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2021-07-08
La guerra dei Mas italiani sul Mar Nero e sul lago Ladoga (1942-43)
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Il Mas 528 in azione sul lago Ladoga
Sulle acque del Mar Nero le imbarcazioni italiane non si erano più viste dal XV secolo, quando lo sciabordio dei remi delle galee genovesi le avevano battute per lungo tempo, sulle rotte del commercio del Banco di San Giorgio. Sulle sue sponde erano nate e si erano sviluppate le colonie della Superba: Caffa, Cherson (oggi Sebastopoli) Caulita (oggi Jalta) e molte altre. Per i secoli successivi, quando gli Ottomani conquistarono la zona, la lingua genovese fu tramandata dai discendenti dei commercianti italiani venuti da occidente.
Le chiglie di navi italiane solcarono nuovamente il mar nero quasi cinque secoli dopo, quando il mondo si trovava all'apice della Seconda Guerra Mondiale, nella fase topica dell'invasione tedesca dell'Unione Sovietica, la famigerata operazione "Barbarossa". Gli italiani vi parteciparono sin dal luglio 1941 con un contingente di fanteria, il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) accettato "obtorto collo" da Hitler appena intervenuto nei Balcani a causa delle gravi difficoltà del Regio Esercito sul fronte greco-albanese.
Diverso fu l'atteggiamento germanico per quanto riguardò il ruolo della Regia Marina, fatto che costituì un'evidente eccezione per tutta la storia strategica dell'Asse. Il Mar Nero risultava infatti per le forze del Terzo Reich un punto debole di tutta l'operazione, perché le sue acque erano battute da forze ingenti della Marina sovietica e permettevano il passaggio di rifornimenti fondamentali per rendere difficile l'assedio della fortezza navale sovietica di Sebastopoli. La marina russa aveva a disposizione una nave da battaglia, la Parizskaja Kommuna, cinque incrociatori e quattordici cacciatorpediniere. Si aggiungevano ben 43 sommergibili, due cannoniere, 18 draga e posamine, 84 motosiluranti. Un armata del mare potente, che rischiava di compromettere le operazioni di assedio con la garanzia dei rifornimenti. Sulla sponda alleata dell'Asse, quella romena, le forze navali del regime di Bucarest erano pressoché inesistenti. Fu così che il comandante della Kriegsmarine Ammiraglio Raeder chiese la collaborazione della Regia Marina, memore dei successi della Baia di Suda e di Alessandria d'Egitto da parte dei Mas e degli incursori.
La prima battaglia, per le unità di Marina prescelte, fu il viaggio dai porti italiani alle sponde del Mar Nero. Per la XII e la IV Squadriglia Mas stava per cominciare un'epopea logistica tra le più complicate. Raggiungere il Mar Nero attraverso il Mediterraneo era impraticabile, sia per i rischi connessi alla presenza massiccia della Marina britannica che per la chiusura al traffico militare dello stretto dei Dardanelli. I Mas, gli MTSM (Motoscafi Turismo Siluranti Modificati) i barchini esplosivi e anche i minisommergibili Caproni classe CB dovettero così affrontare il viaggio per buona parte via terra.
