Mentre in inglese si sente perfettamente Janine Small dire: «Se sapevamo se il vaccino interrompesse o no la trasmissione? No!», nella traduzione italiana questo passaggio diventa incomprensibile. Per chi lo ascolta impossibile capire di cosa si sta parlando.
Mentre in inglese si sente perfettamente Janine Small dire: «Se sapevamo se il vaccino interrompesse o no la trasmissione? No!», nella traduzione italiana questo passaggio diventa incomprensibile. Per chi lo ascolta impossibile capire di cosa si sta parlando.Dev’essere stata una misteriosa reazione avversa (allo scoop) quella che ha colto il traduttore in italiano dell’audizione di Janine Small, top manager Pfizer, alla commissione Covid del Parlamento europeo. Quando arriva la risposta sui vaccini messi sul mercato senza alcun test sulla loro capacità di fermare il contagio, il traduttore si perde un po’ di parole in inglese e accelera vorticosamente il ritmo, fornendo un servizio ai limiti della non fruibilità. Si sentono invece molto meglio le risibili risposte di Small sullo scottante tema dei messaggini tra il suo capo Albert Bourla e il presidente della Commissione Ursula von der Leyen. In sostanza, questa la difesa della manager Pfizer, non c’è nessun problema perché mega contratti come quelli di fornitura non possono certo girare per sms sul cellulare. La seduta della commissione è quella di lunedì scorso e al posto di Bourla si presenta Janine Small, responsabile marketing per i mercati esteri del colosso farmaceutico statunitense. A un certo punto, le viene chiesto sei i vaccini contro il Covid della Pfizer erano stati testati anche ai fini dello stop al contagio e Small ha una reazione del tutto imprevista. Si fa una bella risata ed esclama: «No!». Già questo è un colpo di scena e diciamo che sarebbe stato bello saperlo prima. Prima di fare campagne di vaccinazione al limite dell’ossessività e chiudendo la bocca a chiunque osasse avanzare dubbi o domande sull’efficacia delle punture. Poi Small racconta quanto segue: «Noi abbiamo dovuto realmente muoverci alla velocità della scienza e abbiamo dovuto fare tutto a nostro rischio». La manager cita quindi il numero uno di Pfizer, Bourla, sostenendo che egli «ha capito l’importanza di quello che stava succedendo nel mondo e abbiamo speso due miliardi di dollari per essere sul mercato, a costo di mettere a rischio capitali tutti nostri, pur di essere sicuri di poter produrre e di essere in una posizione tale da poter aiutare di fronte alla pandemia». Small cita anche con orgoglio la stampa. «Per questo mi sento molto orgogliosa», continua, «quando ho letto una pubblicazione dell’Imperial college che diceva che in quel periodo abbiamo salvato quattro milioni di vite». E così, dal suo punto di vista, quel che conta è solo che «noi eravamo presenti quando il mondo ha avuto bisogno di noi». Non c’è che dire, un ottimo spot, al termine di un’ammissione pazzesca sulle condizioni «primordiali» in cui è stato immesso il primo vaccino di massa contro il Covid-19. Questo, almeno, è il tenore delle dichiarazioni di Small se ascoltate in lingua originale sul sito dell’Europarlamento, ovvero in inglese. Qui si sente chiaramente la manager affermare: «Se sapevamo se il vaccino interrompesse o no la trasmissione, prima di immetterlo sul mercato? No!». In italiano, questo passaggio è tradotto a buon peso. Una distorsione rende impossibile ascoltare e capire la premessa («Se sapevamo se il vaccino interrompesse o no la trasmissione, prima di immetterlo sul mercato?»): un italiano che avesse seguito l’audizione avrebbe sentito la Small esclamare «No!», ma senza sapere a quale domanda. Ancora nell’arco della stessa risposta, Small si dedica a una certa autocelebrazione quando afferma: «Non vorrei mai pensare che situazione si sarebbe creata se compagnie come la nostra non avessero preso i propri rischi, se non avessero sviluppato i propri prodotti». Uno dei temi più caldi della commissione Covid riguarda il caso dello scambio di messaggini tra la von der Leyen e Bourla nel pieno della negoziazione dei vaccini con l’Ue. La Commissione ha fatto muro, dopo che nell’aprile dello scorso anno il New York Times ha riportato che il presidente tedesco e l’ad di Pfizer avevano trattato tramite «chiamate ed sms» una fornitura di vaccini. Sul punto anche Janine Small fa muro, buttandola sull’assurdo. «Il contratto non è stato certo negoziato con un sms», spiega la manager, «perché non si può negoziare un contratto da 8 miliardi con degli sms». «Servono squadre enormi, non è possibile contrattare con i messaggini… non li ho contati neppure, ma io non ho il pallottoliere. Ci sono voluti giorni, settimane». Quindi, garantisce Small, «il contratto ha rispettato i normali canali di comunicazione» ed eventuali «binari paralleli di comunicazione non avrebbero potuto esserci». Per carità, è evidente che non ci si manda contratti di centinaia di pagine per sms e che questo vale anche per le tabelle e magari, concediamo, pure per singoli articoli contrattuali. Ma è altrettanto evidente che se nel corso della delicata contrattazione il numero uno della Pfizer e il numero uno della Commissione Ue si scrivono messaggini possono farlo anche solo per indirizzare i lavori, orientare il confronto, cassare o perorare una certa soluzione tecnica o giuridica. Insomma, per trattare su temi importanti, a volte, bastano poche frasi ben calibrate e poi se la vedono gli sherpa. Interessante, infine, anche la risposta di Small alle domande sui prezzi dei vaccini venduti. La manager è stata categorica: «So di deludervi, ma di prezzi per noi non si può discutere… è un tema confidenziale». Su tutta la questione, forse, ci sono un po’ troppe faccende confidenziali.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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