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2022-03-13
14 marzo 1972: la morte di Giangiacomo Feltrinelli
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Giangiacomo Feltrinelli (Ansa)
45°29'44.7"N 9°18'30.2”E: fine solitaria di un «rivoluzionario»
Quel traliccio c’è ancora oggi, alto e con i due bracci tesi a sostenere i cavi dell’alta tensione di una linea dell’Enel che attraversa il territorio del comune di Segrate nell’hinterland a est di Milano, vicino alla trafficata provinciale 103 Nuova Cassanese. Oggi la sua vista è parzialmente nascosta da un grande centro direzionale che mezzo secolo fa non era stato ancora costruito. Lì, nella dura terra erbosa all’ombra del pilone giaceva supino il corpo di un uomo, o meglio quel che ne rimaneva. Nessuno si accorse, alle prime luci dell’alba del 14 marzo 1972 cosa nascondesse in realtà quel botto udito nel silenzio. Molti pensavano fosse stato il bang di un jet militare per la vicinanza della base dell’Aeronautica militare del vicino aeroporto di Linate. A ritrovare quel cadavere solitario, accanto al quale rimasero 43 candelotti di dinamite fu il fiuto del cagnolino Twist che Lorenzo Stringhetti aveva portato a passeggio nei campi il pomeriggio di quel giorno di 50 anni fa. La scena fu davvero macabra, perché la forte deflagrazione aveva strappato entrambe le gambe al cadavere e lo aveva sfigurato, tanto da renderne molto difficile l’identificazione. Quando le forze dell’ordine arrivarono sotto il traliccio trovarono i documenti nelle tasche della vittima intestati a tale Vincenzo Maggioni, quarantaseienne di Novi Ligure residente a Milano. Nelle tasche anche 90 franchi svizzeri e la bella somma (per allora) di 200mila lire in contanti. Un apparente mistero, una chiara intenzione: quella di far saltare la linea e provocare un black-out a mezza Milano. Durante le ricognizioni degli inquirenti un indizio fu trovato nelle vicinanze un furgone camperizzato Volkswagen color verde pallido targato MI G64262 intestato ad un pensionato, con indizi che riportavano al possibile confezionamento di un ordigno. Ma alle prime verifiche presso la motorizzazione la sezione dell’antiterriorismo (guidata dal commissario Luigi Calabresi che verrà assassinato esattamente due mesi più tardi) scoprì che il proprietario aveva già segnalato all’ente di non aver mai posseduto quel furgone. Tutti gli uffici anagrafe smentirono di aver mai emesso i documenti trovati addosso al cadavere. Chi era Vincenzo Maggioni in realtà?
La verità emerse tre giorni dopo sui giornali, anche se già dal giorno successivo al ritrovamento del corpo gli inquirenti avevano imboccato la strada giusta. Oltre agli indizi già elencati, la Polizia trovò due elementi molto significativi nelle tasche del cadavere: una foto di una signora con un ragazzo e soprattutto un «peso» cubano con l’effigie di Fidel Castro. Tutti i dubbi scompariranno all’istituto di medicina legale quando Inge Schönthal, giornalista e fotografa tedesca riconobbe il corpo del marito: Giangiacomo Feltrinelli, fondatore della casa editrice e rampollo di una delle famiglie più ricche d’Italia.
