2018-08-15
Ore 11.50: un fulmine, Ponte Morandi crolla e taglia Genova in due. 35 morti, c’è un bimbo
Ansa
- Collassano 200 metri del cavalcavia autostradale, i veicoli cadono nel vuoto e sulle case. I testimoni parlano di un lampo.
- Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo. Il racconto di chi ha visto la morte in faccia. Un papà sotto choc: «La strada spariva e temevo che non sarei riuscito a fare retromarcia». Camionista miracolato: «Sono volato via, ho solo una slogatura».
Lo speciale contiene due articoli.
Genova, 14 agosto 2018, alle 11.50 ponte Morandi crolla. Sotto la pioggia battente che da ore flagella la città, il tratto del viadotto autostradale Polcevera, nel punto in cui sovrasta l'omonimo torrente, la ferrovia e il quartiere industriale, si schianta al suolo all'improvviso. Un boato enorme e poi il silenzio.
Dopo un volo di 45 metri circa 200 metri del viadotto collassano sulla strada sottostante. Trascinano nel vuoto auto e mezzi pesanti fermi in colonna, che stavano attraversando il viadotto, e seppelliscono le persone e i mezzi che passavano sotto. Il bilancio delle vittime è altissimo e ancora non definitivo. Sono 35 quelle accertate, tra cui un bambino di appena 10 anni, 16 i feriti, di cui tre in codice rosso e tre in codice giallo, una decina di dispersi e tanti altri in stato di choc.
Ponte Morandi non è un viadotto qualsiasi. È un pezzo della città. Una strada che i genovesi attraversano ogni giorno. Lungo più di un chilometro e sospeso nel vuoto, la sua sagoma inconfondibile fa da cerniera tra le due metà del capoluogo ligure e attraversa un intero quartiere. Insieme alla sopraelevata unisce la zona ovest al centro, costeggiando il porto. Sopra al ponte, oltre al traffico autostradale di chi punta verso Milano, passano migliaia di genovesi, che usano quel tratto come tangenziale. Sotto ci sono abitazioni, magazzini, aziende. E c'è via Perlasca, frequentatissima.
Il tratto che si è sgretolato si è sganciato dal resto del ponte con un cedimento secco. È finito soprattutto nel torrente, ma i detriti hanno travolto i mezzi di passaggio sulla strada che lo costeggia: è proprio tra chi si trovava sopra e sotto al viadotto che si registrano le vittime finora accertate. Auto e camion volati giù insieme all'ammasso di cemento si sono polverizzati a terra inghiottiti da una montagna di macerie. E per chi passava sotto la sorte è stata identica. Tra gli edifici colpiti ci sono quelli del centro Amiu, l'azienda ambientale del Comune, che ha gli uffici proprio di fianco al ponte. Una parte del fabbricato risulta distrutta, due furgoni e un camion sono stati schiacciati.
Eppure poteva andare peggio: esattamente sotto al viadotto, in corrispondenza del tratto rimasto in piedi, ci sono enormi palazzoni, con centinaia di famiglie residenti. Se il crollo avesse coinvolto anche quel tratto sarebbe stata un'ecatombe. Nel pomeriggio di ieri, infatti, tutte le abitazioni della zona sono state evacuate per timore di nuovi cedimenti e sono decine le famiglie che non possono far ritorno nelle proprie abitazioni, alcune delle quali ospitate in strutture del Comune.
I soccorsi sono scattati subito. A mani nude per tutta la giornata 250 tra Vigili del fuoco e soccorritori hanno lavorato tra le macerie, assistiti dalle forze dell'ordine e coordinati dalla Protezione civile. All'ospedale Villa Scassi di Genova, dove è subito scattata l'allerta, tre persone sono state ricoverate in codice rosso. Hanno fratture e schiacciamenti a livello del torace, traumi cranici e alla colonna vertebrale. Si trovavano alla guida dei loro mezzi e sono stati travolti. Tanti anche i traumatizzati psichici accompagnati in ospedale dai soccorritori, soprattutto donne e bambini sotto choc dopo aver assistito all'evento. Le loro condizioni erano tali che, nel pomeriggio, è stata allestita per l'occasione un'unità psicologica e psichiatrica dedicata.
