
Luigi Di Maio specula sugli avvisi di garanzia a leghisti e azzurri Però anche i suoi, da Virginia Raggi in giù, hanno guai con i pm. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Anzi «la prima stella», per dirla con le parole di Anna Maria Bernini, capogruppo Forza Italia al Senato, che ha sintetizzato così l'atteggiamento giustizialista che i grillini hanno rispolverato nelle ultime settimane e che, ieri, ha avuto il suo climax nelle iperboli del vicepremier Luigi Di Maio e nella pretesa che Gianbattista Fratus, sindaco di Legnano in quota Lega - finito agli arresti domiciliari per corruzione - venga cacciato seduta stante dal ministro dell'Interno nonché segretario della Lega, Matteo Salvini.«Per fare i giacobini bisogna avere buona memoria, e Di Maio evidentemente l'ha smarrita», ha ironizzato la senatrice. A ben guardare, pare essere proprio così. Di indagati, rimasti bellamente al loro posto di amministratori o aspiranti tali, nelle fila dei pentastellati ce ne sono eccome. La prima della lista, già più volte oggetto delle frecciatine di Salvini, non può essere che il sindaco di Roma, Virginia Raggi, più volte oggetto di inchieste nell corso del mandato. Nel gennaio del 2017 la Raggi venne indagata per falso ideologico e abuso d'ufficio nell'inchiesta relativa alla nomina di Renato Marra a capo del dipartimento Turismo del Campidoglio. Renato è fratello di Raffaele Marra, ex capo del personale del Comune di Roma, poi finito agli arresti con l'accusa di corruzione. Per la vicenda nel settembre dello stesso anno la Raggi fu rinviata a giudizio, il pm chiese 10 mesi di condanna ma venne assolta «perché il fatto non costituisce reato». Nello stesso anno il sindaco di Roma finì un'altra volta sotto inchiesta - poi archiviata - per abuso d'ufficio in concorso con Salvatore Romeo per la nomina di quest'ultimo a capo della segreteria politica del Campidoglio. In questi giorni invece sono partiti gli interrogatori dell'inchiesta che vede la Raggi nuovamente indagata per abuso d'ufficio, questa volta per l'approvazione del progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle. Per questa stessa inchiesta risultano sotto indagine anche Marcello De Vito, grillino ed ex presidente dell'assemblea capitolina, arrestato con l'accusa di corruzione per aver incassato - secondo le ipotesi dei pm - elargizioni dal costruttore Luca Parnasi, promettendo in cambio di favorire il progetto collegato allo stadio della Roma. Nel faldone giudiziario compare anche il nominativo di Daniele Frongia, uomo vicinissimo al sindaco nonché primo vicesindaco della giunta capitolina a cinque stelle, anche lui indagato per corruzione. Anche la collega pentastellata Chiara Appendino, sindaco di Torino, è finita nel mirino delle toghe. La Procura del capoluogo piemontese ha chiesto qualche settimana fa il rinvio a giudizio della prima cittadina (e altri 14 indagati) per la tragica vicenda di piazza San Carlo, dove la sera del 3 giugno 2017 - durante la proiezione sul maxischermo della finale di Champions League fra Juve e Real Madrid - a causa del panico scatenato dall'utilizzo da parte di una banda di giovanissimi di una bomboletta di spray al peperoncino, rimasero ferite nella calca 1.500 persone e una donna, Erika Pioletti, venne schiacciata e morì. Contro il sindaco si procede per i reati di disastro, lesioni e omicidio colposo. Già appena insediata, la Appendino incappò in una questione giudiziaria che risulta ancora aperta: venne accusata dalla Procura torinese per falso ideologico in atto pubblico a causa di una postilla inserita nel primo bilancio firmato dalla sua giunta, relativa a un debito da 5 milioni di euro (con la società Ream) ereditato dall'amministrazione di Piero Fassino, esigibile in quell'anno ma sparito dal documento contabile della città. Ma l'elenco dei sindaci grillini sotto inchiesta non finisce qui. Anche il sindaco di Ardea, Mario Savarese, eletto nel giugno 2017 durante l'informata di amministratori del Movimento 5 stelle, è indagato per abusi edilizi dalla Procura di Velletri per alcuni lavori realizzati in una villetta di proprietà. Se dai sindaci si passa ai candidati l'elenco continua: Salvatore Caiata, presidente del Potenza Calcio, nonché candidato del Movimento 5 stelle in Basilicata alle ultime regionali, era stato indagato nell'ambito di un'inchiesta - poi archiviata - per riciclaggio, a Siena, per l'acquisto di bar e ristoranti attraverso società e conti correnti anche esteri. Caiata, che comunque si era presentato alle elezioni ed è entrato in consiglio regionale, si era detto innocente ma si era comunque autosospeso dal M5s e ora è passato con Fratelli d'Italia. Anche Piera Aiello, 51 anni, la testimone di giustizia eletta alla Camera nella fila dei pentastellati, è indagata perché non avrebbe potuto candidarsi. O per lo meno con il nome originario che la identifica come testimone di giustizia. Si tratterebbe, secondo i pm, di un falso in atto pubblico in quanto il nome Piera Aiello, che non esiste più per la sua condizione di testimone di giustizia, non poteva essere utilizzato a scopi elettorali. Dulcis in fundo c'è Maria Angela Danzì, capolista M5s alle elezioni europee per il collegio Nord Ovest, nonché figura indicata direttamente dal vicepremier Luigi Di Maio. La grillina risulta sotto inchiesta a Brindisi per una vicenda legata all'incarico da subcommissaria che ricoprì nel 2017. Le indagini si concentrano su un accordo fatto durante il commissariamento tra il Comune e l'Autorità portuale riguardo la recinzione della zona doganale del porto pugliese: la giunta precedente aveva ritenuto abusiva l'opera, mentre poi si trovò un accordo per sanare la situazione. Ma per i censori pentastellati si tratta di una «indagine irrilevante» e, dunque, la Danzì «resta candidata».
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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