«Il fascismo che ritorna, l'ossessione, la rivoluzione sul modello di Cuba»
Di Feltrinelli non vi era più traccia dal 1969: si era dato alla clandestinità in quell’anno che viene universalmente riconosciuto come l’incipit degli anni di piombo e della strategia della tensione. Una tensione reale, che i media riportavano quotidianamente negli episodi di violenza politica che avevano caratterizzato la coda degli anni Sessanta. E l’annus horribilis si era concluso con la bomba di piazza Fontana. Quello successivo chiuse invece con il fallito golpe Borghese del 7 dicembre 1970. Il Paese entrava nella «notte della Repubblica» all’ombra della Guerra Fredda e di tutte le sue conseguenze sul corso della politica italiana. In questo quadro storico maturò l’idea rivoluzionaria di uno dei personaggi più controversi di quegli anni, l’editore e imprenditore comunista che finì la sua corsa ai piedi di un traliccio. Qualcuno lo aveva definito allora il «padrone delle ferriere che gioca alla rivoluzione». Entrambi i termini di questo ossimoro potrebbero essere considerati corretti, eccetto che se quello di Feltrinelli fu un gioco, finì davvero male. Erano due estremi che fecero cortocircuito, un po’come l’innesco dei candelotti sul traliccio. Che fosse un personaggio controverso, spigoloso e difficile da comprendere fino in fondo era un fatto noto a tutti già dagli anni Sessanta. Che fosse padrone nessun dubbio. Anche le «ferriere» erano una realtà di fatto, perché il cognome legato indissolubilmente alla grande casa editrice raccontava di ben altre ricchezze, nate dalle generazioni precedenti a quella di Giangiacomo, classe 1926. Le ferriere c’erano davvero ed erano le «Acciaierie e ferriere lombarde Falck», simbolo della rivoluzione industriale e del capitalismo italiano, di cui il padre era grande azionista. E non finiva con l’acciaio la grande potenza dei Feltrinelli. Tutto ciò che fu la storia del grande capitale italiano della prima metà del Novecento portava il nome della famiglia milanese: Lloyd Triestino, Assicurazioni Generali per citare le più importanti. L’impero economico della famiglia era cominciato a Milano con il grande commercio di legnami del nonno di Giangiacomo, Carlo, che si allargò al possesso di un istituto di credito omonimo e alla direzione della società «Edison» e la guida per un periodo del Credito Italiano. Ma anche terreni e allevamenti in Brasile e Argentina, tenute in Carinzia, palazzi e ville in tutta Italia. Una ricchezza sconfinata, nella quale crebbe il giovane e tormentato Giangiacomo. La guerra, dopo una breve adesione alle organizzazioni giovanili fasciste, la passò in una grande tenuta di famiglia all’Argentario (acquistata nel 2005 da un oligarca russo e oggi sequestrata per il conflitto in Ucraina), mentre Mussolini viveva i seicento giorni di Salò a Gargnano presso una delle grandi ville proprio dei Feltrinelli. Alla resistenza, che in seguito diventerà una delle ossessioni del giovane Giangiacomo, aderì verso la fine del conflitto unendosi all’esercito cobelligerante che risaliva la Penisola. Fu in questi mesi che il giovane figlio di grandi industriali costruì il mito della «guerra di guerriglia» all’italiana, vale a dire quella dell’insurrezione armata nelle grandi città del Nord come I Gap di Giovanni Pesce, che divenne una figura mitizzata dal giovane Feltrinelli. Il comunismo del giovane ricco di famiglia nasceva con le armi, doveva proseguire con le armi, manu militari. Pur avendo aderito e finanziato il Pci (pecunia non olet), a Giangiacomo fu sempre invisa la svolta di partito facente parte del sistema parlamentare nato nel dopoguerra. Aveva odiato l’amnistia dell’allora guardasigilli Palmiro Togliatti che nel 1946 scelse di non portare avanti la rivoluzione evitando al Paese una fine come quella della Grecia del dopoguerra. I fascisti andavano puniti fino in fondo, la rivoluzione comunista doveva proseguire. I fascisti divennero la sua seconda ossessione. Nel mezzo del percorso tormentato del «partigiano» milionario, nacque l’esperienza della casa editrice omonima da lui fondata nel 1954, partita con l’idea di offrire la cultura a prezzi popolari per le «masse» divulgando le idee rivoluzionarie ma anche mostrando il terzo dei grandi ossimori che caratterizzarono la sua figura. E’grazie