2022-12-11
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: apparecchiare per Natale
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La guerra tra Russia e Ucraina ha già un vincitore: le grandi aziende della Difesa. Il Financial Times ha stimato che i colossi europei, quest’anno, distribuiranno in dividendi agli azionisti la bellezza di 5 miliardi di dollari, poco meno di 4 miliardi e mezzo di euro.
Il quotidiano britannico ha commissionato il calcolo al Vertical research partners, che ha misurato la crescita delle quote destinate agli investitori a partire dallo scoppio delle ostilità nell’Est. La tendenza che si registra nel Vecchio continente è opposta a quella osservabile Oltreoceano: negli Stati Uniti, i guadagni degli stakeholder hanno raggiunto un picco decennale nel 2023, ma poi sono precipitati insieme agli investimenti.
È il motivo per cui l’amministrazione Trump ha invitato le compagnie a spendere per la produzione, anziché per il giochetto finanziario del buyback, l’operazione con cui un’azienda riacquista azioni proprie, già in circolazione sul mercato, allo scopo di sostenerne il prezzo e restituire valore ai soci.
Di certo, nel boom europeo, hanno giocato e giocheranno un ruolo importante i piani di riarmo caldeggiati da Ursula von der Leyen, anche se la crescita più imponente delle remunerazioni, quest’anno, riguarda Bae systems, il colosso inglese dell’aerospazio, che con Italia e Giappone realizzerà il caccia multiruolo stealth di sesta generazione.
Il fattore trainante, comunque, è stato da subito il conflitto nel Donbass: dal 2022, la percentuale di investimenti delle società europee, misurata in rapporto al fatturato, è passata dal 6,4 al 7,9. Eppure, il crescente volume di spesa pubblica destinata alla difesa potrebbe rappresentare una controindicazione, per chi sguazza nell’affare d’oro e vorrebbe continuare a nuotarci più a lungo possibile: gli esperti sentiti dal Financial Times hanno notato che, se le somme sborsate dagli Stati salgono, «dati gli impegni di spesa annunciati dai governi, essi potrebbero diventare più coinvolti» nelle politiche industriali dei big del settore. La mano pubblica è croce e delizia: imprime una spinta decisiva al business; ma pretenderà di mantenere voce in capitolo sulla sua direzione.
Le proiezioni del giornale economico londinese confermano quali sono gli obiettivi del programma di riconversione produttiva perseguito dall’Ue. Era urgente, infatti, porre rimedio al rischio di desertificazione industriale, provocato dal Green deal. In sostanza, Ursula 2 mette una pezza su Ursula 1. Le convergenze all’Europarlamento tra sovranisti e popolari stanno, in parte, stemperando gli aspetti più estremi della transizione ecologica. Il danno, però, era fatto. Ora, le imprese messe in crisi dai diktat verdi potranno recuperare i benefici perduti buttandosi sugli armamenti. Si potrebbe sorvolare, se il processo garantisse un incremento dei redditi e se non comportasse rischi esistenziali. Tuttavia, non è detto che i posti di lavoro che andranno perduti, ad esempio, nell’automotive - il caso più eclatante riguarda le chiusure di impianti decise da Volkswagen - saranno riassorbiti dal comparto bellico, dove è più alta l’automazione e dove sono più specifiche le competenze richieste. Il risultato finale potrebbe essere questo: buon livello dei salari, sì, però per meno occupati; più profitti per i grossi gruppi; più dividendi per gli azionisti.
Per preparare il terreno, ovviamente, era fondamentale alimentare la retorica marziale che, ormai, infiamma tutti i discorsi degli eurocrati, dalla Von der Leyen stessa, a Kaja Kallas, ai diversi leader dei Paesi membri dell’Unione. Ed è qui che entra in ballo la variabile del pericolo mortale: a furia di scherzare con il fuoco, ci si può bruciare. Quella della guerra con la Russia potrebbe diventare una profezia che si autoavvera. È il famoso dilemma della sicurezza: l’effetto paradossale del riarmo non è di proteggere chi si trincera, bensì di rendere il mondo complessivamente meno sicuro, poiché aumenta la chance di incomprensioni e incidenti tra potenze rivali.