Anche la viabilità cittadina è andata in tilt: autostrada chiusa, con ripercussioni fino al confine con la Francia dove i mezzi pesanti sono stati fermati alla frontiera, mentre i detriti hanno ostruito per ore le vie circostanti il cratere impedendo il deflusso delle auto verso Val Polcevera. Eppure, nonostante gli appelli delle autorità a tenersi a distanza, tanti genovesi si sono mossi verso la zona del disastro, per vedere con i propri occhi quello che sembrava impossibile fino a poco prima. Sotto il ponte passa anche la ferrovia, che però non è stata colpita dal crollo. Il traffico è rimasto, comunque, bloccato fino alle 14 e sul nodo di Genova si sono registrati pesanti rallentamenti.
Sulle cause del crollo non c'è ancora nessuna ipotesi precisa. Ponte Morandi è un'opera inaugurata nel 1967, da sempre oggetto di importanti manutenzioni e bersaglio di critiche. In questo periodo «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto», ha fatto sapere ieri in una nota la società Autostrade, precisando che la sicurezza del ponte non era considerata a rischio. «I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza», continua la società, garantendo che «le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi».
Alcuni testimoni hanno raccontato che un fulmine avrebbe colpito il ponte pochi istanti prima del crollo. «Erano da poco passate le 11,30 quando abbiamo visto il fulmine colpire un pilone», hanno spiegato all'Ansa «e il ponte è venuto giù». L'ipotesi del fulmine «non è stata confermata né accertata nel corso del comitato operativo», ha precisato in serata la Protezione civile.
Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo
L'Italia non dimenticherà mai quel suo grido disperato: «Oddio, oddio, oddio, oh Dio Santo». Davide Di Giorgio è un ragazzone allegro ed estroverso. Lavora all'Ansaldo Energia ed è appassionato di teatro. Davide ha ripreso il crollo, ha pubblicato il video su Facebook: 26 secondi di puro terrore. I bagliori dei cavi dell'energia elettrica tranciati, il ponte che si sfarina e viene giù, quelle urla disperate, sono già parte della storia dei più immani disastri del nostro paese. «Mi sento male», dice Davide prima di interrompere la ripresa. Genova spezzata, Genova terrorizzata.
Il pronto soccorso dell'ospedale Villa Scassi di Sampierdarena, quello più vicino al luogo della tragedia, accoglie i feriti ma anche decine di persone in stato di choc. Uomini e donne che hanno visto con i loro occhi il ponte crollare, altri che erano passati di lì cinque minuti prima che venisse giù tutto, o che si sono fermati giusto in tempo: sono vivi per miracolo e hanno il terrore negli occhi. Nel pronto soccorso viene allestita una unità di supporto psicologico, l'impatto emotivo per i genovesi è stato terribile.
La differenza tra la vita e la morte si misura in secondi e in centimetri: pochissimi quelli che separavano due camion che stavano percorrendo il ponte Morandi, uno dietro l'altro, quando si è scatenato l'inferno. Quello dietro, verde, è rimasto sul ciglio della voragine che si è aperta davanti agli occhi dell'autista, rimasto vivo. Quello davanti, bianco con una scritta rossa, è caduto giù, e per il conducente è stata la fine.
Chi non crede ai miracoli, ascolti la testimonianza di Davide. Il ragazzo è volato giù insieme alla sua auto. Dall'ambulanza racconta la sua incredibile storia al Secolo XIX: «Sono andato giù col ponte, non so cosa mi ha salvato. Sono finito di sotto, è caduto tutto proprio mentre passavo. Ora sono in ambulanza, sono uscito dall'auto con le mie gambe». La vigilia di Ferragosto è un momento di svago, ma la morte non va in vacanza. Due famiglie uguali: papà, mamma, un bambino, l'autoradio accesa e tanta voglia di divertirsi. Una delle due famiglie non c'è più: è rimasta schiacciata sotto le macerie, i soccorritori hanno visto i corpi dilaniati dalle lamiere accartocciate, schiacciati da tonnellate di maledetto calcestruzzo.
«All'interno dell'auto», raccontano i Vigili del fuoco, «c'erano anche ombrelloni e valigie». Un altro papà, un'altra mamma e un altro bambino, invece, sono vivi. Questione di secondi, di centimetri: «Eravamo stati al centro commerciale», racconta l'uomo al Secolo XIX, «e stavamo tornando da corso Perrone quando abbiamo sentito un tuono fortissimo e abbiamo visto crollare tutto. Dietro di me c'era una macchina e avevo paura di non riuscire a fare retromarcia. Per fortuna quello dietro di me si è spostato e siamo andati in retromarcia per un centinaio di metri, mentre veniva giù di tutto. Abbiamo mollato la macchina. Mia moglie», aggiunge, «ha preso il bambino e siamo scappati verso Cornigliano. Tremo ancora, è stato terribile».
