2020-05-11
Non solo dazi. Tra Usa e Cina si profila un nuovo scontro sulla filiera produttiva
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Cartonati di Donald Trump e Xi Jinping (Ansa)
L'accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina è appeso a un filo? Intervenendo su Fox News venerdì scorso, Donald Trump ha detto di essere «molto indeciso» sul destino dell'intesa parziale, stipulata con Pechino lo scorso gennaio. «Sto attraversando un periodo molto difficile con la Cina», ha dichiarato il presidente americano.Queste parole hanno messo seriamente in forse il timido rasserenamento che si era registrato poche ore prima, in seguito a una telefonata intercorsa tra il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, il rappresentante commerciale statunitense, Robert Lighthizer, e il vicepremier cinese, Liu He: telefonata da cui sembrava emersa da entrambe le parti la volontà di mantenere in piedi l'accordo. D'altronde, già mercoledì scorso Trump aveva lasciato trapelare una certa irritazione, dichiarando di volersi prendere una o due settimane per capire se Pechino stesse rispettando quanto previsto dall'intesa.Ricordiamo che, il 15 gennaio, Stati Uniti e Cina avevano siglato un accordo «di fase uno», per allentare le tensioni tariffarie sorte a partire dal luglio del 2018: in particolare, la Repubblica Popolare si era impegnata ad incrementare di 200 miliardi di dollari i propri acquisti di beni statunitensi in due anni, rispetto ai livelli del 2017. I comparti interessati erano agricoltura, energia e manifatturiero. Ora, complice anche la pandemia in corso, la Cina è ancora ben lontana dal raggiungere quella soglia economica: basti pensare che, secondo Reuters, in quattro mesi abbia importato appena 37 miliardi di dollari di merci americane, a fronte di un impegno di 218 miliardi complessivi per l'anno corrente. Del resto, nel mese di aprile, le esportazioni di Pechino sono salite del 3,5%, mentre le importazioni hanno registrato un calo del 14,2%. Originariamente ci si attendeva che Washington, vista la particolare situazione dovuta al coronavirus, potesse soprassedere sulla questione. Eppure le ultime uscite di Trump suggeriscono il contrario. Il punto è che la guerra tariffaria sta man mano sovrapponendosi alla "guerra fredda" di fatto in corso tra Stati Uniti e Cina a causa delle origini e della gestione della pandemia. Nelle ultime settimane, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha portato avanti una linea particolarmente dura nei confronti della Repubblica Popolare, accusandola di opacità, oltre che di essersi lasciata scappare il virus da un laboratorio di Wuhan. Lo stesso Trump ha recentemente minacciato nuove tariffe come ritorsione al comportamento della Cina nella gestione della pandemia. È ovvio che questa situazione avrà delle inevitabili ripercussioni sul dossier commerciale: soprattutto alla luce del fatto che, negli Stati Uniti, è in corso la campagna elettorale per le presidenziali di novembre.Proprio per questo, Trump si trova davanti a una scelta di fondamentale importanza. In linea teorica, il presidente non vorrebbe gettare alle ortiche l'intesa con la Cina, che ha sempre considerato un fiore all'occhiello della propria presidenza. Tuttavia, nel momento in cui scegliesse l'opzione morbida, l'inquilino della Casa Bianca si ritroverebbe a dover fare i conti con il crescente sentimento anticinese che pervade non solo il Partito Repubblicano ma anche lo stesso elettorato (non dimentichiamo che, secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 62% degli americani nutra oggi ostilità verso la Cina a causa del coronavirus). Non sarà un caso che, da alcuni giorni, Trump e il (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden, si stiano rinfacciando reciprocamente l'accusa di eccessiva arrendevolezza verso Pechino. Alla luce di tutto questo, si comprende allora per quale ragione il presidente americano si stia mostrando duro sul dossier commerciale. L'accrescersi delle tensioni sul coronavirus va infatti a sommarsi al mancato ottemperamento dell'intesa da parte cinese. Elementi che, in piena campagna elettorale, Trump non può permettersi di ignorare. In tutto questo, non va infine trascurato che, qualora saltasse l'accordo di gennaio, naufragherebbe conseguentemente la possibilità di concludere l'intesa «di fase due», che dovrebbe avere al centro le spinose questioni delle telecomunicazioni. Va da sé che una simile eventualità inasprirebbe ulteriormente i già difficili rapporti tra Washington e Pechino.Il punto è che una recrudescenza della guerra tariffaria potrebbe rivelarsi molto difficile da sostenere per lo Zio Sam. Certo: un simile scenario danneggerebbe indubbiamente Pechino. Nonostante il suddetto aumento delle esportazioni in aprile (in particolare nel settore sanitario), la situazione economica generale della Repubblica Popolare resta fortemente problematica, soprattutto a causa del crollo della domanda estera e interna. Ciononostante anche Washington riscontrerebbe seri problemi: quando ebbe inizio la guerra tariffaria nel luglio del 2018, l'economia americana stava attraversando un periodo di forte crescita. Una situazione che è stata spazzata via dall'esplosione della pandemia: si pensi soltanto ai drammatici dati occupazionali che si registrano attualmente negli Stati Uniti. Questi elementi rendono quindi maggiormente complicato per Trump muoversi oggi in un'ottica di scontro tariffario.È anche alla luce di simili considerazioni che la Casa Bianca sta studiando delle vie alternative. L'amministrazione statunitense sta infatti cercando di mettere a punto un piano per spostare la produzione industriale delle aziende americane al di fuori della Cina. «Negli ultimi anni abbiamo lavorato (riducendo la dipendenza delle nostre catene di approvvigionamento in Cina), ma ora stiamo sovralimentando tale iniziativa», ha dichiarato pochi giorni fa a Reuters il sottosegretario americano alla Crescita economica, Keith Krach. In particolare, il Dipartimento di Stato e quello del Commercio starebbe ipotizzando una serie di misure per concretizzare questa strategia: si parla, nella fattispecie, di incentivi fiscali o sussidi.L'iniziativa più ambiziosa al momento è comunque quella di creare, su tale fronte, una rete di partner internazionali in funzione anticinese (il cosiddetto Economic Prosperity Network): a fine aprile, Pompeo ha non a caso fatto esplicito riferimento ad Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Vietnam. Inoltre, secondo i beninformati, anche l'America Latina potrebbe essere coinvolta nel progetto. Uno schema che, secondo il Wall Street Journal, riecheggerebbe la Trans Pacific Partnership: l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico, siglato da Barack Obama nel 2016 e stracciato da Trump l'anno successivo. Come che sia, ricordiamo che, secondo i dati delle Nazioni Unite, la Cina detenga oggi oltre il 28% della produzione manifatturiera a livello internazionale, mentre gli Stati Uniti poco meno del 17%. Per tale ragione, la Casa Bianca vuole colpire su questo fronte. Washington e Pechino potrebbero quindi ben presto trovare proprio nella questione della supply chain il loro principale terreno di scontro.
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