2024-02-24
Giuseppe Gibboni: «Il violino attira il diavolo, ma grazie a Bach e a Paganini ci parla del mistero di Dio»
Giuseppe Gibboni (Paolo Bibi)
L’ultimo italiano ad aver vinto il premio dedicato al virtuoso genovese: «La nostra gloriosa tradizione è tutta sulle spalle di Accardo. Il talento? Un aiuto che non basta».I virtuosi italiani che si sono aggiudicati il Premio Paganini sono quattro, come le corde del violino. Su 57 edizioni (la prima è datata 1954) del concorso più prestigioso al mondo tra quelli per strumenti ad arco. «Uno su mille ce la fa»? Magari. L’ultimo iscritto al club - dopo Salvatore Accardo (1958), Massimo Quarta (1991) e Giovanni Angeleri (1997) - nel 2021 ha interrotto 24 anni di digiuno senza intermittenze. Salernitano di Campagna, vicino a Eboli, classe 2001, Giuseppe Gibboni è un musicista della Generazione Z inspiegabilmente ignorato da Wikipedia, ma marcato stretto dalla cara vecchia televisione fin da piccolissimo. Basta spulciare negli archivi per ripercorrere la sua infanzia tra Sereno Variabile (dove, ancora ragazzino, eseguì Il volo del calabrone in soli 50 secondi), Italia’s Got Talent e Tú sí que vales. Nel 2012 deliziò addirittura un Papa innamorato della musica come Benedetto XVI. Era l’incontro mondiale delle famiglie a Milano e, data l’occasione, suonò insieme a mamma (pianoforte), papà e sorelle gemelle (al violino). Ieri sera invece ha inaugurato al fianco della chitarrista Carlotta Dalia, con la quale è in duo stabile - nella musica come nella vita - il Festival BA Classica di Busto Arsizio (che fino al 2 marzo ospiterà anche il pianoforte e il violoncello di Maurizio Baglini e Silvia Chiesa, l’orchestra sinfonica del Conservatorio di Milano, la Cappella del Duomo e il dialogo in musica, tra classica e jazz, di Ramin Bahrami con Danilo Rea).Partiamo con un flashback: 24 ottobre 2021, bisogna ancora indossare le mascherine. Lei è sul palco del Teatro Carlo Felice di Genova e sta per vincere il Premio Paganini, ma ancora non lo sa.«Ricordo nitidamente di aver suonato con grande serenità. Non ero particolarmente teso, arrivavo con un’ottima preparazione, anche mentale. Per me si trattava di un ritorno, dato che nel 2018 ero stato scartato alla prima prova».Percepiva che poteva essere la volta buona?«Fino alla finalissima no, ero solo contento perché stava andando tutto bene. E poi avevo imparato la lezione: non bisogna dare ai concorsi il potere di decidere il tuo valore. A un certo punto ho sentito che il pubblico era con me e voleva trascinarmi alla vittoria. Lì ho capito che stava accadendo qualcosa di speciale».E il successo poi è arrivato, con il Concerto per violino e orchestra n. 1 in re maggiore di Niccolò Paganini e il Concerto op. 35 di Ciaikovskij nella stessa tonalità. Prima del gran finale ha fatto pure in tempo a sventare uno scippo davanti al teatro, mandando in visibilio la stampa locale. Gli ingredienti per entrare nella leggenda ci sono tutti.(ride) «Al di là di quell’episodio… inutile dire che la vittoria è stata una gioia indescrivibile e da quel momento molte cose sono cambiate. Però resto della mia idea: un grande premio dà la spinta, soprattutto a livello di visibilità, ma da solo non basta per costruire una carriera».Cosa non è più stato come prima?«Anche se a malincuore, ho dovuto lasciare casa per vivere in un luogo fuori dall’Italia molto più comodo a livello logistico, visto che devo continuamente volare. Dopodiché lavoro con un’agenzia internazionale di concerti e ho l’onore di suonare due Stradivari».A proposito di strumenti preziosi, in quanto vincitore ha potuto provare il violino del 1743 che appartenne a Paganini. Il cosiddetto «Cannone», soprannome che lascia immaginare la potenza sonora che può sprigionare.«Un’esperienza da brividi. Oltre al fascino del suono, mettere le mani dove le posò il Maestro è un’emozione difficile da descrivere. Si vedono e si sentono tutti i segni che lui ha lasciato».E gli Stradivari a cui accennava?«Non sono sempre con me, ma li ho a disposizione: una bella responsabilità visto che il loro valore è incalcolabile. Il primo è del 1722 e appartiene alla Nippon Foundation di Tokyo. Il secondo è del 1734 ed è di una fondazione di New York. Sono strumenti che vanno capiti. All’inizio non è facile, poi quando si entra nel loro mondo accade qualcosa di magico». Anche se ha solo 22 anni, il capitolo concorsi lo reputa chiuso?«Sento che non mi appartengono più, anche se potrei cambiare idea. Dal Paganini in poi ho potuto godere del fare musica senza essere in gara. Il nostro resta un mondo estremamente competitivo, anche se non ci sono giudici. E preferisco che la mia giuria sia il pubblico».Da bambino si sentiva un predestinato?«Assolutamente no. Ho iniziato a suonare il violino perché la musica da noi era di casa ed ero affascinato dallo strumento di mio papà. I primi risultati mi hanno fatto capire che potevo combinare qualcosa di bello. È accaduto tutto in modo naturale, niente di calcolato».Qual è la sua definizione di talento?