Decine di sopravvissuti raccontano lo stesso film dell'orrore. Protagonista, la retromarcia: mentre il ponte si sbriciolava davanti a loro, hanno tentato di ingranarla, prima di rendersi conto che la strada era bloccata e l'unica speranza era fuggire a piedi. Christian ha smesso di fumare da dieci anni, ma chiede una sigaretta. «Sono un miracolato», dice a una cronista dell'Ansa, «ero in macchina a 100 metri dal punto del crollo quando ho sentito tremare la strada sotto di me e mi sono fermato sulla corsia di sinistra. Ma non so dire perché l'ho fatto, subito dopo ho visto il ponte che si sbriciolava. Sono sceso dalla macchina e mi sono messo a correre più che potevo», aggiunge, «non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Una cosa da fine del mondo, mi rendo conto adesso di cosa ho scampato. La strada dondolava tutta, io sono scappato, urlavo: correte, correte e tutti scappavano. Ho visto il camion bianco in bilico, poi… è andato giù. L'autista», chiede, «sarà morto, vero? Ci sono morti, vero?».
Lo chiede a tutti, Christian: «Quanti morti ci sono?». Nessuno ha il coraggio di rispondergli. Lui si volta, guarda la parte di ponte rimasta in piedi, sospesa tra la vita e la morte, e ripete: «Cosa ho scampato». Gianluca, 28 anni, autotrasportatore, diventerà papà tra un mese. La sua compagna, Giulia, arriva al policlinico San Martino, dove Gianluca è stato ricoverato: «Il mio compagno», racconta Giulia, «è rimasto appeso al suo camion e io penso che sia rimasto attaccato alla vita per amore del suo bambino che sta arrivando. Ora lo stanno operando, ha molte fratture ma non è in pericolo di vita. Del suo collega non si hanno ancora notizie. Non so di più», aggiunge Giulia, «perchè non l'ho ancora visto e non vedo l'ora di poterlo abbracciare». A pochi metri, un camionista racconta l'incubo al Corriere Tv: «Ero dentro al camion», dice l'uomo, «ho sentito un boato e sono volato via. Sono andato a urtare contro un muro e poi sono caduto per una decina di metri. Mi sembrava di volare, non ricordo altro. Ho solo una slogatura e una contusione all'anca, penso sia stato un miracolo».
Collassano 200 metri del cavalcavia autostradale, i veicoli cadono nel vuoto e sulle case. I testimoni parlano di un lampo.Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo. Il racconto di chi ha visto la morte in faccia. Un papà sotto choc: «La strada spariva e temevo che non sarei riuscito a fare retromarcia». Camionista miracolato: «Sono volato via, ho solo una slogatura».Lo speciale contiene due articoli. Genova, 14 agosto 2018, alle 11.50 ponte Morandi crolla. Sotto la pioggia battente che da ore flagella la città, il tratto del viadotto autostradale Polcevera, nel punto in cui sovrasta l'omonimo torrente, la ferrovia e il quartiere industriale, si schianta al suolo all'improvviso. Un boato enorme e poi il silenzio. Dopo un volo di 45 metri circa 200 metri del viadotto collassano sulla strada sottostante. Trascinano nel vuoto auto e mezzi pesanti fermi in colonna, che stavano attraversando il viadotto, e seppelliscono le persone e i mezzi che passavano sotto. Il bilancio delle vittime è altissimo e ancora non definitivo. Sono 35 quelle accertate, tra cui un bambino di appena 10 anni, 16 i feriti, di cui tre in codice rosso e tre in codice giallo, una decina di dispersi e tanti altri in stato di choc. Ponte Morandi non è un viadotto qualsiasi. È un pezzo della città. Una strada che i genovesi attraversano ogni giorno. Lungo più di un chilometro e sospeso nel vuoto, la sua sagoma inconfondibile fa da cerniera tra le due metà del capoluogo ligure e attraversa un intero quartiere. Insieme alla sopraelevata unisce la zona ovest al centro, costeggiando il porto. Sopra al ponte, oltre al traffico autostradale di chi punta verso Milano, passano migliaia di genovesi, che usano quel tratto come tangenziale. Sotto ci sono abitazioni, magazzini, aziende. E c'è via Perlasca, frequentatissima. Il tratto che si è sgretolato si è sganciato dal resto del ponte con un cedimento secco. È finito soprattutto nel torrente, ma i detriti hanno travolto i mezzi di passaggio sulla strada che lo costeggia: è proprio tra chi si trovava sopra e sotto al viadotto che si registrano le vittime finora accertate. Auto e camion volati giù insieme all'ammasso di cemento si sono polverizzati a terra inghiottiti da una montagna di macerie. E