Destinata al teatro del Mar Nero, il convoglio italiano della IV Squadriglia Mas fu affidato per la parte logistica ad una delle ditte più importanti dell'epoca, la Fumagalli di Milano. La colonna fu intitolata ad uno dei più famosi eroi dell'assedio di Malta, il Capitano di Fregata Antonio Moccagatta, caduto nel luglio 1941. il convoglio contava 28 autocarri sui quali erano stati caricati anche tutti i materiali per il rimontaggio e la manutenzione. Da La Spezia la lunga teoria dei mezzi d'assalto della Marina mosse alla fine di aprile del 1942 in direzione del Brennero per transitare via Innsbruck in direzione di Vienna. Il passaggio della colonna fu spesso ostacolato da strade strette e costruzioni che dovettero essere abbattute per permettere il passaggio dei Mas italiani. Dalla Capitale austriaca gli scafi si immersero nelle acque del Danubio, per un lungo viaggio che li portò fino alla foce del grande fiume a Costanza, in territorio romeno dove giunsero il 2 maggio. L' ultima tappa fu il porto di Jalta, sede operativa dei mezzi d'assalto italiani agli ordini del Capitano di Fregata Francesco Maria Mimbelli. L'attività nel quadro delle operazioni contro il porto di Sebastopoli iniziò subito. I mezzi italiani fecero da subito notare le proprie capacità offensive. I Mas presenti nella base di Jalta (dal n.566 al n.576) erano scafi della quinta serie costruiti dai cantieri Baglietto, Picchiotto e Celli. Erano mezzi velocissimi, dotati di un propulsore Isotta Fraschini da 2000 Cv e potevano raggiungere la spettacolare velocità di 44 nodi (circa 81 Km/h). Erano armati con mitragliere Breda 13,2 o tre da 20/65, due lanciasiluri da 450 e 6 bombe di profondità. Le azioni della IV Mas raggiunsero già nel primo mese alcuni risultati importanti, con l'affondamento di un mercantile sovietico con rifornimenti per 10.000 tonnellate e un piroscafo da 5.000. La parte debole dell'attività di guerra dei Mas italiani veniva dal cielo, poiché non erano adeguatamente protetti dai caccia (tedeschi, in quanto non vi era presenza della Regia Aeronautica) e dovettero subire perdite per l'attacco dell'aviazione sovietica. Nel mese di giugno ai motoscafi si aggiunsero i minisommergibili classe CB, uno dei quali sarà subito affondato per un attacco aereo russo alla base di Jalta. Il 18 giugno 1942 i Mas attaccarono un convoglio di uomini e materiali sovietici diretto a Sebastopoli, protetto da diverse cannoniere. Una delle imbarcazioni fu affondata, premessa ad azioni ancora più incisive nell'ambito della presa di Sebastopoli e Balaklava. Le missioni dei Mas nel Mar Nero furono complessivamente 65 a cui si sommarono le decine di sortite dei motoscafi siluranti e dei sommergibili CB. Le vittorie della IV Squadriglia Mas totalizzarono un incrociatore (il Molotov), un sommergibile, due mercantili e tre motovedette della Marina sovietica.
Nell'agosto del 1942 i mas 573, 568 e 569 furono i protagonisti della più importante vittoria, quella sul citato incrociatore "Molotov" e sul cacciatorpediniere Kharkov, che incrociavano in cerca di naviglio nemico per ostacolare i rifornimenti tedeschi verso la regione del Caucaso e si apprestavano a cannoneggiare la base di Feodosia. Nonostante la superiorità di fuoco del Molotov, con le sue bocche da 181 e i pezzi da 100 e 45 i mezzi d'assalto italiani si scagliarono contro la nave sovietica. Dopo un primo lancio andato a vuoto, uno dei siluri del 568 centrò in pieno il Molotov a poppa. Nella fuga il Mas fu inseguito dal veloce Kharkov ma riuscì con uno stratagemma a liberarsi dell'inseguitore che nel frattempo lo bersagliava con tutti i calibri disponibili. Il comandante Legnani fece sganciare le bombe di profondità in modalità scoppio anticipato, soluzione che riuscì a danneggiare e a far arretrare l'inseguitore.
All'inizio del settembre 1942 la base italiana di Feodosia fu colpita da un violento bombardamento sovietico che causò la perdita di tre Mas, tra cui il 573 che prese parte all'affondamento del Molotov.