a Feltrinelli che il grande pubblico italiano poté conoscere l’opera di uno dei più grandi letterati dissidenti dell’Urss, Boris Pasternak, bandito dalla censura sovietica e autore del capolavoro della letteratura mondiale «Il dottor Zivago». A lui si deve anche il lancio de «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa. Mosca e il mondo dei blocchi contrapposti erano un grave ostacolo allo sviluppo del socialismo, e il Pci (il partito comunista più forte d’Europa) era totalmente succube di tale situazione geopolitica. Cinque anni dopo la fondazione della società editrice, Feltrinelli trovò l’esempio di una idea rivoluzionaria nata a grande distanza dall’Italia. Nel 1959 l’isola di Cuba era teatro della rivoluzione socialista di Fidel Castro e Ernesto «Che» Guevara, una conquista ottenuta con la guerriglia (che Giangiacomo amava) e che aveva posto Cuba come una spina nel fianco dei paladini dell’anticomunismo, gli Stati Uniti della Guerra Fredda targata CIA. L’incontro personale con il Lìder maximo segnò profondamente il pensiero dell’editore milanese, accendendo ancora di più le sue idee di rivoluzione. Cuba diventò il punto di riferimento per un ampio programma di eversione nel cuore dell’occidente, l’Italia. L’isola del «Che» era la via giusta al socialismo non allineato a Mosca, che nel 1956 e nel 1968 aveva schiacciato le idee di libertà di Ungheria e Cecoslovacchia con i carri armati. Dalla seconda metà degli anni Sessanta Giangiacomo Feltrinelli visse nel terrore che il fascismo potesse riprendere il potere e l’ossessione divenne incontrollabile. In Grecia nel 1967 era nato il regime dei colonnelli, mentre dietro il palcoscenico delle democrazie occidentali si muovevano i servizi segreti nel nome dello «stay behind» atto a bloccare lo sviluppo dei movimenti comunisti in Europa. In Italia scoppiava la contestazione studentesca, che Feltrinelli (come Pasolini appartenente a una generazione precedente) non sentì come vera rivoluzione di popolo, ma figlia di giovani che non avevano visto la guerra. Addirittura a Roma durante un intervento alla Sapienza occupata l'editore fu sbeffeggiato al grido di «'A Feltriné...dacce li sordi!». Piuttosto Giangiacomo era rimasto profondamente colpito dalla scoperta del «piano Solo», un progetto di golpe militare progettato segretamente in caso di avanzata del Pci in Italia. E di conseguenza la guerriglia, quella che nel 1945 aveva combattuto nelle strade dell’Italia lacerata e divisa dagli eventi bellici, occupò da allora la sua mente in maniera sempre più ossessiva. Non a caso la prima organizzazione armata clandestina della storia dell’Italia degli anni di piombo, di ispirazione marxista e guevarista, nacque dal terrore, che nella mente dell’editore si presentava con il rumore del nuovo fascismo che bussava alle porte d’Italia, al quale era necessario rispondere con le armi in pugno. All’organizzazione clandestina Feltrinelli diede il nome di Gap (Gruppi d’Azione Partigiana) nel 1970, dopo che le rivendicazioni e le lotte operaie dell’autunno caldo avevano fatto ritenere al fondatore del nucleo che la base rivoluzionaria italiana fosse matura. Il mito della Revoluciòn rivisse nella funzione di un’isola italiana del Mediterraneo nella mente di Giangiacomo, la Sardegna, che avrebbe dovuto diventare come Cuba dopo un rovesciamento delle istituzioni e la separazione dell’isola dal resto d’Italia. Il fondatore dei Gap sapeva che in alcune zone della Sardegna era particolarmente vivo in quegli anni il movimento separatista, con connivenze con il braccio armato rappresentato dall’Anonima sarda di “Grazianeddu” Mesina, un progetto che fu in seguito abbandonato per le differenze sostanziali tra il separatismo sardo e le idee marxiste di Feltrinelli. I Gap iniziarono ad agire con il loro leader già in esilio volontario e colpirono fortunatamente senza mai spargere sangue. Il primo morto della lotta armata di colore rosso fu infatti compiuto dal coevo «Gruppo XXII Ottobre», che a Genova freddò brutalmente il fattorino dello Iacp Alessandro Floris. I Gap, ancora una organizzazione acerba, colpirono più che altro a scopo dimostrativo tra il 1970 e il 1972. Tramite apparecchiature radio clandestine disturbarono più volte i programmi della Rai come preparazione a futuri annunci di