per chi passava sotto la sorte è stata identica. Tra gli edifici colpiti ci sono quelli del centro Amiu, l'azienda ambientale del Comune, che ha gli uffici proprio di fianco al ponte. Una parte del fabbricato risulta distrutta, due furgoni e un camion sono stati schiacciati. Eppure poteva andare peggio: esattamente sotto al viadotto, in corrispondenza del tratto rimasto in piedi, ci sono enormi palazzoni, con centinaia di famiglie residenti. Se il crollo avesse coinvolto anche quel tratto sarebbe stata un'ecatombe. Nel pomeriggio di ieri, infatti, tutte le abitazioni della zona sono state evacuate per timore di nuovi cedimenti e sono decine le famiglie che non possono far ritorno nelle proprie abitazioni, alcune delle quali ospitate in strutture del Comune. I soccorsi sono scattati subito. A mani nude per tutta la giornata 250 tra Vigili del fuoco e soccorritori hanno lavorato tra le macerie, assistiti dalle forze dell'ordine e coordinati dalla Protezione civile. All'ospedale Villa Scassi di Genova, dove è subito scattata l'allerta, tre persone sono state ricoverate in codice rosso. Hanno fratture e schiacciamenti a livello del torace, traumi cranici e alla colonna vertebrale. Si trovavano alla guida dei loro mezzi e sono stati travolti. Tanti anche i traumatizzati psichici accompagnati in ospedale dai soccorritori, soprattutto donne e bambini sotto choc dopo aver assistito all'evento. Le loro condizioni erano tali che, nel pomeriggio, è stata allestita per l'occasione un'unità psicologica e psichiatrica dedicata. Anche la viabilità cittadina è andata in tilt: autostrada chiusa, con ripercussioni fino al confine con la Francia dove i mezzi pesanti sono stati fermati alla frontiera, mentre i detriti hanno ostruito per ore le vie circostanti il cratere impedendo il deflusso delle auto verso Val Polcevera. Eppure, nonostante gli appelli delle autorità a tenersi a distanza, tanti genovesi si sono mossi verso la zona del disastro, per vedere con i propri occhi quello che sembrava impossibile fino a poco prima. Sotto il ponte passa anche la ferrovia, che però non è stata colpita dal crollo. Il traffico è rimasto, comunque, bloccato fino alle 14 e sul nodo di Genova si sono registrati pesanti rallentamenti. Sulle cause del crollo non c'è ancora nessuna ipotesi precisa. Ponte Morandi è un'opera inaugurata nel 1967, da sempre oggetto di importanti manutenzioni e bersaglio di critiche. In questo periodo «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto», ha fatto sapere ieri in una nota la società Autostrade, precisando che la sicurezza del ponte non era considerata a rischio. «I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza», continua la società, garantendo che «le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi». Alcuni testimoni hanno raccontato che un fulmine avrebbe colpito il ponte pochi istanti prima del crollo. «Erano da poco passate le 11,30 quando abbiamo visto il fulmine colpire un pilone», hanno spiegato all'Ansa «e il ponte è venuto giù». L'ipotesi del fulmine «non è stata confermata né accertata nel corso del comitato operativo», ha precisato in serata la Protezione civile. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/genova-crollo-2595891904.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="christian-ho-inchiodato-in-tempo-davide-e-precipitato-pero-e-vivo" data-post-id="2595891904" data-published-at="1766758017" data-use-pagination="False"> Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo L'Italia non dimenticherà mai quel suo grido disperato: «Oddio, oddio, oddio, oh Dio Santo». Davide Di Giorgio è un ragazzone allegro ed estroverso. Lavora all'Ansaldo Energia ed è appassionato di teatro. Davide ha ripreso il crollo, ha pubblicato il video su Facebook: 26 secondi di puro terrore. I bagliori dei cavi dell'energia elettrica tranciati, il ponte che si sfarina e viene giù, quelle urla disperate, sono già parte della storia dei più immani disastri del nostro paese. «Mi sento male», dice Davide prima di interrompere la ripresa. Genova spezzata, Genova terrorizzata. Il pronto soccorso dell'ospedale Villa Scassi di Sampierdarena, quello più vicino al luogo della tragedia, accoglie i feriti ma anche decine di persone in stato di choc. Uomini e donne che hanno visto con i loro occhi il ponte crollare, altri che erano passati di lì cinque minuti prima che