Poco più tardi giunse l'inverno russo, e con esso la ritirata delle forze dell'Asse, di cui risentirono anche le unità della Regia Marina sul Mar Nero. Il carburante cominciò a scarseggiare e il fronte ad arretrare. Nonostante l'ordine di rientro in Italia per parte dei mezzi sul Mar Nero, alcune unità continuarono a combattere fino al 25 aprile 1943. L'ultima azione vittoriosa in quelle acque fu il 26 agosto, quando un sommergibile CB ebbe ragione di un sottomarino sovietico. Con l'armistizio i CB rimasti furono sequestrati dalle forze romene di Costanza, egli equipaggi italiani internati.
I minisommergibili saranno poi sequestrati dai sovietici che li useranno per alcuni esperimenti nel dopoguerra.
Il secondo fronte dell'operazione Barbarossa dove si trovarono ad operare gli Italiani fu il lago Ladoga, dove le unità della Regia Marina fecero parte di un contingente interforze che comprendeva, oltre alla Kriegsmarine, anche la Marina finlandese, alla quale fu affidato il comando nella figura del comandante Jarvinen. Alla richiesta della Kriegsmarine fu costituita a La Spezia la XII Squadriglia Mas con quattro mezzi della classe 500 (526,527,528, 529) agli ordini del Capitano di Corvetta Giuseppe Bianchini. Il viaggio dei Mas fu complesso e ancora più lungo di quello affrontato dalla IV Squadriglia. I chilometri complessivi percorsi su gomma furono oltre 3.000, fino all'arrivo a Stettino, che anticipò l'ultimo viaggio in piroscafo fino ad Helsinki. Gli Italiani furono assegnati alla ben rifornita base di Lahdenpoja, dove iniziò l'attività di appoggio e scorta alla Marina finlandese impegnata nel contrasto ai rifornimenti sovietici durante l'assedio di Leningrado. Il 15 agosto 1942 il Mas 527 del tenente Renato Bechi avvistò tre cannoniere sovietiche, che puntarono le proprie armi danneggiando l'imbarcazione italiana. Senza arretrare, ed in concorso con il Mas 528, lo scafo del tenente Bechi si lanciò verso il naviglio avversario sotto una pioggia di colpi e rispondendo con la sua mitragliera 20/65. a favore di lancio, i due Mas riuscirono a colpire ed affondare una delle cannoniere. L'azione si ripete alcuni giorni dopo, protagonisti gli stessi due Mas. In questo caso la vittima fu un convoglio sovietico che trasportava materiali. Nonostante venissero scoperti dal nemico a causa della distanza estremamente ravvicinata, con una rapida manovra di disimpegno i due scafi della XII Mas ricomparirono più tardi a favore di tiro. In poco più di 30 secondi la maona (in termini marinari una grande chiatta da rimorchio) lunga ben 70 metri saltò in aria con tutto il suo carico destinato a Leningrado. Poi anche sul Ladoga scese l'inverno, e a quella latitudine l'acqua si trasforma in ghiaccio non risultando più navigabile. I Mas italiani furono trasferiti nuovamente via Helsinki alla base di Reval, in Estonia. Nella primavera del 1943 i marinai italiani furono richiamati in patria e i Mas lasciati alla marina finlandese dopo tre mesi di intensa attività sulle acque del Ladoga.
Il comandante del Mas 527 protagonista dell'affondamento della cannoniera sovietica, come citato dalle memorie storiche della Marina Militare Italiana, passerà dopo l'8 settembre alla Marina co-belligerante partecipando al timone del MS 33 allo sbarco di informatori alleati dell'Oss a Punta del Moro, nei pressi di Ortona. Il Capitano di Fregata Francesco Maria Mimbelli proseguì invece la carriera nella Marina Militare Italiana fino al grado di Ammiraglio e il congedo nel 1964.
Per approfondire la storia della guerra dei Mas sul Mar nero e sul Ladoga, si segnala il volume di Gianni Bianchi "La XII e IV Flottiglia Mas nel lago Ladoga e Mar Nero - TV Renato Bechi, comandante del Mas 527" (Sarasota).
