2022-09-18
Giggino il piromane: in 100 giorni ha bruciato tutto
Luigi Di Maio (Imagoeconomica)
Luigi Di Maio vola, ma solo in trattoria. Un video circolato nei giorni scorsi lo mostra sorretto dai camerieri di un ristorante dei Quartieri spagnoli, a Napoli, sulle note della colonna sonora del film Dirty dancing. Uno show che dovrebbe restituire un’immagine popolare del ministro degli Esteri, ma purtroppo di popolare - nel senso di qualche cosa che abbia a che fare con il popolo - l’ex grillino ormai ha poco. Anzi, la sua carriera, che gli ha consentito di passare rapidamente dal nulla ai vertici del Movimento 5 stelle e poi del governo a poco più di 30 anni (ma è divenuto vicepresidente della Camera a 26), sembra incontrare sempre meno il consenso del popolo. Se in dieci anni scarsi Di Maio ha bruciato le tappe, riuscendo a farsi eleggere in Parlamento con la prima ondata grillina, quella per intenderci che travolse le ambizioni di Pier Luigi Bersani, ora in cento giorni altrettanto scarsi il «ragazzo» di Pomigliano d’Arco ha bruciato tutto.La rovina ha avuto inizio quando, ascoltando le sirene di qualche consigliere molto vicino al governo ma anche al Quirinale, il capo della Farnesina ha deciso di mettersi in proprio, uscendo dal movimento fondato da Beppe Grillo e costituendo una ditta personale. Secondo i calcoli, suoi e dei suoi ispiratori, il grande passo avrebbe dovuto lanciarlo nel firmamento degli statisti della Repubblica: Di Maio probabilmente si sentiva già un novello De Gasperi, moderato e stimato dalle cancellerie occidentali, a cominciare da quelle europee. Godendo della generale considerazione di coloro che sono abituati a fare e disfare i governi, i quali apprezzano gli abiti blu, la camicia bianca e l’aria compunta del ministro, il leader di Impegno civico deve aver pensato che fosse giunto il momento di spiccare il volo e di dare vita a una nuova formazione politica, affrancandosi così da quell’arruffapopolo del comico genovese che gli aveva dato i natali politici e da quell’azzeccagarbugli, incarognito dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi, di Giuseppe Conte. Purtroppo - per lui naturalmente, non certo per noi - i calcoli erano sbagliati. Infatti, è bastato che Di Maio levasse le tende, giustificando il passaggio di una sessantina di onorevoli grillini pentiti con la necessità di consolidare il governo Draghi, che è venuto giù tutto, in primis il futuro dello stesso ministro. La scissione con cui il discepolo dell’Elevato riteneva di elevarsi a sua volta ha provocato infatti uno smottamento tale fra i grillini che non solo l’esecutivo è crollato, la legislatura si è chiusa in anticipo e le prospettive di un futuro da ministro si sono sciolte come neve al sole, ma addirittura è scomparso dall’orizzonte il disegno di diventare il leader di una rinnovata formazione di centro. In poche settimane, quelle necessarie a comporre le liste in vista delle elezioni, il progetto politico si è infatti ristretto a un centrino, che ha come unico sponsor un burosauro della prima Repubblica come Bruno Tabacci, democristiano doc che nell’ultimo mezzo secolo è transitato in quasi tutte le formazioni politiche, riuscendo perfino a fare l’assessore di Giuliano Pisapia, il sindaco ultrasinistro di Milano, dopo essere stato eletto in Parlamento con la Casa delle libertà. Le possibilità di successo di Impegno civico (questo il nome della neonata creatura di Di Maio) sono pari a zero. Infatti, i sondaggi della settimana scorsa, quando ancora era possibile pubblicarli, attribuivano alla lista messa insieme dal ministro con il suo pigmalione dc lo 0,7 per cento, dose omeopatica che non consentirebbe ai sessanta sciagurati ex grillini che hanno seguito il giovanotto di Pomigliano nella nuova avventura, neppure di approdare in Parlamento. La percentuale non è in grado neanche di garantire che il voto sia utile, perché se Impegno civico il 25 settembre non raggiungerà l’1%, le preferenze espresse dagli elettori non andranno alla coalizione alleata e dunque saranno voti buttati, che non serviranno manco al Pd. La faccenda non è un gran guaio per Di Maio, il quale si è premurato di farsi candidare da Letta nella lista del Partito democratico; tuttavia, l’uomo che sognava di volare alto - e non solo al ristorante - rischia di fare la fine di Marco Follini, il quale da segretario dell’Udc lasciò il partito per poi venire eletto con il Pd, salvo sparire al giro successivo. Un’ultima annotazione è necessaria: il consenso del ministro, inizialmente stimato intorno all’1,5 per cento, è andato calando man mano che procedeva la campagna elettorale, tutto ciò nonostante le innumerevoli interviste concesse da Di Maio sui giornali e in tv. Dunque, viene spontaneo interrogarsi: nel suo caso la popolarità è inversamente proporzionale al numero di dichiarazioni rilasciate?