2020-05-31
Gli scontri che incendiano gli Usa non sono un film in bianco e nero
La rabbia esplosa negli Stati Uniti dopo la morte di Floyd non si spiega solo con l'odio razziale. Le radici sono profonde, ma ora prevalgono banalità e lotta politica. Mentre il sangue scorre: uccisi un agente e un ragazzo.Minnesota burning. Bruciano macchine in sosta, centri commerciali e bandiere a stelle e strisce come bruciava l'ufficio postale nel New Jersey in Pastorale Americana. Ma questi sono bagliori veri e purtroppo non c'è Philip Roth a descriverli. Nella narrazione mediatica nessuna sfumatura psicologica, nessun colore intermedio che spieghi il sangue, che interpreti la follia cominciata cinque giorni fa con quel ginocchio da cop sul collo di George Floyd. Siamo ancora al bianco e nero, al white power contro l'ex raccoglitore di cotone, alla stucchevole narrazione da B movie con il bianco arrogante che griglia sul barbecue e il nero senza futuro che diventa spacciatore o rapper o giocatore di basket. Eppure l'incendio americano ha molte più sfumature di quelle dei capelli di Donald Trump, che per riflesso pavloviano dei media anche qui è già colpevole per responsabilità oggettiva. Niente di più infantile. Niente di più elettorale anche perché il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, referente politico della polizia e incapace di riportare l'ordine con il suo staff, è un democratico della sinistra radicale.C'è violenza cieca mentre i lacrimogeni appestano l'aria di New York, Louisville, Dallas, Oakland, Washington, Los Angeles dopo che i video hanno mostrato al mondo come può morire un uomo già in manette nella nazione guida dell'Occidente. C'è il grande problema della frustrazione delle periferie, delle povertà diffuse nel Paese delle libertà, del rapporto difficile e talvolta feroce della polizia con la microcriminalità. La terza causa di morte negli Usa sono i conflitti a fuoco con le forze dell'ordine. Gli agenti alla Derek Chauvin non hanno scrupoli e vedono troppi film prodotti dalla Hollywood politically correct. Ma al tempo stesso entrare in alcuni quartieri di Detroit, di Oakland, di Philadelphia senza la determinazione della tigre significa sfidare la morte.Per capire la contrapposizione basta mettere una di fronte all'altra due dichiarazioni. La prima, da sceriffo di frontiera, è del presidente americano. «Quando cominciano i saccheggi cominciano gli spari». La seconda, da fuorilegge all'Ok Corral, è del Black lives matter, gruppo estremista afroamericano che ha colto il momento per fomentare il caos: «Niente paura, abbiamo le armi anche noi. Le useremo». Mentre il circo mediatico continua a suonare la grancassa del bianco e nero, arriva come un lampo nel buio la dichiarazione del sindaco di Atlanta, Georgia, profondo Sud. È una donna, Keisha Lance Bottoms. Ed è nera. Ma soprattutto è saggia. «Nessuno può giustificare violenze e furti che infangano la memoria di Floyd».Una luce da seguire per capire come l'incendio covasse sotto la cenere, per dare all'odioso episodio una valenza di cronaca e ai saccheggi un orizzonte criminale. L'escalation continua e la Casa Bianca ha deciso di mandare a Minneapolis la Guardia nazionale. Ogni giorno il bollettino di guerra si allunga. Ieri a Detroit un ragazzo è stato ucciso per un colpo sparato da un Suv contro i manifestanti, ad Oakland un agente è stato ammazzato e un altro ferito. A Minneapolis il terzo distretto di polizia (quello di Chauvin) è stato bruciato, ad Atlanta la sede della Cnn è stata presa d'assalto. Nel Minnesota una troupe della stessa tv è stata arrestata e poi rilasciata. La Casa Bianca è sotto manifestazione permanente.Tutto cominciò con la telefonata del commesso di un negozio al 911: «C'è un ubriaco che ha perso il controllo, vuole rifilarmi una banconota da 20 dollari falsa. Di sicuro è sotto influenza di qualcosa. Ho paura». Arrivarono quattro poliziotti, ammanettarono Floyd che si divincolava e Chauvin gli mise un ginocchio sul collo. Poi la morte, lo stereotipo del nero ammazzato dal bianco, la sommossa, l'arresto del poliziotto per omicidio di terzo grado, l'incendio americano, l'indignazione del mondo con strumentalizzazioni anche ridicole. Come quella del cinese People's Daily, che definisce dimostranti gli assaltatori di supermercati a Detroit e terroristi gli studenti di Hong Kong.Due distinguo di cronaca si fanno largo nel sangue. L'autopsia di Floyd esclude «asfissia traumatica e strangolamento» (ma non è stata accettata dalla famiglia della vittima) e nelle foto della pattuglia della violenza si notano un Alexander Kueng e un Tu Tao asiatici che con il suprematismo bianco non hanno niente a che vedere. Individuarli è facile perché i #restiamoumani americani non hanno avuto alcun problema nel mettere online foto e indirizzi dei poliziotti e dei loro parenti. Come bersagli, target innocenti di una strumentalizzazione. Travolta dalla vergogna, la moglie di Chauvin ha dichiarato che chiederà il divorzio.Il presidente Trump vede il Paese che brucia e individua i piromani con un tweet: «Antifascismo militante e sinistra radicale. Non date la colpa agli altri». Ci sono similitudini con certe deviazioni italiane e anche con certe coperture politiche. Nel 2014 a Ferguson fu ucciso Michael Brown con rivolta nei sobborghi, nel 2015 a Baltimora la morte di Freddie Gray diventò un rogo sociale. Tutti e due erano afroamericani, tutti e due furono ammazzati dai poliziotti. Ma con Barack Obama alla Casa Bianca nessuno osò buttarla in politica. Bianco, nero. La violenta Pastorale americana è più complessa di un gioco di società. Ma a novembre si vota.
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.