«Una semplice predisposizione, che presa da sola è poco utile. Anzi, alle volte può essere controproducente. Sto facendo le mie prime masterclass come docente e incontro un sacco di ragazzi che hanno una grande facilità, anche fisica, nel suonare. Peccato che proprio questo dono li porti a non applicarsi e a disperdere le loro potenzialità».Riuscirebbe a dirmi qual è stato l’insegnamento più importante che ha ricevuto da tutti i suoi maestri, a cominciare da Maurizio Aiello, la sua guida negli anni del Conservatorio, scomparso qualche mese prima del suo trionfo a Genova?«Ci provo, ma devo iniziare da mio padre, che mi ha trasmesso l’importanza della serietà e della costanza, aspetti fondamentali nel nostro mestiere. Il Maestro Aiello ha un posto particolare nel mio cuore, perché è stato l’insegnante di tutta la mia famiglia, di mio padre e delle mie sorelle. Mi ha svelato le basi culturali e tecniche che mi porterò dietro per la vita».In seguito ha potuto studiare con Salvatore Accardo, un riferimento imprescindibile oltre che il primo italiano a vincere il Paganini.«Da lui ho imparato ad avere un rispetto totale per la partitura per eseguire al meglio l’opera di qualsiasi compositore. Pavel Berman mi ha fatto esplorare i mille modi con i quali si può generare il suono. Infine Pierre Amoyal, al Mozarteum di Salisburgo, mi ha aiutato a trovare la mia personalità di artista».Aiello era un erede della gloriosa tradizione napoletana del Conservatorio di San Pietro a Majella, di cui parla spesso con un pizzico di nostalgia il Maestro Riccardo Muti. Accardo con l’Accademia Stauffer di Cremona è una sorta di faro. La scuola violinistica italiana è in salute?«Purtroppo credo che si stia perdendo e di certo non ha saputo imporsi a livello internazionale com’è accaduto a quella russa. Bisognerebbe ricostruire a partire da ciò che resta di una grande storia, ma non sto dicendo di essere io quello che potrà farlo. In questo contesto Accardo è una felice eccezione. Arrivano musicisti da tutto il mondo per studiare con lui e i suoi allievi sono riconoscibili. Più che “italiana”, oggi parlerei di scuola “accardiana”».Tornando a Paganini, in passato ha detto di non credere alla sua immagine mefistofelica. C’entra il fatto che lei non ha mai sbandierato, ma neanche negato l’importanza della fede nella sua vita?«Non lo dico io, Franz Schubert affermò: “Ho sentito cantare un angelo”. Per me è lo stesso. Paganini fu un pioniere in tutti i sensi, anche a livello di marketing. La leggenda dell’anima venduta al demonio giovò alla sua carriera, ma nella sua musica nulla è diabolico. E l’amore che ebbe per il figlio Achille, di cui si occupò da solo, ci dice che persona fosse».Restando in tema esoterico, ieri sera al Festival BA Classica ha eseguito anche il Trillo del diavolo di Giuseppe Tartini, in duo con la chitarrista Carlotta Dalia. Allora è un vizio...«La leggenda vuole che Satana apparve in sogno al compositore che, svegliatosi di soprassalto, provò a trascrivere tutto ciò che ricordava di quella musica disumana. Una storia affascinante che colpì le folle. Il tema incuriosiva molto il pubblico dell’epoca, nulla di più. Se parliamo della nostra interpretazione, credo che sia interessante soprattutto per la trascrizione per chitarra curata da Carlotta».Cos’ha di speciale la vostra formazione - che il presidente Sergio Mattarella ha voluto personalmente al Quirinale - oltre al fatto che condividete la vita insieme alla professione? «Non abbiamo voluto formare il classico duo violino-chitarra. Carlotta lavora molto per riscoprire le radici del suo strumento: il liuto, il basso continuo, la musica barocca. Questo ci dà un carattere più italiano e meno spagnoleggiante. Per il resto riusciamo a trovare un’armonia tra amore e lavoro. I tour diventano delle avventure da affrontare insieme e ritagliarci il tempo per provare è piuttosto semplice».Nei suoi programmi, oltre a Paganini, non manca mai almeno una pagina di Johann Sebastian Bach. «Questo perché a mio avviso i Capricci del primo e le Sonate e partite per violino solo del secondo contengono tutto ciò che il mio strumento può desiderare di fare. Anche se davanti a Bach a volte mi viene da fare un passo indietro».Per quale motivo?«Il suo è un universo estremamente vasto, pieno di simbolismi complessi. Serve una vita per addentrarvisi, un po’ come accade per la religione. Ho paura di suonare le sue opere con superficialità».Prima di lasciarci, mi spiega uno di questi simboli?«Prenda la Ciaccona della Partita n. 2, che Bach scrisse dopo la morte della sua prima moglie, di cui seppe al ritorno da un viaggio. Osservandola attentamente ci si accorge che le variazioni sono 33 come gli anni di Cristo e che è divisa in tre parti, a indicare la Trinità. Non solo, il corale Christ lag in Todesbanden (Cristo giaceva nei lacci della morte), se sovrapposto, combacia perfettamente. A matita poi il compositore scrisse “Sei solo”. Intendeva Sei sonate e partite per violino solo o il suo era un grido davanti a Dio? Stiamo parlando di musica eterna, mette in soggezione».
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