2022-03-06
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: come si beve una bibita o un cocktail
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Ingredienti - 800 gr di panettone, 1L di latte, 8 cucchiai di farina 00, 8 cucchiai colmi di zucchero semolato, 4 uova, un limone non trattato, 4 cucchiai di cacao in polvere o 80 gr di cioccolata meglio se fondente, 125 cc di Alchermes (nel caso abbiate dei bambini e non volete usare alcol allora 125 ml di latte più una fialetta di colore rosso per dolci).
Procedimento - Iniziate a fare la crema scaldando in una pentolina capiente il latte, aggiungete a poco a poco la farina sempre girando con la frusta in modo che non si formino grumi, poi lo zucchero, la buccia del limone evitando di intaccare l’albedo e infine fuori fuoco le uova continuando a girare sempre con la frusta. Quando le uova si sono ben incorporate rimettete sul fuoco a fiamma molto bassa e fate addensare la crema sempre rigirando. A questo punto eliminate la scorza di limone e prendete un terzo della crema e versatela in un altro pentolino aggiungendo la polvere di cacao oppure la cioccolata sbriciolata. In questo secondo caso fate prendere ancora un po’ di calore per far sciogliere la cioccolata. Dovete sempre girare il composto per evitare che si formino grumi. Ora prendete una forma da zuccotto (basta una bastardella) e rivestitela di pellicola trasparente all’interno, vi faciliterà il distacco della zuppa inglese una volta freddata. Fate a fette abbastanza sottili il panettone e rivestite le pareti dello stampo. Bagnate con l’Alchermes poi versate la crema al cioccolato. Compattate bene e chiudete lo strato con altro panettone bagnato di liquore. Ora versate la crema bianca e chiudete con altre fettine di panettone. Sigillate con la pellicola e andate in frigo per almeno un’ora. Una volta che lo zuccotto si è consolidato, sformatelo sul piatto di portata togliendo la pellicola.
Come far divertire i bambini - Date a loro l’incombenza di rivestire lo stampo con le fette di panettone, scoprirete quanto sanno essere precisi.
Abbinamento - Abbiamo optato per un Marsala stravecchio, vanno benissimo un Sagrantino di Montefalco passito, una Vernaccia di Serrapetrona amabile oppure se volete un impatto più sofisticato un Torcolato di Breganze o una Malvasia delle Lipari passita.
Molti hanno commentato l’intervento militare di Washington contro formazioni islamiste affiliate all’Isis-Africa nel Nordest della Nigeria come evento generato da motivi di politica interna americana – recuperare il consenso della componente dei repubblicani cristiani, scossa dallo scandalo Epstein, da parte di Donald Trump – e come più simbolico che concreto. Che la scelta di bombardare a Natale uccisori di cristiani abbia avuto un motivo di «gestione simbolica» è probabile. Ma che sia l’unico o il principale motivo dell’azione militare non lo è. La strategia statunitense ha un obiettivo molto più ampio: contrastare l’influenza della Cina sul Sud globale, in particolare Africa e Sudamerica.
Da tempo è osservabile una penetrazione statunitense con fini condizionanti in tutta l’Africa con priorità a quella atlantica. Esempi. Il (progetto di) corridoio ferroviario dall’interno dell’Africa mineraria australe con terminale il porto di Lobito in Angola, programma che vede l’Italia tra gli investitori insieme – se confermato – agli americani con probabile (sembra) contributo dell’Ue. L’accordo in strutturazione tra Stati Uniti e Marocco (forse Spagna) per creare un porto sulla costa del Sahara meridionale connesso con gli Stati dell’Africa centro-settentrionale produttori di minerali critici. La pressione crescente statunitense contro il Sudafrica per renderlo meno dipendente da Pechino. Ecc. Queste e altre mosse sono spiegate da una strategia di decinesizzazione dell’Africa (anche motivo di negoziato tra Russia ed America in Alaska) in generale e, in particolare, dalla priorità statunitense di rompere il monopolio cinese sulle terre rare secondo la linea del nuovo progetto Pax silica (impero minerario) in fase di elaborazione a Washington. L’obiettivo non è semplice perché, controstrategia cinese e banditismo locale a parte, più della metà dell’Africa mineraria rilevante è vulnerabile a irruzioni jihadiste organizzate da uno Stato islamico che dopo la confitta in Siria ed Iraq si è riorganizzato nel Sahel (semi)desertico e si sta strutturando in alcune parti dell’Africa sub-sahariana. Pertanto l’attacco all’Isis-Africa va visto come strategia sistemica e non come contingenza per motivi interni. L’Isis recluta gruppi di banditi o insorgenti locali offrendo loro mezzi e sinergie. Attaccandolo con certa pesantezza l’America manda un messaggio di dissuasione che limita il reclutamento jihadista. Inoltre, la collaborazione pur forzata del governo nigeriano con la volontà statunitense mostra utilità: i flussi di investimento estero in Nigeria sono calati a causa del suo disordine interno ed un intervento di riordino potrebbe farli riprendere. La Cina tende a fare accordi con le fonti di disordine, mantenendole tali in parecchi Stati africani, mentre l’America le elimina con la forza. Questo mi sembra il messaggio che Washington stia tentando di dare alla comunità africana.
