2020-04-02
Gualtieri a parole diventa sovranista. Ma sui soldi veri gli resta il braccino
Roberto Gualtieri e Luigi Di Maio (Ansa)
Il ministro fa il duro e chiede «risorse senza condizionalità». Sull'emissione dei titoli, però, continua a non aprire i rubinetti.Qualche giorno fa ci chiedevamo quale fosse la linea del governo sul Mes. Quella del presidente Giuseppe Conte che rifiutava «strumenti del passato» e invocava «strumenti di debito comune»? O quella del ministro Roberto Gualtieri che, partecipando all'Eurogruppo del 24 marzo, avallava il comunicato finale di Mario Centeno, in cui si parlava, con dovizia di dettagli, del Mes come strumento pronto all'uso?I dubbi appaiono dissipati con l'intervista pubblicata ieri sul Fatto Quotidiano, in cui Gualtieri sostiene che lui e Conte «sono sempre stati sulla stessa linea», ribadisce che «tutte le risorse disponibili devono essere immediatamente messe a disposizione degli Stati senza alcuna condizionalità e che occorre dotarsi di strumenti nuovi attraverso l'emissione di titoli comuni». Stupisce che nel comunicato finale dell'Eurogruppo di martedì non sia rimasta traccia della pugnace attività del ministro. E stupisce ancor di più la successiva affermazione secondo cui «all'Eurogruppo mi sono opposto all'adozione di un documento conclusivo perché non rifletteva questa impostazione». Affermazione non verificabile, in quanto l'Eurogruppo non redige verbali, e i partecipanti sono vincolati alla riservatezza. Della fiera opposizione di Gualtieri non c'è traccia né nel comunicato finale di Centeno e né nella lettera, più dettagliata, inviata da quest'ultimo al presidente del Consiglio Charles Michel. Si erge addirittura a fiero difensore del suolo patrio quando afferma che «era illusorio pensare che avremmo ceduto noi». Va registrata con favore poi la definizione della posizione negoziale del ministro, sperando sia definitiva. Perché, come hanno ribadito in sequenza Ursula Von der Leyen, Centeno e Michel, le soluzioni sul tavolo sono quelle «nell'ambito di quanto previsto dai Trattati». Non c'è spazio per altro, anche perché la costruzione di un veicolo finanziario in grado di emettere titoli di debito per le spese degli Stati è operazione complessa e lunga. Fattibile oggi sia dalla Bei che dal Mes, ma Gualtieri ritiene «fuori discussione un suo uso sulla base dei meccanismi attuali» e parla di potenziamento della Bei, di cui su queste colonne abbiamo descritto le finalità e le risorse finanziarie inadeguate rispetto alle dimensioni del problema. A questo proposito, ieri Gualtieri, nel question time alla Camera, ha aggiunto che «l'Italia è al lavoro su una proposta concreta di emissione comune di titoli» per i bilanci degli stati dell'eurozona nella crisi da Covid 19, da affiancarsi all'azione di politica monetaria della Bce. Merita ricordare che Angela Merkel giovedì scorso ha invitato Conte a mettere sul tavolo proposte «realistiche». Per Gualtieri la «Banca centrale deriva la sua forza dal fatto di essere europea». Dimentica che fu l'ultima a cominciare il Qe nel 2015, solo grazie all'abnegazione di Mario Draghi. Per non parlare del divieto di finanziamento del deficit degli Stati che la vincola in modo decisivo.In tutto questo non può non avere avuto un ruolo l'opposizione al Mes e la spinta verso gli eurobond del M5s, efficacemente riassunta da Di Maio che ieri ha dichiarato che «il Mes già non ha funzionato in Grecia, figuriamoci adesso. E poi il Mes è il modo per dire ai Paesi vi diamo uno strumento, ma ve la vedete da soli. Noi invece stiamo proponendo agli Stati europei di condividere i rischi adesso, per condividere in futuro le opportunità». Posizione sicuramente coraggiosa, ma pericolosa dal punto di vista negoziale, poiché non più ritrattabile in caso di utilizzo del Mes, con qualsiasi - anche modesta - condizionalità. Quello che nessuno dice è che gli eurobond non si creano dal nulla. Serve un capitale o garanzie per attrarre gli investitori e, inevitabilmente, come accade per il Mes e per la Bei, l'Italia sarebbe tra i maggiori finanziatori e finirebbe per ricevere in una tasca quanto ha già sborsato dall'altra. Il nuovo veicolo (Sure) su cui sta lavorando la Commissione per erogare prestiti fino a 100 miliardi non sfugge a questa elementare regola della finanza. Si può apprezzare l'impegno di Gualtieri nell'esplorazione di nuove frontiere della finanza, tuttavia lo vorremmo così audace anche sul fronte delle emissioni di titoli, su cui mostra insolitamente prudente, pur avendo l'ombrello della Bce. Nei prossimi 9 mesi, si stima che Francoforte, sommando tutti i programmi, esegua acquisti netti di titoli pubblici per circa 790 miliardi. Considerando anche i reinvestimenti dei titoli giunti a scadenza, potrebbe acquistare, rispettando la base di ripartizione tra tutti i Paesi, circa 120 miliardi di titoli italiani. Ma la Bce si è già detta pronta ad operare senza limiti. In soli due giorni di acquisti col nuovo programma Pepp ha acquistato titoli per 15,6 miliardi, 40 nelle ultime due settimane. Allora, cosa aspetta Gualtieri a fare il pieno di emissioni ad aprile? Quale paura lo attanaglia? L'impegno della Bce è davvero illimitato o è condizionato alla partecipazione a qualche marchingegno, finalizzato comunque a tenerci sotto controllo nella spesa per ricostruire il Paese?
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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