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Nella primavera 1941 iniziava l'operazione Barbarossa e partiva il primo contingente di fanteria italiano. La Regia Marina fu chiamata a contribuire agli assedi di Sebastopoli e Leningrado grazie alla fama dovuta ai successi dei Mas, che impegnarono la XII e IV Squadriglia.Sulle acque del Mar Nero le imbarcazioni italiane non si erano più viste dal XV secolo, quando lo sciabordio dei remi delle galee genovesi le avevano battute per lungo tempo, sulle rotte del commercio del Banco di San Giorgio. Sulle sue sponde erano nate e si erano sviluppate le colonie della Superba: Caffa, Cherson (oggi Sebastopoli) Caulita (oggi Jalta) e molte altre. Per i secoli successivi, quando gli Ottomani conquistarono la zona, la lingua genovese fu tramandata dai discendenti dei commercianti italiani venuti da occidente.Le chiglie di navi italiane solcarono nuovamente il mar nero quasi cinque secoli dopo, quando il mondo si trovava all'apice della Seconda Guerra Mondiale, nella fase topica dell'invasione tedesca dell'Unione Sovietica, la famigerata operazione "Barbarossa". Gli italiani vi parteciparono sin dal luglio 1941 con un contingente di fanteria, il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) accettato "obtorto collo" da Hitler appena intervenuto nei Balcani a causa delle gravi difficoltà del Regio Esercito sul fronte greco-albanese. Diverso fu l'atteggiamento germanico per quanto riguardò il ruolo della Regia Marina, fatto che costituì un'evidente eccezione per tutta la storia strategica dell'Asse. Il Mar Nero risultava infatti per le forze del Terzo Reich un punto debole di tutta l'operazione, perché le sue acque erano battute da forze ingenti della Marina sovietica e permettevano il passaggio di rifornimenti fondamentali per rendere difficile l'assedio della fortezza navale sovietica di Sebastopoli. La marina russa aveva a disposizione una nave da battaglia, la Parizskaja Kommuna, cinque incrociatori e quattordici cacciatorpediniere. Si aggiungevano ben 43 sommergibili, due cannoniere, 18 draga e posamine, 84 motosiluranti. Un armata del mare potente, che rischiava di compromettere le operazioni di assedio con la garanzia dei rifornimenti. Sulla sponda alleata dell'Asse, quella romena, le forze navali del regime di Bucarest erano pressoché inesistenti. Fu così che il comandante della Kriegsmarine Ammiraglio Raeder chiese la collaborazione della Regia Marina, memore dei successi della Baia di Suda e di Alessandria d'Egitto da parte dei Mas e degli incursori. La prima battaglia, per le unità di Marina prescelte, fu il viaggio dai porti italiani alle sponde del Mar Nero. Per la XII e la IV Squadriglia Mas stava per cominciare un'epopea logistica tra le più complicate. Raggiungere il Mar Nero attraverso il Mediterraneo era impraticabile, sia per i rischi connessi alla presenza massiccia della Marina britannica che per la chiusura al traffico militare dello stretto dei Dardanelli. I Mas, gli MTSM (Motoscafi Turismo Siluranti Modificati) i barchini esplosivi e anche i minisommergibili Caproni classe CB dovettero così affrontare il viaggio per buona parte via terra. Destinata al teatro del Mar Nero, il convoglio italiano della IV Squadriglia Mas fu affidato per la parte logistica ad una delle ditte più importanti dell'epoca, la Fumagalli di Milano. La colonna fu intitolata ad uno dei più famosi eroi dell'assedio di Malta, il Capitano di Fregata Antonio Moccagatta, caduto nel luglio 1941. il convoglio contava 28 autocarri sui quali erano stati caricati anche tutti i materiali per il rimontaggio e la manutenzione. Da La Spezia la lunga teoria dei mezzi