Messaggio compatibile con l’azione compressiva americana verso il regime filo cinese e russo (dove Mosca però non sta interferendo) di Nicolàs Maduro in Venezuela. Qui Washington usa una «strategia del boa», stritolamento lento, per non causare una reazione «anti gringos» nel continente, combinata con una motivazione più simbolica che causa reale, cioè l’eliminazione delle infrastrutture venezuelane per il traffico di droga prodotta in nazioni contigue, queste bersagli successivi. In sintesi, la conduzione Trump vuole l’influenza su tutto il Sudamerica, Argentina, Cile ed altri già presi a seguito di elezioni interne, a cui va aggiunto il nuovo presidente dell’Honduras, nazione chiave della Mesoamerica tra Guatemala a Nord e Nicaragua a Sud. Il Messico dovrà allinearsi, il Brasile non potrà contrapporsi oltre misura, Panama pur tentando una neutralità tra America e Cina difficilmente potrà sottrarsi alla convergenza prevalente con la prima.
Sul piano globale, inserendo oltre ad Africa e Sudamerica la proiezione anticinese nel Pacifico e quella mineraria e geoestrategica verso la Groenlandia (territorio danese ad ampia autonomia) mi sembra evidente che l’America First della conduzione Trump non sia isolazionista, ma «imperiale globalista» nonostante la forte presenza dell’isolazionismo nella sua area di consenso, ma appunto convertito da una comunicazione tipo «salviamo i cristiani» e simili. Se così, mi chiedo quali e quanti alleati servano all’America per (ri)fare impero, valutando improbabile (pensiero controllato con diversi think tank statunitensi) che possa riuscirci senza alleanze: avrà bisogno di tante alleanze. Non con l’Ue, al momento, ma con nazioni europee e del G7 compatibili sì. L’ipotesi, poi eliminata, di includere la Russia nuovamente nel G8 entro un’azione di riduzione del potere globale cinese, fa ipotizzare che l’America cercherà alleanze diverse da quelle tradizionali basate sulla convergenza di Stati democratici. In sintesi, nella discontinuità di un cambio di mondo è osservabile la continuità del modello imperiale statunitense: una forma stellare come relazione tra un astro grande e tanti pianeti più piccoli, non permettendo a questi di unirsi per formare un aggregato maggiore. Siamo in fase di metastabilità dove lo scenario può prendere direzioni diverse, ma, pensando all’Italia, i vettori probabilistici più convenienti mi sembrano chiari:
Aggiornamenti, buon 2026.
La Nigeria prova a rafforzare il proprio dispositivo militare contro il jihadismo armato e si rivolge agli Stati Uniti per colmare un deficit operativo che da anni compromette la sicurezza del Nord del Paese. Il presidente Bola Tinubu ha confermato l’ordine di quattro elicotteri d’attacco di fabbricazione americana, chiarendo però che le consegne richiederanno tempo. Proprio per ridurre questo vuoto temporale, Abuja ha avviato canali paralleli anche con la Turchia (molto attiva nell’area), nel tentativo di accelerare l’accesso a capacità aeree considerate cruciali nella lotta ai gruppi jihadisti. La mossa arriva mentre cresce la pressione internazionale.
Venerdì scorso il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato di aver autorizzato un raid aereo contro obiettivi dell’Isis in Nigeria, accusando apertamente i miliziani di condurre una campagna sistematica di violenze contro le comunità cristiane. Il governo nigeriano ha risposto rivendicando una «cooperazione strutturata in materia di sicurezza» con i partner internazionali, Stati Uniti compresi, sostenendo che le operazioni più recenti abbiano colpito con precisione infrastrutture terroristiche. Un messaggio diretto a Washington, dopo mesi di dichiarazioni aggressive di Trump, che già in autunno aveva evocato un possibile intervento diretto per difendere i cristiani nel Paese più popoloso dell’Africa. Sul terreno, però, la minaccia jihadista non si è certo esaurita con la dissoluzione di Boko Haram. Nel Nordest della Nigeria il baricentro del conflitto si è spostato sull’Iswap, la provincia dell’Africa Occidentale dello Stato islamico, divenuta l’attore armato dominante dopo la morte di Abubakar Shekau nel 2021 e il collasso della fazione storica.
