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2020-05-11
Non solo dazi. Tra Usa e Cina si profila un nuovo scontro sulla filiera produttiva
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Cartonati di Donald Trump e Xi Jinping (Ansa)
Queste parole hanno messo seriamente in forse il timido rasserenamento che si era registrato poche ore prima, in seguito a una telefonata intercorsa tra il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, il rappresentante commerciale statunitense, Robert Lighthizer, e il vicepremier cinese, Liu He: telefonata da cui sembrava emersa da entrambe le parti la volontà di mantenere in piedi l'accordo. D'altronde, già mercoledì scorso Trump aveva lasciato trapelare una certa irritazione, dichiarando di volersi prendere una o due settimane per capire se Pechino stesse rispettando quanto previsto dall'intesa.
Ricordiamo che, il 15 gennaio, Stati Uniti e Cina avevano siglato un accordo «di fase uno», per allentare le tensioni tariffarie sorte a partire dal luglio del 2018: in particolare, la Repubblica Popolare si era impegnata ad incrementare di 200 miliardi di dollari i propri acquisti di beni statunitensi in due anni, rispetto ai livelli del 2017. I comparti interessati erano agricoltura, energia e manifatturiero. Ora, complice anche la pandemia in corso, la Cina è ancora ben lontana dal raggiungere quella soglia economica: basti pensare che, secondo Reuters, in quattro mesi abbia importato appena 37 miliardi di dollari di merci americane, a fronte di un impegno di 218 miliardi complessivi per l'anno corrente. Del resto, nel mese di aprile, le esportazioni di Pechino sono salite del 3,5%, mentre le importazioni hanno registrato un calo del 14,2%. Originariamente ci si attendeva che Washington, vista la particolare situazione dovuta al coronavirus, potesse soprassedere sulla questione. Eppure le ultime uscite di Trump suggeriscono il contrario. Il punto è che la guerra tariffaria sta man mano sovrapponendosi alla "guerra fredda" di fatto in corso tra Stati Uniti e Cina a causa delle origini e della gestione della pandemia. Nelle ultime settimane, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha portato avanti una linea particolarmente dura nei confronti della Repubblica Popolare, accusandola di opacità, oltre che di essersi lasciata scappare il virus da un laboratorio di Wuhan. Lo stesso Trump ha recentemente minacciato nuove tariffe come ritorsione al comportamento della Cina nella gestione della pandemia. È ovvio che questa situazione avrà delle inevitabili ripercussioni sul dossier commerciale: soprattutto alla luce del fatto che, negli Stati Uniti, è in corso la campagna elettorale per le presidenziali di novembre.
Proprio per questo, Trump si trova davanti a una scelta di fondamentale importanza. In linea teorica, il presidente non vorrebbe gettare alle ortiche l'intesa con la Cina, che ha sempre considerato un fiore all'occhiello della propria presidenza. Tuttavia, nel momento in cui scegliesse l'opzione morbida, l'inquilino della Casa Bianca si ritroverebbe a dover fare i conti con il crescente sentimento anticinese che pervade non solo il Partito Repubblicano ma anche lo stesso elettorato (non dimentichiamo che, secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 62% degli americani nutra oggi ostilità verso la Cina a causa del coronavirus). Non sarà un caso che, da alcuni giorni, Trump e il (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden, si stiano rinfacciando reciprocamente l'accusa di eccessiva arrendevolezza verso Pechino. Alla luce di tutto questo, si comprende allora per quale ragione il presidente americano si stia mostrando duro sul dossier commerciale. L'accrescersi delle tensioni sul coronavirus va infatti a sommarsi al mancato ottemperamento dell'intesa da parte cinese. Elementi che, in piena campagna elettorale, Trump non può permettersi di ignorare. In tutto questo, non va infine trascurato che, qualora saltasse l'accordo di gennaio, naufragherebbe conseguentemente la possibilità di concludere l'intesa «di fase due», che dovrebbe avere al centro le spinose questioni delle telecomunicazioni. Va da sé che una simile eventualità inasprirebbe ulteriormente i già difficili rapporti tra Washington e Pechino.