d'assalto della Marina mosse alla fine di aprile del 1942 in direzione del Brennero per transitare via Innsbruck in direzione di Vienna. Il passaggio della colonna fu spesso ostacolato da strade strette e costruzioni che dovettero essere abbattute per permettere il passaggio dei Mas italiani. Dalla Capitale austriaca gli scafi si immersero nelle acque del Danubio, per un lungo viaggio che li portò fino alla foce del grande fiume a Costanza, in territorio romeno dove giunsero il 2 maggio. L' ultima tappa fu il porto di Jalta, sede operativa dei mezzi d'assalto italiani agli ordini del Capitano di Fregata Francesco Maria Mimbelli. L'attività nel quadro delle operazioni contro il porto di Sebastopoli iniziò subito. I mezzi italiani fecero da subito notare le proprie capacità offensive. I Mas presenti nella base di Jalta (dal n.566 al n.576) erano scafi della quinta serie costruiti dai cantieri Baglietto, Picchiotto e Celli. Erano mezzi velocissimi, dotati di un propulsore Isotta Fraschini da 2000 Cv e potevano raggiungere la spettacolare velocità di 44 nodi (circa 81 Km/h). Erano armati con mitragliere Breda 13,2 o tre da 20/65, due lanciasiluri da 450 e 6 bombe di profondità. Le azioni della IV Mas raggiunsero già nel primo mese alcuni risultati importanti, con l'affondamento di un mercantile sovietico con rifornimenti per 10.000 tonnellate e un piroscafo da 5.000. La parte debole dell'attività di guerra dei Mas italiani veniva dal cielo, poiché non erano adeguatamente protetti dai caccia (tedeschi, in quanto non vi era presenza della Regia Aeronautica) e dovettero subire perdite per l'attacco dell'aviazione sovietica. Nel mese di giugno ai motoscafi si aggiunsero i minisommergibili classe CB, uno dei quali sarà subito affondato per un attacco aereo russo alla base di Jalta. Il 18 giugno 1942 i Mas attaccarono un convoglio di uomini e materiali sovietici diretto a Sebastopoli, protetto da diverse cannoniere. Una delle imbarcazioni fu affondata, premessa ad azioni ancora più incisive nell'ambito della presa di Sebastopoli e Balaklava. Le missioni dei Mas nel Mar Nero furono complessivamente 65 a cui si sommarono le decine di sortite dei motoscafi siluranti e dei sommergibili CB. Le vittorie della IV Squadriglia Mas totalizzarono un incrociatore (il Molotov), un sommergibile, due mercantili e tre motovedette della Marina sovietica. Nell'agosto del 1942 i mas 573, 568 e 569 furono i protagonisti della più importante vittoria, quella sul citato incrociatore "Molotov" e sul cacciatorpediniere Kharkov, che incrociavano in cerca di naviglio nemico per ostacolare i rifornimenti tedeschi verso la regione del Caucaso e si apprestavano a cannoneggiare la base di Feodosia. Nonostante la superiorità di fuoco del Molotov, con le sue bocche da 181 e i pezzi da 100 e 45 i mezzi d'assalto italiani si scagliarono contro la nave sovietica. Dopo un primo lancio andato a vuoto, uno dei siluri del 568 centrò in pieno il Molotov a poppa. Nella fuga il Mas fu inseguito dal veloce Kharkov ma riuscì con uno stratagemma a liberarsi dell'inseguitore che nel frattempo lo bersagliava con tutti i calibri disponibili. Il comandante Legnani fece sganciare le bombe di profondità in modalità scoppio anticipato, soluzione che riuscì a danneggiare e a far arretrare l'inseguitore. All'inizio del settembre 1942 la base italiana di Feodosia fu colpita da un violento bombardamento sovietico che causò la perdita di tre Mas, tra cui il 573 che prese parte all'affondamento del Molotov. Poco più tardi giunse l'inverno russo, e con esso la ritirata delle forze dell'Asse, di cui risentirono anche le unità della Regia Marina sul Mar Nero. Il carburante