Nel discorso di commiato dalla nazione, il 17 gennaio 1961, il presidente Usa, Dwight Eisenhower, mise in guardia i cittadini dalle insidie del «complesso militare-industriale», che sarebbe stato in grado di esercitare una «influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità», minacciando «la struttura portante» della società. Oggi, quello scenario si va ricostituendo sotto i nostri occhi. Con tanto di marginalizzazione del dissenso, come denunciato dal Papa: chi non infila l’elmetto viene ridicolizzato, o accusato di intelligenza col nemico. Non mancano nemmeno i dotti editoriali, nei quali si glorifica la guerra quale motore della Storia. Sessantacinque anni fa, «Ike» individuava l’antidoto alla degenerazione in un popolo «all’erta e consapevole». Non ci si può aspettare che vigili chi incassa grazie allo spauracchio di Putin. È a noialtri, che tocca restare svegli.
All’indomani dell’incontro vis-à-vis tra il presidente americano, Donald Trump, e l’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Mar-a-Lago, sia i diretti protagonisti della guerra che i mediatori americani hanno annunciato che la pace è vicina, nonostante gli importanti nodi irrisolti. Ma si tratta di una visione che è durata poche ore. Si è aggiunto infatti un nuovo elemento che complica ulteriormente il quadro dei negoziati: Mosca ha accusato Kiev di aver lanciato 91 droni, tutti abbattuti, contro la residenza del presidente russo, Vladimir Putin, nella regione di Novgorod. Ne è seguito un botta e risposta tra il Cremlino e l’Ucraina, con Zelensky che ha smentito, sostenendo che si tratti di «tipiche bugie russe» per «avere una giustificazione per continuare gli attacchi contro l’Ucraina» e «per rifiutarsi di compiere i passi necessari per porre fine alla guerra». La conseguenza più rilevante è che, come comunicato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, «la posizione negoziale della Russia sarà rivista». Mosca ha inoltre già scelto i target ucraini «per gli attacchi di rappresaglia». Va però detto che Lavrov ha comunque affermato che Mosca non intende ritirarsi dalle trattative di pace.
Alla notizia del presunto raid ucraino è seguita una nuova telefonata tra Trump e Putin che sarebbe stata «positiva» secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. In merito al tentato attacco contro la residenza dello zar, secondo quanto rivelato dal consigliere presidenziale russo, Yurij Ushakov, Trump è rimasto «scioccato e indignato»: «Non mi è piaciuto l’attacco ucraino, me lo ha detto Putin, mi sono arrabbiato», ha dichiarato il tycoon, «Una cosa è essere all’offensiva, un’altra cosa è attaccare la sua casa. Non va bene, non è il momento giusto». Ushakov ha anche precisato che l’episodio «certamente influenzerà l’approccio americano alla collaborazione con Zelensky, al quale l’attuale amministrazione, come ha detto lo stesso Trump, grazie a Dio, non ha dato il Tomahawk». La telefonata tra i due leader è stata anche l’occasione per il presidente americano di informare l’omologo russo sui risultati raggiunti con Zelensky. Ma pare che i progressi ottenuti in Florida non abbiano suscitato una reazione positiva da parte del Cremlino. Ushakov ha infatti dichiarato che nonostante «i risultati vadano proprio nella direzione della risoluzione», «lasciano alle autorità di Kiev un margine di interpretazione per eludere l’adempimento dei propri obblighi». E ha aggiunto che «la parte americana», durante i colloqui con l’Ucraina, «ha avanzato in modo aggressivo l’idea della necessità che Kiev adotti misure concrete per una soluzione definitiva del conflitto», chiedendo «di non nascondersi dietro richieste di un cessate il fuoco temporaneo».
Prima dell’ultimo colpo di scena, il leader di Kiev, dopo l’incontro con il tycoon, ha affermato che «il piano di 20 punti è stato concordato al 90%» e il Cremlino si è mostrato concorde con la visione di Trump, secondo cui le trattative sono nella fase finale.
L’ostacolo sempreverde che impedisce la svolta concreta rimane il nodo territoriale, oltre alla gestione della centrale di Zaporizhzhia. Domenica, il presidente americano, riconoscendo che restano sul tavolo «una o due questioni spinose» da risolvere, ha lanciato di persona l’avvertimento a Zelensky: «Conviene raggiungere un accordo» visto che «alcune terre sono già state prese» da Mosca e altre «potrebbero esserlo nei prossimi mesi. D’altronde, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito che la fine della guerra ci sarà solo con il ritiro di Kiev «oltre i confini amministrativi del Donbass». Dall’altra parte il presidente ucraino non ha intenzione di gettare la spugna: in un’intervista rilasciata a Fox News ha dichiarato che «l’85%» del popolo «è contrario al ritiro delle truppe dal Donbass». Eppure, l’opinione degli ucraini cambia in base al luogo in cui vivono: chi si trova nell’Est del Paese è più propenso a scendere a compromessi. A spiegarlo a Rbc-Ukraine è stato il capo del Rating sociological group, Oleksii Antypovych: «Più si va a Ovest e più forte è la resistenza a qualsiasi concessione territoriale; più si va a Est e maggiore è la disponibilità ad accettarle». Ciò è legato alla linea del fronte: chi vive vicino, stremato dalla guerra, è favorevole a cedere i territori pur di vedere la fine delle ostilità.