Questa evoluzione si riflette anche nella scelta dei bersagli. Iswap non agisce in modo casuale: punta a gestire rotte locali, imporre tributi alle comunità rurali e sfruttare l’assenza dello Stato. Le sue operazioni colpiscono basi militari, convogli dell’esercito e villaggi considerati ostili o collaborativi con le autorità. In questo quadro, le comunità cristiane risultano tra le vittime principali della violenza jihadista. Negli Stati di Borno, Yobe e Adamawa, gli attacchi sono spesso diretti proprio contro insediamenti cristiani, con uccisioni mirate, incendi di chiese e abitazioni, e azioni volte a svuotare intere aree, favorendo sfollamenti forzati e alterando gli equilibri demografici locali. Iswap ha inoltre affinato la propria strategia militare e comunicativa. Evita, quando possibile, le stragi indiscriminate di musulmani che avevano isolato Boko Haram anche sul piano locale, preferendo un approccio più selettivo: violenza mirata, intimidazione e controllo attraverso la paura. Questa linea ha reso il gruppo più resiliente e capace di operare su scala regionale, con ramificazioni attive anche in Niger, Ciad e Camerun, mantenendo al tempo stesso una pressione costante sulle minoranze cristiane. A complicare la risposta di Abuja non c’è però solo la forza di Iswap. Un fattore decisivo resta la corruzione endemica nelle forze armate. Analisti e fonti di sicurezza segnalano da anni la dispersione di fondi destinati a equipaggiamenti e logistica, mentre i soldati schierati in prima linea denunciano carenze di munizioni, mezzi e stipendi. In più occasioni reparti hanno abbandonato le posizioni o evitato il confronto, lasciando villaggi - spesso cristiani - esposti agli attacchi. Collusioni, traffici illeciti e la vendita di armi sul mercato nero hanno ulteriormente indebolito l’apparato militare, contribuendo indirettamente alla capacità di Iswap di rifornirsi e riorganizzarsi. La corruzione mina anche il morale delle truppe e rafforza la narrativa jihadista, che descrive lo Stato come inefficiente e predatorio. Finché Abuja non affronterà in modo strutturale questo nodo - dalla catena di comando alla gestione dei fondi per la difesa - l’acquisto di nuovi elicotteri e il sostegno internazionale rischiano di restare del tutto insufficienti.
A proposito delle decennali contestazioni di contiguità con il terrorismo di Hamas, con La Verità, due anni fa, l’architetto giordano Mohammad Hannoun si era infastidito: «Tutte le accuse che provengono da Israele non mi fanno né caldo, né freddo perché si tratta di un criminale che accusa una persona civile come me di terrorismo. Io non ho mai lanciato un missile o una bomba, vivo da persona perbene. Il mio compito è smascherare la faccia criminale dell’entità sionista e questo lo farò per sempre». L’ordinanza di custodia cautelare in carcere che lo ha raggiunto ieri racconta, però, tutta un’altra storia. Dietro al professionista (in)sospettabile si nascondeva un militante che conosceva da dentro il mondo di Hamas e lo finanziava a colpi di milioni di euro.
Addirittura ha fondato e guidato a Genova la sua Ong dal nome pacioso (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) con un compagno, Osama Alisawi, che ha fatto carriera, diventando ministro dei Trasporti a Gaza nel governo di Hamas.
Nell’ordinanza il giudice Silvia Carpanini sostiene che si sia «senz’altro concretizzato un grave quadro indiziario circa l’appartenenza di Hannoun al Movimento terroristico Hamas cui partecipa quale vertice della cellula italiana, che si identifica con l’Abspp cui è a capo». Per l’indagato i pm avevano già chiesto l’arresto più di quindici anni fa. Ma adesso le prove contro di lui sarebbero molto più solide. Il gip rimarca i «plurimi riferimenti ad Hamas fatti dagli stessi indagati e dai loro familiari» e numerose sarebbero anche «le situazioni che emergono dalle intercettazioni e dai documenti acquisiti che collegano Hannoun a figure di spicco di Hamas, in un rapporto di collaborazione che si protrae ormai da parecchi anni».