cominciò a scarseggiare e il fronte ad arretrare. Nonostante l'ordine di rientro in Italia per parte dei mezzi sul Mar Nero, alcune unità continuarono a combattere fino al 25 aprile 1943. L'ultima azione vittoriosa in quelle acque fu il 26 agosto, quando un sommergibile CB ebbe ragione di un sottomarino sovietico. Con l'armistizio i CB rimasti furono sequestrati dalle forze romene di Costanza, egli equipaggi italiani internati. I minisommergibili saranno poi sequestrati dai sovietici che li useranno per alcuni esperimenti nel dopoguerra. Il secondo fronte dell'operazione Barbarossa dove si trovarono ad operare gli Italiani fu il lago Ladoga, dove le unità della Regia Marina fecero parte di un contingente interforze che comprendeva, oltre alla Kriegsmarine, anche la Marina finlandese, alla quale fu affidato il comando nella figura del comandante Jarvinen. Alla richiesta della Kriegsmarine fu costituita a La Spezia la XII Squadriglia Mas con quattro mezzi della classe 500 (526,527,528, 529) agli ordini del Capitano di Corvetta Giuseppe Bianchini. Il viaggio dei Mas fu complesso e ancora più lungo di quello affrontato dalla IV Squadriglia. I chilometri complessivi percorsi su gomma furono oltre 3.000, fino all'arrivo a Stettino, che anticipò l'ultimo viaggio in piroscafo fino ad Helsinki. Gli Italiani furono assegnati alla ben rifornita base di Lahdenpoja, dove iniziò l'attività di appoggio e scorta alla Marina finlandese impegnata nel contrasto ai rifornimenti sovietici durante l'assedio di Leningrado. Il 15 agosto 1942 il Mas 527 del tenente Renato Bechi avvistò tre cannoniere sovietiche, che puntarono le proprie armi danneggiando l'imbarcazione italiana. Senza arretrare, ed in concorso con il Mas 528, lo scafo del tenente Bechi si lanciò verso il naviglio avversario sotto una pioggia di colpi e rispondendo con la sua mitragliera 20/65. a favore di lancio, i due Mas riuscirono a colpire ed affondare una delle cannoniere. L'azione si ripete alcuni giorni dopo, protagonisti gli stessi due Mas. In questo caso la vittima fu un convoglio sovietico che trasportava materiali. Nonostante venissero scoperti dal nemico a causa della distanza estremamente ravvicinata, con una rapida manovra di disimpegno i due scafi della XII Mas ricomparirono più tardi a favore di tiro. In poco più di 30 secondi la maona (in termini marinari una grande chiatta da rimorchio) lunga ben 70 metri saltò in aria con tutto il suo carico destinato a Leningrado. Poi anche sul Ladoga scese l'inverno, e a quella latitudine l'acqua si trasforma in ghiaccio non risultando più navigabile. I Mas italiani furono trasferiti nuovamente via Helsinki alla base di Reval, in Estonia. Nella primavera del 1943 i marinai italiani furono richiamati in patria e i Mas lasciati alla marina finlandese dopo tre mesi di intensa attività sulle acque del Ladoga. Il comandante del Mas 527 protagonista dell'affondamento della cannoniera sovietica, come citato dalle memorie storiche della Marina Militare Italiana, passerà dopo l'8 settembre alla Marina co-belligerante partecipando al timone del MS 33 allo sbarco di informatori alleati dell'Oss a Punta del Moro, nei pressi di Ortona. Il Capitano di Fregata Francesco Maria Mimbelli proseguì invece la carriera nella Marina Militare Italiana fino al grado di Ammiraglio e il congedo nel 1964. Per approfondire la storia della guerra dei Mas sul Mar nero e sul Ladoga, si segnala il volume di Gianni Bianchi "La XII e IV Flottiglia Mas nel lago Ladoga e Mar Nero - TV Renato Bechi, comandante del Mas 527" (Sarasota).
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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