Se sui territori prosegue lo stallo, i maggiori risultati dell’incontro di domenica tra Trump e Zelensky si sono registrati nell’ambito delle garanzie di sicurezza. A detta del leader ucraino, Kiev e la Casa Bianca sono «d’accordo al 100% sulle garanzie di sicurezza e sulla dimensione militare». Ciononostante, Zelensky non sarebbe pienamente soddisfatto dalla proposta americana. In uno dei documenti inerenti alla pace in Ucraina, Washington si impegna infatti a fornire le garanzie di sicurezza per un periodo di 15 anni che può essere prolungato. Si tratta di un tempo insufficiente per Zelensky, che quindi ha richiesto a Trump la possibilità di estendere le garanzie di sicurezza «di 30, 40 o 50 anni». E nonostante il leader di Kiev abbia ripetuto che «la presenza di truppe internazionali sia una vera garanzia di sicurezza», sembra invece che il progresso più tangibile a tal proposito riguardi l’idea italiana sulle garanzie simili all’articolo 5 della Nato. In quest’ottica, per la prima volta, Kiev ha partecipato all’esercitazione Loyal Dolos 2025 che riguarda i meccanismi proprio dell’articolo 5 dell’Alleanza atlantica. Durante lo svolgimento, sono state integrate le lezioni apprese dalla guerra in Ucraina, con gli esperti di Kiev che sono stati direttamente coinvolti.
Le forze russe continuano a spingere lungo più direttrici del fronte ucraino mentre le unità di Kiev arretrano. È il quadro tracciato dal presidente russo Vladimir Putin al termine di una riunione con i vertici militari convocata al Cremlino per fare il punto sull’andamento delle operazioni. Secondo il capo dello Stato, «la liberazione del Lugansk e delle repubbliche popolari di Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson procede passo dopo passo», mentre «le forze armate ucraine si stanno ritirando lungo l’intera linea di contatto». Putin ha rivendicato in particolare i progressi del raggruppamento di forze Vostok nella regione di Zaporizhzhia. «Dopo l’attraversamento del fiume Gaichur, le nostre truppe hanno sfondato le difese nemiche e avanzano rapidamente in direzione di Zaporizhzhia», ha affermato, sostenendo che le operazioni si stiano svolgendo «in piena conformità con il piano operativo militare». Il presidente ha inoltre sollecitato i comandi a «contrastare con decisione» ogni tentativo ucraino di interferire sull’asse di Kupyansk, assicurando che «le misure necessarie sono già in atto». Nel corso della stessa riunione, Putin ha ribadito l’intenzione di proseguire anche nel 2026 il lavoro per «allargare la zona di sicurezza» lungo il confine russo-ucraino. «È un compito di fondamentale importanza, perché garantisce la sicurezza delle regioni di confine della Federazione», ha sottolineato, precisando che si tratta di un obiettivo destinato a proseguire nel tempo.