Il punto è che una recrudescenza della guerra tariffaria potrebbe rivelarsi molto difficile da sostenere per lo Zio Sam. Certo: un simile scenario danneggerebbe indubbiamente Pechino. Nonostante il suddetto aumento delle esportazioni in aprile (in particolare nel settore sanitario), la situazione economica generale della Repubblica Popolare resta fortemente problematica, soprattutto a causa del crollo della domanda estera e interna. Ciononostante anche Washington riscontrerebbe seri problemi: quando ebbe inizio la guerra tariffaria nel luglio del 2018, l'economia americana stava attraversando un periodo di forte crescita. Una situazione che è stata spazzata via dall'esplosione della pandemia: si pensi soltanto ai drammatici dati occupazionali che si registrano attualmente negli Stati Uniti. Questi elementi rendono quindi maggiormente complicato per Trump muoversi oggi in un'ottica di scontro tariffario.
È anche alla luce di simili considerazioni che la Casa Bianca sta studiando delle vie alternative. L'amministrazione statunitense sta infatti cercando di mettere a punto un piano per spostare la produzione industriale delle aziende americane al di fuori della Cina. «Negli ultimi anni abbiamo lavorato (riducendo la dipendenza delle nostre catene di approvvigionamento in Cina), ma ora stiamo sovralimentando tale iniziativa», ha dichiarato pochi giorni fa a Reuters il sottosegretario americano alla Crescita economica, Keith Krach. In particolare, il Dipartimento di Stato e quello del Commercio starebbe ipotizzando una serie di misure per concretizzare questa strategia: si parla, nella fattispecie, di incentivi fiscali o sussidi.
L'iniziativa più ambiziosa al momento è comunque quella di creare, su tale fronte, una rete di partner internazionali in funzione anticinese (il cosiddetto Economic Prosperity Network): a fine aprile, Pompeo ha non a caso fatto esplicito riferimento ad Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Vietnam. Inoltre, secondo i beninformati, anche l'America Latina potrebbe essere coinvolta nel progetto. Uno schema che, secondo il Wall Street Journal, riecheggerebbe la Trans Pacific Partnership: l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico, siglato da Barack Obama nel 2016 e stracciato da Trump l'anno successivo. Come che sia, ricordiamo che, secondo i dati delle Nazioni Unite, la Cina detenga oggi oltre il 28% della produzione manifatturiera a livello internazionale, mentre gli Stati Uniti poco meno del 17%. Per tale ragione, la Casa Bianca vuole colpire su questo fronte. Washington e Pechino potrebbero quindi ben presto trovare proprio nella questione della supply chain il loro principale terreno di scontro.
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L'accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina è appeso a un filo? Intervenendo su Fox News venerdì scorso, Donald Trump ha detto di essere «molto indeciso» sul destino dell'intesa parziale, stipulata con Pechino lo scorso gennaio. «Sto attraversando un periodo molto difficile con la Cina», ha dichiarato il presidente americano.Queste parole hanno messo seriamente in forse il timido rasserenamento che si era registrato poche ore prima, in seguito a una telefonata intercorsa tra il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, il rappresentante commerciale statunitense, Robert Lighthizer, e il vicepremier cinese, Liu He: telefonata da cui sembrava emersa da entrambe le parti la volontà di mantenere in piedi l'accordo. D'altronde, già mercoledì scorso Trump aveva lasciato trapelare una certa irritazione, dichiarando di volersi prendere una o due settimane per capire se Pechino stesse rispettando quanto previsto dall'intesa.Ricordiamo che, il 15 gennaio, Stati Uniti e Cina avevano siglato un accordo «di fase uno», per allentare le tensioni tariffarie sorte a partire dal luglio del 2018: in particolare, la Repubblica Popolare si era impegnata ad incrementare di 200 miliardi di dollari i propri acquisti di beni statunitensi in due anni, rispetto ai livelli del 2017. I comparti interessati erano agricoltura, energia e manifatturiero. Ora, complice anche la pandemia in corso, la Cina è ancora ben lontana dal raggiungere quella soglia economica: basti pensare che, secondo Reuters, in quattro mesi abbia importato appena 37 miliardi di dollari di merci americane, a fronte di un impegno di 218 miliardi complessivi per l'anno corrente. Del resto, nel mese di aprile, le esportazioni di Pechino sono salite del 3,5%, mentre le importazioni hanno registrato un calo del 14,2%. Originariamente ci si attendeva che Washington, vista la particolare situazione dovuta al coronavirus, potesse soprassedere sulla questione. Eppure le ultime uscite di Trump suggeriscono il contrario. Il punto è che la guerra tariffaria sta man mano sovrapponendosi alla "guerra fredda" di fatto in corso tra Stati Uniti e Cina a causa delle origini e della gestione della pandemia. Nelle ultime settimane, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha portato avanti una linea particolarmente dura nei confronti della Repubblica Popolare, accusandola di opacità, oltre che di essersi lasciata scappare il virus da un laboratorio di Wuhan. Lo stesso Trump ha recentemente minacciato nuove tariffe come ritorsione al comportamento della Cina nella gestione della pandemia. È ovvio che questa situazione avrà delle inevitabili ripercussioni sul dossier commerciale: soprattutto alla luce del fatto che, negli Stati Uniti, è in corso la campagna elettorale per le presidenziali di novembre.Proprio per questo, Trump si trova davanti a una scelta di fondamentale importanza. In linea teorica, il presidente non vorrebbe gettare alle ortiche l'intesa con la Cina, che ha sempre considerato un fiore all'occhiello della propria presidenza. Tuttavia, nel momento in cui scegliesse l'opzione morbida, l'inquilino della Casa Bianca si ritroverebbe a dover fare i conti con il crescente sentimento anticinese che pervade non solo il Partito Repubblicano ma anche lo stesso elettorato (non dimentichiamo che, secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 62% degli americani nutra oggi ostilità verso la Cina a causa del coronavirus). Non sarà un caso che, da alcuni giorni, Trump e il (probabile) candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden, si stiano rinfacciando reciprocamente l'accusa di eccessiva arrendevolezza verso Pechino. Alla luce di tutto questo, si comprende allora per quale ragione il presidente americano si stia mostrando duro sul dossier commerciale. L'accrescersi delle tensioni sul coronavirus va infatti a sommarsi al mancato ottemperamento dell'intesa da parte cinese. Elementi che, in piena campagna elettorale, Trump non può permettersi di ignorare. In tutto questo, non va infine trascurato che, qualora saltasse l'accordo di gennaio, naufragherebbe conseguentemente la possibilità di concludere l'intesa «di fase due», che dovrebbe avere al centro le spinose questioni delle telecomunicazioni. Va da sé che una simile eventualità inasprirebbe ulteriormente i già difficili rapporti tra Washington e Pechino.Il punto è che una recrudescenza della guerra tariffaria potrebbe rivelarsi molto difficile da sostenere per lo Zio Sam. Certo: un simile scenario danneggerebbe indubbiamente Pechino. Nonostante il suddetto aumento delle esportazioni in aprile (in particolare nel settore sanitario), la situazione economica generale della Repubblica Popolare resta fortemente problematica, soprattutto a causa del crollo della domanda estera e interna. Ciononostante anche Washington riscontrerebbe seri problemi: quando ebbe inizio la guerra tariffaria nel luglio del 2018, l'economia americana stava attraversando un periodo di forte crescita. Una situazione che è stata spazzata via dall'esplosione della pandemia: si pensi soltanto ai drammatici dati occupazionali che si registrano attualmente negli Stati Uniti. Questi elementi rendono quindi maggiormente complicato per Trump muoversi oggi in un'ottica di scontro tariffario.È anche alla luce di simili considerazioni che la Casa Bianca sta studiando delle vie alternative. L'amministrazione statunitense sta infatti cercando di mettere a punto un piano per spostare la produzione industriale delle aziende americane al di fuori della Cina. «Negli ultimi anni abbiamo lavorato (riducendo la dipendenza delle nostre catene di approvvigionamento in Cina), ma ora stiamo sovralimentando tale iniziativa», ha dichiarato pochi giorni fa a Reuters il sottosegretario americano alla Crescita economica, Keith Krach. In particolare, il Dipartimento di Stato e quello del Commercio starebbe ipotizzando una serie di misure per concretizzare questa strategia: si parla, nella fattispecie, di incentivi fiscali o sussidi.L'iniziativa più ambiziosa al momento è comunque quella di creare, su tale fronte, una rete di partner internazionali in funzione anticinese (il cosiddetto Economic Prosperity Network): a fine aprile, Pompeo ha non a caso fatto esplicito riferimento ad Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Vietnam. Inoltre, secondo i beninformati, anche l'America Latina potrebbe essere coinvolta nel progetto. Uno schema che, secondo il Wall Street Journal, riecheggerebbe la Trans Pacific Partnership: l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico, siglato da Barack Obama nel 2016 e stracciato da Trump l'anno successivo. Come che sia, ricordiamo che, secondo i dati delle Nazioni Unite, la Cina detenga oggi oltre il 28% della produzione manifatturiera a livello internazionale, mentre gli Stati Uniti poco meno del 17%. Per tale ragione, la Casa Bianca vuole colpire su questo fronte. Washington e Pechino potrebbero quindi ben presto trovare proprio nella questione della supply chain il loro principale terreno di scontro.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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Ansa
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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