presa del potere. In altri casi si produssero in attentati notturni contro cantieri dove in precedenza si erano verificati incidenti mortali sul lavoro e poco altro. Feltrinelli rientrò a Milano poco dopo aver incontrato per l’ultima volta in Austria, dove la famiglia aveva possedimenti, il figlio Carlo di appena dieci anni. La sua mente è ormai annebbiata dalla foga rivoluzionaria, alimentata da personaggi a dir poco ambigui che avevano deciso di seguirlo: ex partigiani disoccupati, alcuni operai sardi emigrati in Germania e poco altro. Era un uomo solo e schiacciato dalle proprie ossessioni quel Feltrinelli che alla vigilia della morte addirittura cercò di convincere il vecchio capo partigiano valsesiano Vincenzo Moscatelli a riprendere le armi. Solo tornò a Milano per cercare di farla cadere nelle tenebre, quelle tenebre che l’ossessione di un colpo di stato fascista avevano prodotto nella sua testa. Voleva sostenere la lotta che pochi giorni prima era sfociata per l’ennesima volta nelle strade della città cuore economico del Paese quando l’11 marzo 1972 una manifestazione della «maggioranza silenziosa» si era scontrata violentemente con gruppi di extraparlamentari di sinistra. Annebbiato dalla foga di colpire, di agire, Feltrinelli pagò con la vita quell’idea di far sentire che quel solitario miliardario sparito dall’Italia era tornato a sostenere la lotta. La versione degli inquirenti e delle perizie parla di un solo tradimento: quello di orologerie di scarsa qualità e di imperizia nel posizionamento delle cariche di innesco al traliccio di Segrate. Un incidente, in buona sostanza. Ma non si risparmiarono nei mesi a seguire le teorie del complotto a base di firme di primo piano come quella di Camilla Cederna, che con la tesi dell’assassinio di Feltrinelli vide una sorta di secondo Pinelli. Altri sostennero che la mano fosse dei servizi segreti, altre ancora degli stessi compagni che avrebbero tradito il compagno-padrone. A terra rimaneva inerte il corpo di uno dei figli di quella grande famiglia che fece il capitalismo italiano, ma anche il padre di un’azienda che ha fatto la storia dell’editoria italiana. E quarantasei candelotti, duecentomila lire, 90 franchi svizzeri e la terra intrisa di sangue. Qualcuno che lo aveva conosciuto negli ultimi anni raccolse l’eredità dei Gap nella lotta armata targata poi Br. Il sogno ossessivo di Feltrinelli si sarebbe rivelato premonitore perché l’Italia sarebbe diventata presto rossa. Ma del colore del sangue versato in nome dell’attacco al «cuore dello Stato», quando ormai la sagoma del traliccio di Segrate era svanita nella nebbia del terrore rosso.
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Il cadavere dell'editore, figlio di una delle famiglie che fecero il capitalismo italiano, fu trovato sotto un traliccio a Segrate. Ucciso dal tritolo ma anche dall'ossessione di un ritorno del fascismo. Dilaniato dallo scoppio e dalle contraddizioni di un «padrone delle ferriere» innamorato della guerriglia che scoprì Pasternak, un dissidente dell'Urss. 45°29'44.7"N 9°18'30.2”E: fine solitaria di un «rivoluzionario»Quel traliccio c’è ancora oggi, alto e con i due bracci tesi a sostenere i cavi dell’alta tensione di una linea dell’Enel che attraversa il territorio del comune di Segrate nell’hinterland a est di Milano, vicino alla trafficata provinciale 103 Nuova Cassanese. Oggi la sua vista è parzialmente nascosta da un grande centro direzionale che mezzo secolo fa non era stato ancora costruito. Lì, nella dura terra erbosa all’ombra del pilone giaceva supino il corpo di un uomo, o meglio quel che ne rimaneva. Nessuno si accorse, alle prime luci dell’alba del 14 marzo 1972 cosa nascondesse in realtà quel botto udito nel silenzio. Molti pensavano fosse stato il bang di un jet militare per la vicinanza della base dell’Aeronautica militare del vicino aeroporto di Linate. A ritrovare quel cadavere solitario, accanto al quale rimasero 43 candelotti di dinamite fu il fiuto del cagnolino Twist che Lorenzo Stringhetti aveva portato a passeggio nei campi il pomeriggio di quel giorno di 50 anni fa. La scena fu davvero macabra, perché la forte deflagrazione aveva strappato entrambe le gambe al cadavere e lo aveva sfigurato, tanto da renderne molto difficile l’identificazione. Quando le