Nell’ordinanza la toga cita la conversazione in cui l’indagato per terrorismo spiega alla figlia che cosa sia la baiyaa, il giuramento obbligatorio per entrare in Hamas.
I magistrati non sanno se Hannoun lo abbia pronunciato, ma nella spiegazione data alla ragazza l’uomo mostra di essere ferrato sull’argomento e definisce se stesso, sebbene solo a titolo di esempio, «“il responsabile di Hamas” presso cui l’aspirante associato dovrebbe fare la sua baiyaa».
Per il gip «la posizione di vertice in Italia di Hannoun fa sì che egli sia in relazione diretta con gli omologhi nei diversi Paesi europei, ossia con i massimi esponenti dell’organizzazione all’estero (in Olanda, Austria, Francia, Gran Bretagna), nonché con il vertice europeo (prima della sua probabile fuga in Turchia) Majed Al Zeer».
Procura e Tribunale ritengono «significativi per valutare l’appartenenza di Hannoun ad Hamas» i suoi contatti con i leader del movimento. Già nel 2001 l’indagato aveva ottenuto un intervento telefonico del leader e fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, a un convegno organizzato a Torino.
Ma gli inquirenti hanno raccolto la prova di contatti approfonditi anche con i già citati Alisawi e Al Zeer, ma anche con altri pezzi da novanta come Kamel Abu Madi e l’ex capo politico dell’organizzazione, ucciso dagli israeliani nel 2024: Ismail Haniyeh.
La conoscenza con quest’ultimo «è stata ampiamente documentata nel corso delle indagini». Per esempio in un’intervista televisiva lo sceicco giordano Riyad Adbelrahim Jaber Albustanji (anche lui raggiunto dall’ordine di arresto), con a fianco Hannoun, aveva dichiarato di essersi recato insieme con l’architetto presso la casa di Haniyeh, definito «nostro comandante, nostro emiro». Quindi aveva portato ad esempio «le donne di Gaza» che «educano i loro figli al Jihad e al martirio e all’amore per la Palestina». Per le toghe un «messaggio indicativo di quale sia l’ideologia che muove tali soggetti». Il tutto al fianco di un taciturno Hannoun. Il quale, però, lontano dalle telecamere, in un’intercettazione, annunciava alla moglie di avere in programma un incontro a Istanbul proprio con l’allora capo dell’Ufficio politico di Hamas: «Mi hanno detto che vogliono vedermi...andrò a vedere Ismail…».
Sono molti gli indizi che, a giudizio della Carpanini, dimostrerebbero, a prescindere dall’ingente massa di denaro garantita ad Hamas (documentata in modo dettagliato dagli inquirenti), l’«adesione soggettiva» di Hannoun «al movimento e alle modalità di azione che permettono di caratterizzarlo come organizzazione terroristica».
Tra il 2002 e il 2003, lui e il fratello Said «festeggiano telefonicamente» diversi attentati contro cittadini inermi: tre attacchi suicidi su autobus (con un bilancio di oltre cinquanta civili morti, tra cui molti bambini) e un altro al bar universitario di Gerusalemme (nove vittime). Nel 2013 la polizia israeliana arresta il nipote di Hannoun, Muhammad Awad, con l’accusa di essere un finanziatore di Hamas. Il giovane confessa alla polizia israeliana di «aver ricevuto dallo zio i contatti telefonici di almeno un paio di uomini di Hamas» appena usciti di prigione e che «si occupano dello stipendio dei prigionieri di Hamas e delle famiglie dei martiri e delle borse di studio degli universitari per conto dell’organizzazione».
Ad Hannoun, su Facebook, scappa la frizione: «Mohammad Awad è un eroe! È un libero dei liberi della Palestina! Mohammad Awad è uno dei Leoni di Hamas! Gloria e onore per Mohammad Awad e per i suoi genitori! Onore a coloro che innalzano in alto la bandiera verde (di Hamas, ndr). Io sono fiero e orgoglioso di essere lo zio materno».
Nonostante Hannoun, con il tempo, abbia iniziato a essere più prudente, gli investigatori hanno trovato riscontri recenti alle accuse.
Per esempio è stato pizzicato mentre, da solo in auto, ascolta un canto religioso islamico (nasheed) che esalta gli attentati suicidi delle Brigate Al-Qassam.
Nelle cuffie degli investigatori sono entrate anche le parole di una canzone che «inneggia ad Hamas e alla morte attraverso il martirio» e di una che celebra la strage di israeliani del 7 ottobre 2023. In un’ulteriore intercettazione l’architetto «pacifista» dichiara, parlando con la moglie, che il loro compito «è fare la Jihad». Il 4 giugno 2024, riferendosi alla nuova associazione Cupola d’oro, spiega che questa è «destinata a sostituire l’Abspp che «però viene mantenuta in quanto fa parte della “lotta”».
