2022-04-08
Gli 8 miliardi pubblici di Atlantia scatenano la corsa dei fondi esteri
Florentino Perez (Getty images)
A fine mese si chiude l’affare su Aspi. E Perez, con Gip e Brookfield, è pronto all’Opa sulla holding controllata al 33% dai Benetton, che lavorano con Blackstone alla contro Opa. Rischio terzo incomodo: i francesi di Vinci.La nuova battaglia finanziaria si combatte al casello di Atlantia. La holding, controllata con il 33,1% dalla cassaforte Edizione della famiglia Benetton, si sta per trovare in mezzo al fuoco incrociato di due Opa. Un’offerta verrebbe portata avanti dal fondo americano Gip (ha rilevato i treni Italo) e dal fondo canadese Brookfield, con cui la spagnola Acs, che fa capo a Florentino Perez, noto per essere il patron del Real Madrid, ha un accordo per rilevare la maggioranza delle autostrade estere di Atlantia. L’altra Opa è invece messa in cantiere dal fondo Blackstone, al fianco dei Benetton, per delistare la stessa società e metterla così al riparo da mire straniere. Nel secondo tempo della partita, potrebbe anche affacciarsi in campo un terzo incomodo, come i francesi di Vinci. La notizia è deflagrata mercoledì, dopo le indiscrezioni rilanciate dall’agenzia Bloomberg con l’arrivo, a tarda sera, di una nota di Acs che, sollecitata dalla Consob spagnola, confermava l’esistenza un accordo esclusivo con Gip e Brookfield, in base al quale Acs stessa rileverebbe il controllo di Atlantia. Gip e Brookfield hanno, poi, riferito, in una nota, di aver incontrato i rappresentanti di Edizione il 3 e il 23 marzo scorsi e di aver successivamente avanzato una proposta «preliminare non vincolante», alla stessa Edizione, il 30 marzo, in merito a una possibile offerta. Allo stato attuale, in ogni caso, il consorzio non ha preso «alcuna decisione» e non vi «è alcuna certezza che venga avanzata un’offerta definitiva vincolante, né sui relativi termini». Poche righe ma sufficienti a lasciar immaginare un’offerta tesa al delisting della società e a un successivo spezzatino per spartirsi gli asset. Atlantia è, infatti, azionista di controllo della concessionaria autostradale iberica Abertis (50% più un’azione), di cui a sua volta Acs ha il 50% meno un’azione. Insomma, Perez è già «in casa» tramite Acs. E non è la prima volta che tenta l’affondo: un anno fa aveva provato a fare un blitz sulla quota del gruppo in Autostrade per l’Italia, ma adesso potrebbe voler puntare al gradino più alto, ovvero sulla holding e sul suo scioglimento. Vedremo se il piano si concretizza e anche come si svilupperà la contromossa di Blackstone, sostenuta dai Benetton, per ritirare Atlantia dal mercato. Il fondo americano, insieme alla Cdp e agli australiani di Macquarie, a breve rileverà Autostrade per l’Italia dalla stessa Atlantia, formalizzando l’accordo raggiunto in seguito alla vicenda del Ponte Morandi di Genova. Non a caso, la sfida con Perez e gli altri due fondi si giocherà nelle settimane che precedono l’assemblea dei soci della holding fissata per il 29 aprile. Lo stesso giorno in cui è prevista l’assemblea di Autostrade e la finalizzazione del deal con Atlantia. È chiaro che le mosse di Blackstone, e anche degli sfidanti, sono dunque attese entro la fine del mese. Ieri pomeriggio, intanto, da Ponzano Veneto è arrivata una nota di Edizione in cui si sottolineano alcuni punti: il primo è che i Benetton considerano strategica la propria quota del 33% in Atlantia, di cui Edizione vuole, quindi, rimanere azionista, «contribuendo attivamente al suo sviluppo». Il secondo punto è che Edizione ha colloqui «in corso» con Blackstone, ma non c’è nulla che si sia ancora cristallizzato su Atlantia da segnalare. Il terzo, è che la holding è stata avvicinata «in modo non sollecitato» da Gip, Brookfield e Acs, che hanno prospettato l’acquisizione di Atlantia e il successivo break up del gruppo. Nella nota di Edizione si sottolinea, infine, che la società non è interessata alle proposte perché vuole rimanere come azionista di controllo. Evitando dunque uno spezzatino che potrebbe veder entrare in pista, in una seconda fase, altri competitor come la francese Vinci. Secondo l’agenzia Radiocor, che riporta la versione di Gip e Brookfield, lo schema illustrato dai due fondi avrebbe previsto la cessione di Abertis ad Abs e lo sviluppo della società su tre rami: aeroporti, ferrovie e servizi alla mobilità. Insomma, nessuna Opa ostile, ma una proposta di sviluppo tesa anche a risolvere una governance complessa che c’è in Abertis e a concentrarsi su infrastrutture di maggior sviluppo a livello globale. Qualsiasi acquisizione sarebbe difficile senza l’accordo dei Benetton, che hanno rafforzato la presa su Atlantia, dopo la vendita di Autostrade, per 8 miliardi. Soldi incassati dallo Stato, attraverso Cassa depositi e prestiti. Ma, ora, è proprio quella ricca liquidità, insieme all’interesse per le risorse infrastrutturali, a fare gola ai fondi stranieri. Qualsiasi offerta sarebbe, comunque, sottoposta anche al vaglio preliminare e al controllo da parte del governo, dal momento che Atlantia possiede asset sensibili (gli aeroporti di Roma, ad esempio). Scalare Atlantia in modo ostile non è semplice, né economico, e metterebbe in ogni caso a rischio la convivenza di Atlantia e Acs in Abertis. Senza dimenticare che andrebbe trovato un accordo anche con gli altri soci di Atlantia, (Gic con l’8,2%, Crt con il 4,5% e Hsbc con il 5%). Lato Acs, permetterebbe invece a Perez di salire in Abertis e di passare dal 51% al 67% di Hochtief, altro colosso infrastrutturale. Una sola cosa, per ora, è certa: il duello, anche per il taglio della preda (l’enterprise value viaggia attorno ai 64 miliardi) piace a Piazza Affari, dove ieri il titolo Atlantia ha guadagnato il 6,87% a 20,3 euro.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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