forze dell’ordine arrivarono sotto il traliccio trovarono i documenti nelle tasche della vittima intestati a tale Vincenzo Maggioni, quarantaseienne di Novi Ligure residente a Milano. Nelle tasche anche 90 franchi svizzeri e la bella somma (per allora) di 200mila lire in contanti. Un apparente mistero, una chiara intenzione: quella di far saltare la linea e provocare un black-out a mezza Milano. Durante le ricognizioni degli inquirenti un indizio fu trovato nelle vicinanze un furgone camperizzato Volkswagen color verde pallido targato MI G64262 intestato ad un pensionato, con indizi che riportavano al possibile confezionamento di un ordigno. Ma alle prime verifiche presso la motorizzazione la sezione dell’antiterriorismo (guidata dal commissario Luigi Calabresi che verrà assassinato esattamente due mesi più tardi) scoprì che il proprietario aveva già segnalato all’ente di non aver mai posseduto quel furgone. Tutti gli uffici anagrafe smentirono di aver mai emesso i documenti trovati addosso al cadavere. Chi era Vincenzo Maggioni in realtà? La verità emerse tre giorni dopo sui giornali, anche se già dal giorno successivo al ritrovamento del corpo gli inquirenti avevano imboccato la strada giusta. Oltre agli indizi già elencati, la Polizia trovò due elementi molto significativi nelle tasche del cadavere: una foto di una signora con un ragazzo e soprattutto un «peso» cubano con l’effigie di Fidel Castro. Tutti i dubbi scompariranno all’istituto di medicina legale quando Inge Schönthal, giornalista e fotografa tedesca riconobbe il corpo del marito: Giangiacomo Feltrinelli, fondatore della casa editrice e rampollo di una delle famiglie più ricche d’Italia.«Il fascismo che ritorna, l'ossessione, la rivoluzione sul modello di Cuba»Di Feltrinelli non vi era più traccia dal 1969: si era dato alla clandestinità in quell’anno che viene universalmente riconosciuto come l’incipit degli anni di piombo e della strategia della tensione. Una tensione reale, che i media riportavano quotidianamente negli episodi di violenza politica che avevano caratterizzato la coda degli anni Sessanta. E l’annus horribilis si era concluso con la bomba di piazza Fontana. Quello successivo chiuse invece con il fallito golpe Borghese del 7 dicembre 1970. Il Paese entrava nella «notte della Repubblica» all’ombra della Guerra Fredda e di tutte le sue conseguenze sul corso della politica italiana. In questo quadro storico maturò l’idea rivoluzionaria di uno dei personaggi più controversi di quegli anni, l’editore e imprenditore comunista che finì la sua corsa ai piedi di un traliccio. Qualcuno lo aveva definito allora il «padrone delle ferriere che gioca alla rivoluzione». Entrambi i termini di questo ossimoro potrebbero essere considerati corretti, eccetto che se quello di Feltrinelli fu un gioco, finì davvero male. Erano due estremi che fecero cortocircuito, un po’come l’innesco dei candelotti sul traliccio. Che fosse un personaggio controverso, spigoloso e difficile da comprendere fino in fondo era un fatto noto a tutti già dagli anni Sessanta. Che fosse padrone nessun dubbio. Anche le «ferriere» erano una realtà di fatto, perché il cognome legato indissolubilmente alla grande casa editrice raccontava di ben altre ricchezze, nate dalle generazioni precedenti a quella di Giangiacomo, classe 1926. Le ferriere c’erano davvero ed erano le «Acciaierie e ferriere lombarde Falck», simbolo della rivoluzione industriale e del capitalismo italiano, di cui il padre era grande azionista. E non finiva con l’acciaio la grande potenza dei Feltrinelli. Tutto ciò che fu la storia del grande capitale italiano della prima metà del Novecento portava il nome della famiglia milanese: Lloyd Triestino, Assicurazioni Generali per citare le più importanti. L’impero economico della famiglia era cominciato a Milano con il grande commercio di legnami del nonno di Giangiacomo, Carlo, che si allargò al possesso di un istituto di credito omonimo e alla direzione della società «Edison» e la guida per un periodo del Credito Italiano. Ma anche terreni e allevamenti in Brasile e Argentina, tenute in Carinzia, palazzi e ville in tutta Italia. Una ricchezza sconfinata, nella quale crebbe il giovane e tormentato Giangiacomo. La guerra, dopo una breve adesione alle organizzazioni giovanili fasciste, la