Durante le indagini, nel cellulare di Hannoun sono state reperite numerose immagini, che, secondo il gip, «denotano in modo inequivoco quanto meno la condivisione dell’ideologia di Hamas e del suo modus operandi». Foto di «martiri e combattenti», riferimenti ad Hamas, alle Brigate Izz al-Din al-Qassam e ai leader del movimento, bambini in uniforme con maglie di Hamas, una richiesta di donazioni per le famiglie bisognose di Gaza con il logo di Hamas, inviti a partecipare a eventi delle Brigate Al Qassam e di Hamas, per esempio all’anniversario della fondazione del movimento e alla «commemorazione del martire Mohamed Zouari», un ex ingegnere aerospaziale tunisino che collaborava con i terroristi.
Nel medesimo archivio fotografico gli investigatori hanno scovato altri scatti che a giudizio del gip «documentano la rete relazionale e il pieno inserimento di Hannoun all’interno dell’organizzazione terroristica». Quali? Hannoun sotto lo striscione di Hamas; Hannoun (anche con moglie e figlia) in compagnia di alti esponenti dell’organizzazione terroristica come il già citato Haniyeh, Ali Baraka, Osama Hamdan e Khalil al-Hayya, per un periodo vice di Yahya Sinwar, altro capo politico dell’organizzazione terroristica ucciso dagli israeliani.
Altri scatti documentano il viaggio di Hannoun a Gaza a fine novembre 2011 in occasione degli accordi di Wafa Al-Ahrar. Ritraggono il sessantatreenne giordano sul palco degli organizzatori insieme con Alisawi e il vice ministro dell’Interno di Hamas Kamel Abu Madi. Negli scatti l’indagato è «a braccetto o comunque in atteggiamenti che denotano vicinanza e confidenza» anche con altre «figure di rilievo» come il solito Haniyeh o Ziad Zaza, «già ministro di Hamas deceduto per Covid nel 2022 e il cui corpo al funerale è stato avvolto nella bandiera delle Brigate Al Qassam».
Dalle tracce lasciate su cellulari e pc emerge un ulteriore faccia a faccia con Haniyeh che sarebbe avvenuto nel 2024. Agli atti dell’inchiesta è finito anche un messaggio vocale che l’architetto giordano ha inviato nel maggio del 2024 al leader che da lì a poco sarebbe stato ucciso.
Interessante pure la foto che ritrae Hannoun insieme con Amr Alshawa di passaggio in Liguria. Hannoun gli ha fatto da guida a Genova e a Portofino nel gennaio del 2023. È opportuno ricordare che il governo americano, nell’ottobre dello stesso anno, ha offerto un premio sino a dieci milioni di dollari a chi fornisca informazioni utili su Alshawa, indicandolo quale finanziatore di Hamas.
Nella sua ordinanza la Carpanini cita pure una foto del settembre 2021 realizzata durante la presentazione di un’iniziativa di Hamas a sostegno dei prigionieri palestinesi.
Nelle carte c’è anche una chat del 2016 in cui Hannoun commenta con Alisawi e Albustanji la morte di sette appartenenti alle Brigate Al Qassam a seguito del crollo di un tunnel in costruzione a Gaza.
Hannoun scrive: «Sacrificano i loro figli e i loro giovani per la nostra dignità e i nostri luoghi sacri, proteggiamo almeno le loro spalle e alleviamo il loro dolore».
Alisawi replica: «Gaza offre il meglio della sua gioventù... i sette astri non sono il primo sacrificio e non saranno l’ultimo, ma sono parte di un sistema integrato di preparazione totale che inizia con la parola e non finisce con i tunnel e i missili. È la marcia di preparazione alla liberazione».
Sembra di sentire Hannoun, che a noi aveva detto, a proposito del sanguinario attacco del 7 ottobre: «Noi ci atteniamo al concetto di Resistenza prevista dalla legalità internazionale […] abbiamo imparato dalla Resistenza italiana ed europea». E aveva aggiunto che chi «rimane nella terra altrui», non può «lamentarsi di venire colpito dai combattenti della Resistenza». Oggi scopriamo che quelle non erano le parole di un palestinese arrabbiato, ma impegnato in opere di beneficenza. No, quelli, per i magistrati genovesi, erano gli slogan di un militante di Hamas.

