2022-05-23
Giù gli elmetti: forse dopo le Azovstal si negozia sul serio
La realtà sopraffà persino la stampa bellicosa. Ma quante vite si potevano salvare, trattando subito su Crimea e Donbass?La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. E la resa è una vittoria. In effetti la drammatica vicenda del reggimento Azov e degli altri militari usciti dal ventre dell’acciaieria Azovstal ha un retrogusto orwelliano. Per settimane sono stati dipinti come il simbolo della resistenza ucraina, il cuore sotterraneo e pulsante della lotta contro l’orso russo. Finché loro resistono, si è detto, tutti resisteranno, e la guerra sarà vinta. Ora, però, Azov e gli altri hanno dovuto arrendersi. Non sono corsi verso il Valhalla come forse avrebbero voluto fare, ma sono finiti nelle mani dei russi. A quanto dicono i nostri media, sarebbe stato addirittura il loro presidente a ordinarlo: «Servono eroi vivi». Obbligata o imposta, tuttavia, si tratta di una resa. Ha scritto bene Domenico Quirico: «È finita senza gloria ma con un immenso, inutile sacrificio». Molti di loro, non è difficile pensarlo, avrebbero preferito la morte in battaglia. Adesso sono merce di scambio, e Zelensky promette: «Li riporteremo tutti a casa. Ce lo auguriamo di cuore. Ma forse è anche il momento di raddrizzare un attimo la retorica bellica. Ci è stato ripetuto con una certa insistenza, almeno a noi italiani, che armare la resistenza ucraina avrebbe garantito la sopravvivenza della nazione blu e oro. Eppure gli emblemi della resistenza ora sono prigionieri. Mariupol è caduta nelle mani del nemico. Alcune fonti, addirittura, suggeriscono che gli abitanti non abbiano opposto chissà quali barricate all’avanzata dei mezzi con la Z. Si tratta, appunto, di una resa, non di una vittoria. Come la mettiamo, allora? Per settimane, dalle nostre parti, chiunque sostenesse pubblicamente la necessità di trattare per far cessare i massacri veniva accusato di essere un traditore putiniano. «Volete forse dire agli ucraini che si devono arrendere?», sibilavano certi artiglieri con l’elmetto marchiato Pd. Beh, tre mesi dopo, almeno a Mariupol, è finita così, cioè esattamente al contrario di come ci avevano prospettato. «Sono al sicuro ma devono essere scambiati», dice Zelensky degli Azov. «La ripresa delle trattative dipenderà da questo». Ed è proprio questo il punto: le trattative. Guarda caso si comincia a parlarne con un certo vigore proprio ora, proprio dopo la presa di Mariupol. Tutti i giornali, italiani e non, fanno notare la ritrovata disponibilità al dialogo del presidente ucraino. Solo il Corriere della Sera insiste ad attribuirgli una disponibilità granitica alla guerra totale. Persino da Washington arrivano segnali, pur tenui, di apertura a Mosca. Si traccia persino un perimetro: salvezza per gli irriducibili combattenti nazionalisti e ripristino dei confini precedenti l’operazione militare speciale. Non è molto, ma è un abbozzo di piattaforma. Zelensky chiede armi per liberare i porti, però dice anche che la guerra «sarà sanguinosa, si combatterà, ma si concluderà definitivamente con la diplomazia». Il primo passo verso una risoluzione diplomatica sarebbe esattamente questo: ammettere che quella dell’Azovstal è una sconfitta, riconoscere che i russi avranno magari mille problemi sul campo ma non stanno implodendo né demordono. E se si vuole uscire dal pantano, come ha teorizzato addirittura il New York Times, occorre una presa di coscienza e, soprattutto, serve tanta onestà intellettuale. Fra gli assaltatori da tinello italiani, negli ultimi mesi, sono andate per la maggiore alcune posizioni intransigenti mutuate dagli americani. In tanti hanno proclamato che si dovrebbe detronizzare Putin, che bisognerebbe mettere la Russia in ginocchio, che sarebbe opportuno cambiare regime a Mosca. Ed è pur vero che subire una sconfitta in battaglia non si significa aver perso la guerra, ma forse gli obiettivi dichiarati da qualche settimana a questa parte non sono poi così credibili. In ogni caso, la realtà sta prendendo il sopravvento, e mentre ancora si susseguono editoriali bellicosi e si odono proclami furenti nelle trasmissioni, la verità è che mai come ora la macchina negoziale sembra prossima ad accendersi sul serio. L’Europa e gli Usa coglieranno l’occasione? Oppure insisteranno a dire che con i dittatori non si tratta? Sarebbe anche il caso, en passant, di domandarsi quanta sofferenza e quanti disastri abbia provocato la linea della guerra senza fine esibita fino a ora. Quanti morti abbia causato, e per che cosa. Se si finirà a discutere di Crimea russa e di Donbass indipendente, toccherà anche rispondere alla fatale domanda: a che cosa sono serviti tre mesi di battaglie, bombe e massacri? A spingere l’Ue verso la rivoluzione green? Sul serio è stato sacrificata una nazione per questo? Perché qualche atlantista infoiato potesse farsi bello con i gagliardetti altrui? I guerrieri di Azov si sono arresi, sì, ma l’onore l’hanno mantenuto intatto. Un risultato che l’intera Ucraina potrebbe ottenere, se qualcuno non continuasse a spingerla verso l’orgia di sangue. Sì, è il momento di riconoscerlo: la guerra non è pace, la resa non è vittoria. E l’invio di armi non è diplomazia: è solo altra morte. Chi vuole rendersene responsabile?