passò in una grande tenuta di famiglia all’Argentario (acquistata nel 2005 da un oligarca russo e oggi sequestrata per il conflitto in Ucraina), mentre Mussolini viveva i seicento giorni di Salò a Gargnano presso una delle grandi ville proprio dei Feltrinelli. Alla resistenza, che in seguito diventerà una delle ossessioni del giovane Giangiacomo, aderì verso la fine del conflitto unendosi all’esercito cobelligerante che risaliva la Penisola. Fu in questi mesi che il giovane figlio di grandi industriali costruì il mito della «guerra di guerriglia» all’italiana, vale a dire quella dell’insurrezione armata nelle grandi città del Nord come I Gap di Giovanni Pesce, che divenne una figura mitizzata dal giovane Feltrinelli. Il comunismo del giovane ricco di famiglia nasceva con le armi, doveva proseguire con le armi, manu militari. Pur avendo aderito e finanziato il Pci (pecunia non olet), a Giangiacomo fu sempre invisa la svolta di partito facente parte del sistema parlamentare nato nel dopoguerra. Aveva odiato l’amnistia dell’allora guardasigilli Palmiro Togliatti che nel 1946 scelse di non portare avanti la rivoluzione evitando al Paese una fine come quella della Grecia del dopoguerra. I fascisti andavano puniti fino in fondo, la rivoluzione comunista doveva proseguire. I fascisti divennero la sua seconda ossessione. Nel mezzo del percorso tormentato del «partigiano» milionario, nacque l’esperienza della casa editrice omonima da lui fondata nel 1954, partita con l’idea di offrire la cultura a prezzi popolari per le «masse» divulgando le idee rivoluzionarie ma anche mostrando il terzo dei grandi ossimori che caratterizzarono la sua figura. E’grazie a Feltrinelli che il grande pubblico italiano poté conoscere l’opera di uno dei più grandi letterati dissidenti dell’Urss, Boris Pasternak, bandito dalla censura sovietica e autore del capolavoro della letteratura mondiale «Il dottor Zivago». A lui si deve anche il lancio de «Il Gattopardo» di Tomasi di Lampedusa. Mosca e il mondo dei blocchi contrapposti erano un grave ostacolo allo sviluppo del socialismo, e il Pci (il partito comunista più forte d’Europa) era totalmente succube di tale situazione geopolitica. Cinque anni dopo la fondazione della società editrice, Feltrinelli trovò l’esempio di una idea rivoluzionaria nata a grande distanza dall’Italia. Nel 1959 l’isola di Cuba era teatro della rivoluzione socialista di Fidel Castro e Ernesto «Che» Guevara, una conquista ottenuta con la guerriglia (che Giangiacomo amava) e che aveva posto Cuba come una spina nel fianco dei paladini dell’anticomunismo, gli Stati Uniti della Guerra Fredda targata CIA. L’incontro personale con il Lìder maximo segnò profondamente il pensiero dell’editore milanese, accendendo ancora di più le sue idee di rivoluzione. Cuba diventò il punto di riferimento per un ampio programma di eversione nel cuore dell’occidente, l’Italia. L’isola del «Che» era la via giusta al socialismo non allineato a Mosca, che nel 1956 e nel 1968 aveva schiacciato le idee di libertà di Ungheria e Cecoslovacchia con i carri armati. Dalla seconda metà degli anni Sessanta Giangiacomo Feltrinelli visse nel terrore che il fascismo potesse riprendere il potere e l’ossessione divenne incontrollabile. In Grecia nel 1967 era nato il regime dei colonnelli, mentre dietro il palcoscenico delle democrazie occidentali si muovevano i servizi segreti nel nome dello «stay behind» atto a bloccare lo sviluppo dei movimenti comunisti in Europa. In Italia scoppiava la contestazione studentesca, che Feltrinelli (come Pasolini appartenente a una generazione precedente) non sentì come vera rivoluzione di popolo, ma figlia di giovani che non avevano visto la guerra. Addirittura a Roma durante un intervento alla Sapienza occupata l'editore fu sbeffeggiato al grido di «'A Feltriné...dacce li sordi!». Piuttosto Giangiacomo era rimasto profondamente colpito dalla scoperta del «piano Solo», un progetto di golpe militare progettato segretamente in caso di avanzata del Pci in Italia. E di conseguenza la guerriglia, quella che nel 1945 aveva combattuto nelle strade dell’Italia lacerata e divisa dagli eventi bellici, occupò da allora la sua mente in maniera sempre più ossessiva. Non a caso la prima organizzazione armata clandestina della storia dell’Italia