venisse giù tutto, o che si sono fermati giusto in tempo: sono vivi per miracolo e hanno il terrore negli occhi. Nel pronto soccorso viene allestita una unità di supporto psicologico, l'impatto emotivo per i genovesi è stato terribile. La differenza tra la vita e la morte si misura in secondi e in centimetri: pochissimi quelli che separavano due camion che stavano percorrendo il ponte Morandi, uno dietro l'altro, quando si è scatenato l'inferno. Quello dietro, verde, è rimasto sul ciglio della voragine che si è aperta davanti agli occhi dell'autista, rimasto vivo. Quello davanti, bianco con una scritta rossa, è caduto giù, e per il conducente è stata la fine. Chi non crede ai miracoli, ascolti la testimonianza di Davide. Il ragazzo è volato giù insieme alla sua auto. Dall'ambulanza racconta la sua incredibile storia al Secolo XIX: «Sono andato giù col ponte, non so cosa mi ha salvato. Sono finito di sotto, è caduto tutto proprio mentre passavo. Ora sono in ambulanza, sono uscito dall'auto con le mie gambe». La vigilia di Ferragosto è un momento di svago, ma la morte non va in vacanza. Due famiglie uguali: papà, mamma, un bambino, l'autoradio accesa e tanta voglia di divertirsi. Una delle due famiglie non c'è più: è rimasta schiacciata sotto le macerie, i soccorritori hanno visto i corpi dilaniati dalle lamiere accartocciate, schiacciati da tonnellate di maledetto calcestruzzo. «All'interno dell'auto», raccontano i Vigili del fuoco, «c'erano anche ombrelloni e valigie». Un altro papà, un'altra mamma e un altro bambino, invece, sono vivi. Questione di secondi, di centimetri: «Eravamo stati al centro commerciale», racconta l'uomo al Secolo XIX, «e stavamo tornando da corso Perrone quando abbiamo sentito un tuono fortissimo e abbiamo visto crollare tutto. Dietro di me c'era una macchina e avevo paura di non riuscire a fare retromarcia. Per fortuna quello dietro di me si è spostato e siamo andati in retromarcia per un centinaio di metri, mentre veniva giù di tutto. Abbiamo mollato la macchina. Mia moglie», aggiunge, «ha preso il bambino e siamo scappati verso Cornigliano. Tremo ancora, è stato terribile». Decine di sopravvissuti raccontano lo stesso film dell'orrore. Protagonista, la retromarcia: mentre il ponte si sbriciolava davanti a loro, hanno tentato di ingranarla, prima di rendersi conto che la strada era bloccata e l'unica speranza era fuggire a piedi. Christian ha smesso di fumare da dieci anni, ma chiede una sigaretta. «Sono un miracolato», dice a una cronista dell'Ansa, «ero in macchina a 100 metri dal punto del crollo quando ho sentito tremare la strada sotto di me e mi sono fermato sulla corsia di sinistra. Ma non so dire perché l'ho fatto, subito dopo ho visto il ponte che si sbriciolava. Sono sceso dalla macchina e mi sono messo a correre più che potevo», aggiunge, «non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Una cosa da fine del mondo, mi rendo conto adesso di cosa ho scampato. La strada dondolava tutta, io sono scappato, urlavo: correte, correte e tutti scappavano. Ho visto il camion bianco in bilico, poi… è andato giù. L'autista», chiede, «sarà morto, vero? Ci sono morti, vero?». Lo chiede a tutti, Christian: «Quanti morti ci sono?». Nessuno ha il coraggio di rispondergli. Lui si volta, guarda la parte di ponte rimasta in piedi, sospesa tra la vita e la morte, e ripete: «Cosa ho scampato». Gianluca, 28 anni, autotrasportatore, diventerà papà tra un mese. La sua compagna, Giulia, arriva al policlinico San Martino, dove Gianluca è stato ricoverato: «Il mio compagno», racconta Giulia, «è rimasto appeso al suo camion e io penso che sia rimasto attaccato alla vita per amore del suo bambino che sta arrivando. Ora lo stanno operando, ha molte fratture ma non è in pericolo di vita. Del suo collega non si hanno ancora notizie. Non so di più», aggiunge Giulia, «perchè non l'ho ancora visto e non vedo l'ora di poterlo abbracciare». A pochi metri, un camionista racconta l'incubo al Corriere Tv: «Ero dentro al camion», dice l'uomo, «ho sentito un boato e sono volato via. Sono andato a urtare contro un muro e poi sono caduto per una decina di metri. Mi sembrava di volare, non ricordo altro. Ho solo una slogatura e una contusione all'anca, penso sia stato un miracolo».
iStock
Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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