiva di quello che è già a causa della devastante burocrazia soprattutto green e la rigida impalcatura fiscale. Anche tra gli eurodeputati il fronte appare spaccato. C’è chi ha chiesto prove empiriche più solide sul legame tra nuove imposte e trasferimento dei contribuenti facoltosi, e chi invece ha sottolineato come la ricerca di maggiore equità sociale debba comunque fare i conti con la necessità di non compromettere la capacità dell’Europa di attrarre investimenti.
Nel dibattito si è inserita con toni durissimi l’Associazione dei contribuenti europei (Taxpayers of Europe), che ha definito «inquietante» la discussione in corso. Il presidente Michael Jaeger ha chiesto di «stroncare sul nascere» ogni ipotesi di armonizzazione fiscale europea, ricordando che la tassazione del reddito e del patrimonio è competenza esclusiva degli Stati membri. Secondo l’associazione, esempi come quello francese dimostrano inoltre che anche il solo annuncio di una tassa patrimoniale può provocare effetti devastanti: in Francia, è stato ricordato, la fuga di capitali avrebbe raggiunto i 35 miliardi di euro. La paura, avvertono i contribuenti europei, è che una tassa pensata oggi per colpire gli «iper ricchi» finisca domani per estendersi a famiglie e imprese, anche attraverso strumenti come il futuro Registro patrimoniale dell’Ue. Un passo che, secondo i critici ma banalmente secondo il buon senso, rischierebbe di trasformare la ricerca di equità fiscale in un boomerang per l’economia europea. Meno ricchi uguale meno lavoro, meno investimenti, meno risparmi da gestire, meno soldi che girano. Più povertà. Alla fine saremmo magari più «equi», come propongono i cervelloni continentali, nel senso che saremmo tutti più indigenti.
Un allarme che cresce mentre Bruxelles continua a discutere di nuove entrate, con il timore sempre più diffuso che, invece di trattenere capitali e investimenti, l’Europa finisca per spingerli definitivamente oltre i suoi confini.
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Antonio Di Pietro (Ansa)
L’ex magistrato lancia l’allarme in vista del referendum: «Vogliono spostare due milioni di voti di italiani all’estero, a loro insaputa». Una nuova richiesta può far slittare il voto.
La riforma della giustizia, di cui in Italia si discute ormai da decenni, potrebbe finalmente diventare realtà. Approvata dal Parlamento, deve ora superare l’ultimo scoglio: il referendum confermativo che si terrà la prossima primavera. Cavallo di battaglia di tutto il centrodestra, questa riforma epocale è invece ferocemente osteggiata dalla sinistra che, sin dai tempi del berlusconismo, sostiene che la divisione delle carriere rappresenterebbe una picconata alla democrazia e all’autonomia dei giudici.
Passata la sbornia per Gaza, che ha riportato in piazza anche i progressisti in pantofole, la sinistra si è prontamente mobilitata per condurre questa nuova battaglia. Ieri, infatti, è nato ufficialmente il comitato per il no. Tra i promotori, figurano anche Maurizio Landini (Cgil), Gianfranco Pagliarulo (Anpi) e persino una rediviva Rosy Bindi. La direzione del comitato, invece, è stata affidata al piddino Giovanni Bachelet. Che, durante la conferenza di presentazione, ha affermato che «l’unico obiettivo che persegue» questa riforma sarebbe «quello di indebolire il controllo di legalità sulle scelte di chi esercita il potere».
Non la pensa così, però, un ex magistrato come Antonio Di Pietro, di certo non sospettabile di simpatie destrorse. Anzi, attraverso il comitato «Sì separa», l’ex leader dell’Italia dei valori è sceso in campo in prima fila per perorare la bontà della riforma. Durante un convegno a Napoli, Di Pietro ha colto l’occasione per denunciare il rischio brogli al referendum: «Si stanno già costituendo organizzazioni per controllare il voto degli italiani all’estero che, come già avvenuto in passato, raccolgono gli elenchi degli elettori, costruiscono e spediscono queste lettere, ci mettono il voto, all’insaputa del diretto interessato».
Più in particolare, l’ex pm di Mani pulite si riferisce agli iscritti all’Aire: «Parliamo di 2 milioni di voti che spostano il risultato», ha precisato Di Pietro. Che poi ha spiegato: «Ci sono gruppi organizzati, appartenenti a specifici partiti politici e sindacati, che con questo sistema stanno già organizzando le “buste” di voti da far arrivare in Italia. Un fatto che rischia di determinare una falsificazione del risultato. Lo voglio denunciare oggi prima che sia troppo tardi. Invito il governo, perché fa ancora in tempo, a fare una legge di un solo articolo che permetta agli elettori all’estero di votare di persona, alle ambasciate o ai consolati, con il proprio documento di identità. Una norma con la quale si applicano al referendum le stesse modalità di voto previste per le elezioni europee». Per scongiurare qualsiasi truffa elettorale, peraltro, Di Pietro ha anche lanciato l’idea di istituire il comitato «Giustizia senza confini», proprio per tutelare il voto dei nostri connazionali all’estero.
Mentre la campagna referendaria inizia a entrare nel vivo, Carlo Nordio ha assicurato che questa riforma costituzionale è solo l’inizio di un piano d’azione molto più ampio. «Quando avremo chiuso la parentesi del referendum, metteremo subito mano al processo penale», ha dichiarato ieri il ministro della Giustizia. Secondo Nordio, occorre ripensarne l’impianto per renderlo davvero «garantista», basandolo su pochi ma irrinunciabili pilastri: la presunzione d’innocenza, la certezza di una pena umana e la rieducazione del condannato. «Questi principi spero che troveranno attuazione in questa legislatura e l’esito del referendum dovrebbe facilitarle», ha affermato il Guardasigilli.
In serata è poi arrivata la notizia di una nuova richiesta di referendum sulla giustizia (da parte di 15 cittadini) che potrebbe far slittare la data della consultazione sulla riforma Nordio. Un’eventualità che non incontrerebbe il favore della maggioranza, intenzionata ad affrontare al più presto l’esame delle urne.
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