degli anni di piombo, di ispirazione marxista e guevarista, nacque dal terrore, che nella mente dell’editore si presentava con il rumore del nuovo fascismo che bussava alle porte d’Italia, al quale era necessario rispondere con le armi in pugno. All’organizzazione clandestina Feltrinelli diede il nome di Gap (Gruppi d’Azione Partigiana) nel 1970, dopo che le rivendicazioni e le lotte operaie dell’autunno caldo avevano fatto ritenere al fondatore del nucleo che la base rivoluzionaria italiana fosse matura. Il mito della Revoluciòn rivisse nella funzione di un’isola italiana del Mediterraneo nella mente di Giangiacomo, la Sardegna, che avrebbe dovuto diventare come Cuba dopo un rovesciamento delle istituzioni e la separazione dell’isola dal resto d’Italia. Il fondatore dei Gap sapeva che in alcune zone della Sardegna era particolarmente vivo in quegli anni il movimento separatista, con connivenze con il braccio armato rappresentato dall’Anonima sarda di “Grazianeddu” Mesina, un progetto che fu in seguito abbandonato per le differenze sostanziali tra il separatismo sardo e le idee marxiste di Feltrinelli. I Gap iniziarono ad agire con il loro leader già in esilio volontario e colpirono fortunatamente senza mai spargere sangue. Il primo morto della lotta armata di colore rosso fu infatti compiuto dal coevo «Gruppo XXII Ottobre», che a Genova freddò brutalmente il fattorino dello Iacp Alessandro Floris. I Gap, ancora una organizzazione acerba, colpirono più che altro a scopo dimostrativo tra il 1970 e il 1972. Tramite apparecchiature radio clandestine disturbarono più volte i programmi della Rai come preparazione a futuri annunci di presa del potere. In altri casi si produssero in attentati notturni contro cantieri dove in precedenza si erano verificati incidenti mortali sul lavoro e poco altro. Feltrinelli rientrò a Milano poco dopo aver incontrato per l’ultima volta in Austria, dove la famiglia aveva possedimenti, il figlio Carlo di appena dieci anni. La sua mente è ormai annebbiata dalla foga rivoluzionaria, alimentata da personaggi a dir poco ambigui che avevano deciso di seguirlo: ex partigiani disoccupati, alcuni operai sardi emigrati in Germania e poco altro. Era un uomo solo e schiacciato dalle proprie ossessioni quel Feltrinelli che alla vigilia della morte addirittura cercò di convincere il vecchio capo partigiano valsesiano Vincenzo Moscatelli a riprendere le armi. Solo tornò a Milano per cercare di farla cadere nelle tenebre, quelle tenebre che l’ossessione di un colpo di stato fascista avevano prodotto nella sua testa. Voleva sostenere la lotta che pochi giorni prima era sfociata per l’ennesima volta nelle strade della città cuore economico del Paese quando l’11 marzo 1972 una manifestazione della «maggioranza silenziosa» si era scontrata violentemente con gruppi di extraparlamentari di sinistra. Annebbiato dalla foga di colpire, di agire, Feltrinelli pagò con la vita quell’idea di far sentire che quel solitario miliardario sparito dall’Italia era tornato a sostenere la lotta. La versione degli inquirenti e delle perizie parla di un solo tradimento: quello di orologerie di scarsa qualità e di imperizia nel posizionamento delle cariche di innesco al traliccio di Segrate. Un incidente, in buona sostanza. Ma non si risparmiarono nei mesi a seguire le teorie del complotto a base di firme di primo piano come quella di Camilla Cederna, che con la tesi dell’assassinio di Feltrinelli vide una sorta di secondo Pinelli. Altri sostennero che la mano fosse dei servizi segreti, altre ancora degli stessi compagni che avrebbero tradito il compagno-padrone. A terra rimaneva inerte il corpo di uno dei figli di quella grande famiglia che fece il capitalismo italiano, ma anche il padre di un’azienda che ha fatto la storia dell’editoria italiana. E quarantasei candelotti, duecentomila lire, 90 franchi svizzeri e la terra intrisa di sangue. Qualcuno che lo aveva conosciuto negli ultimi anni raccolse l’eredità dei Gap nella lotta armata targata poi Br. Il sogno ossessivo di Feltrinelli si sarebbe rivelato premonitore perché l’Italia sarebbe diventata presto rossa. Ma del colore del sangue versato in nome dell’attacco al «cuore dello Stato», quando ormai la sagoma del traliccio di Segrate era svanita nella nebbia del terrore rosso.
Zerocalcare e il presidente dell’Associazione italiana editori Innocenzo Cipolletta (Ansa)
«Abbiamo preso posizione molto forte quando c’è stata la censura di Scurati alla Rai. Abbiamo preso posizione quando il commissario italiano per la fiera di Francoforte ha dichiarato di aver censurato Saviano», ci dice Cipolletta. «Abbiamo preso posizione contro la censura, anzi l’arresto di uno scrittore come Boualem Sansal in Algeria. Siamo contro le censure. Ora che c’è una proposta di censura nei confronti di una casa editrice, anche se non condividiamo nulla del pensiero che porta avanti, non possiamo essere a favore di questa censura. Perché se censuriamo qualcuno di cui non condividiamo l’opinione, poi alla fine dovremo anche ammettere la censura nei confronti di quelli di cui condividiamo le opinioni. Quindi assolutamente siamo contro le censure». Cristallino. E Cipolletta rincara pure la dose: «Quando si comincia con la censura non si sa più bene dove si finisce. Oggi magari si censura qualcosa che non ci piace, ma domani si cominceranno a censurare anche opinioni che invece condividiamo, e rischiamo di prendere una china molto pericolosa. Se gli editori commettono reati, devono essere denunciati alla Procura. Noi non censuriamo».
Mentre il presidente dell’Aie dà lezioni di liberalismo, a sinistra si scatena lo psicodramma consueto. Zerocalcare ha mollato il colpo e non andrà alla fiera perché, sostiene, ha i suoi paletti. Lo scrittore Christian Raimo invece i paletti vorrebbe piantarli nel cuore dei fascisti e rivendica il tentativo di censura, spiegando che la sua pratica è «sedersi accanto ai nazisti e dire “voi vi alzate io resto qui”». Qualcuno forse dovrebbe dire a Raimo che i nazisti li vede solo lui, e non se ne andranno perché sono voci nella sua testa, amici immaginari che gli fanno compagnia così che si senta anche lui un coraggioso militante pronto al sacrificio per l’idea.
C’è poi chi non rimane a combattere ma se ne va, tipo la casa editrice Orecchio Acerbo, che ha comunicato la sua fuoriuscita dall’Aie «in assoluto e totale disaccordo» con la decisione «di accogliere tra gli espositori di “Più libri più liberi” l’editore Passaggio al Bosco, il catalogo del quale è un’esaltazione di concetti e valori in aperto contrasto con quelli espressi dalla Costituzione antifascista del nostro Paese. Abbiamo deciso», scrivono da Orecchio Acerbo, «di uscire dall’associazione. Decisione presa a malincuore, ma consolidata dopo la davvero risibile argomentazione del presidente Cipolletta: l’Aie non sceglie chi sì e chi no».
Cipolletta risponde con chiarezza: «Ci dispiace, ma ripeto, come associazione di editori cerchiamo di non censurare nessuno e penso che gli editori potrebbero apprezzare, dopodiché se qualcuno non apprezza...». Se qualcuno non apprezza vada per la sua strada: sacrosanto.
In tutto questo bailamme figurarsi se poteva mancare il sindacato.
Slc Cgil e Strade (sezione dei traduttori editoriali) ci hanno tenuto a esprimere «ferma condanna e profonda preoccupazione» per la presenza dell’editore di destra alla kermesse romana. «Consentire la diffusione di narrazioni che celebrano ideologie discriminatorie rappresenta una minaccia per il patrimonio comune di libertà e pluralismo», dice la Cgil. «La libertà di espressione non deve diventare un veicolo per l’apologia del fascismo. Questo non è un semplice dibattito culturale, ma una questione cruciale che misura la capacità della società di respingere ogni tentativo di riabilitazione dell’ideologia fascista. La cultura non può essere un terreno per il travestimento del fascismo come opinione legittima».
In buona sostanza, la Cgil chiede di bandire una casa editrice indipendente tenuta in piedi da ragazzi che lavorano guadagnando poco e faticando molto, che non sono nazisti né fascisti e che hanno regolarmente chiesto e ottenuto uno spazio espositivo. Dunque il sindacato - invece di occuparsi dei diritti di chi lavora - opera per danneggiare persone oneste che fanno il loro mestiere. Il tutto allo scopo di obbedire ai diktat di un gruppetto di autori che masticano amaro perché costretti a riconoscere l’esistenza di una cultura alternativa alla loro. Il succo della storia è tutto qui: non vogliono concedere «spazi ai fascisti» semplicemente perché temono di perdere i propri. Si atteggiano a comunisti ma difendono con i denti la proprietà privata della cultura che vorrebbero dominare con piglio padronale. Stavolta però gli è andata male, perché persino l’associazione degli editori ha capito il giochino e si tira indietro.
I padroncini dell’intelletto vedono sfumare la loro autoattribuita primazia e allora scalciano e strepitano, povere bestie.
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Ecco #Edicolaverità, la rassegna stampa podcast del 5 dicembre con Carlo Cambi
Andrea Sempio (Ansa)
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».
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Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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