A rafforzare la narrazione del Cremlino è intervenuto il capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Secondo il generale, l’esercito ucraino avrebbe ormai rinunciato a operazioni offensive su larga scala, limitandosi a «tentare di rallentare l’avanzata delle truppe russe». Nell’ultimo anno, ha spiegato, 334 insediamenti sarebbero passati sotto il controllo di Mosca e, nel solo mese di dicembre, oltre 700 chilometri quadrati sarebbero stati «liberati». Nel bilancio complessivo del 2025, Gerasimov ha parlato di 6.640 chilometri quadrati conquistati e di 32 località occupate dall’inizio di dicembre, definendo il dato mensile «il più alto dall’inizio dell’anno». Intanto, la guerra si è fatta sentire anche sul territorio russo. Nella notte sono state segnalate esplosioni in diverse località, attribuite ad attacchi con droni lanciati da Kiev contro obiettivi militari e infrastrutturali. Secondo quanto riferito da media indipendenti, forti detonazioni sono state udite nei pressi della base aerea di Khanskaya, vicino a Maykop, nella Russia meridionale. Sirene antiaeree avrebbero risuonato anche nell’oblast di Tula, mentre un’altra esplosione è stata segnalata nella regione di Krasnodar. Nella regione di Samara, invece, sarebbe stata colpita la raffineria di Syzran. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver abbattuto complessivamente 89 droni ucraini nel corso della notte. Sul fronte ucraino, mentre il presidente è impegnato in una delicata missione diplomatica, l’analisi della situazione viene affidata ai vertici dell’apparato di sicurezza. Kyrylo Budanov, capo del Direttorato principale dell’intelligence militare, ha delineato uno scenario che non contempla uno stop immediato del conflitto. Secondo le sue valutazioni, almeno un altro mese di guerra appare inevitabile, senza sostanziali cambiamenti nel copione bellico, segnato nelle ultime 48 ore da intensi raid russi. Febbraio, tuttavia, potrebbe rappresentare una svolta. «È il periodo più favorevole sia per la Russia che per l’Ucraina per ottenere qualcosa», ha spiegato, collegando questa finestra temporale sia all’andamento delle operazioni militari sia al fattore stagionale, con l’inverno ormai verso la fine.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa del 30 dicembre con Carlo Cambi
Sulle date del referendum è chiaro scontro. Ancora non aperto, silente piuttosto, ma reso palese dall’esito del consiglio dei ministri di ieri quando si sarebbero dovute stabilire le due date del voto. «Non si è parlato della data per il referendum della giustizia», ha confermato uscendo, il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci. L’indecisione non è dovuta a uno scontro interno alla maggioranza, certo, ma tra Palazzo Chigi e il Quirinale. L’esecutivo vorrebbe andare al voto il prima possibile forte di sondaggi che darebbero al sì, 10 punti di distacco sul no. I magistrati, con il loro capo, Sergio Mattarella, che da presidente della Repubblica presiede anche il Csm, vorrebbero prendere tempo per provare a influenzare l’opinione pubblica verso il no, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore attendere l’esito di qualche inchiesta che potrebbe portare acqua al loro mulino. Ad ogni modo la scelta dei giorni, che si sarebbe dovuta prendere il 22 dicembre scorso, dovrebbe arrivare a gennaio. Una volta stabilite le date da Palazzo Chigi, il decreto dovrà passare per la firma del Quirinale e da lì devono passare sessanta giorni per andare alle urne. Non meno. Per questo slitta inevitabilmente l’ipotesi di votare il 1° e il 2 marzo come precedentemente ipotizzato.
«Ne parleremo a inizio gennaio, non c’è ancora nessun accordo» ha risposto il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani ai cronisti alla Camera chiarendo: «Bisogna farlo, abbiamo sessanta giorni». In base alla legge 352 del 1970, il referendum dev’essere indetto «entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso». Ma le opposizioni si sono appigliate ad una prassi che prevede che il governo, prima di convocare il voto, debba aspettare tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, avvenuta in questo caso il 30 ottobre. Quindi non prima del 30 gennaio. Più tempo per raccogliere le firme e tentare di far slittare il voto.
Quelli del no, dalle opposizioni ai magistrati, parlano di blitz dell’esecutivo, ma verrebbe da pensare il contrario osservando come si sia messa in moto una vera e propria macchina per impedire che si vada al voto prima di metà aprile. Come scrive lo stesso fattoquotidiano.it «la leva per allungare i tempi e provare a informare e coinvolgere maggiormente l’elettorato è rappresentata da una raccolta firme avviata da un gruppo di 15 cittadini che hanno presentato un nuovo quesito già ammesso dalla Cassazione. Questa novità potrebbe evitare la forzatura a cui sta lavorando il governo. A favore della raccolta firme si sono schierati i principali partiti del centrosinistra. A partire dal Pd che con la sua segretaria Elly Schlein ha invitato i cittadini alla sottoscrizione». I primi sondaggi, effettuati negli ultimi mesi, danno un vantaggio di dieci punti al sì, quindi all’approvazione del provvedimento. Tuttavia gli indecisi sono così tanti (quasi la metà degli aventi diritto al voto) da non poter essere certi del risultato. Insomma tutto può succedere e la sinistra lo sa bene.
Nel frattempo ieri si sono riuniti alla Camera la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente M5s, Giuseppe Conte, e i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli proprio per parlare di referendum. All’incontro, guarda caso, ha preso parte anche il presidente del comitato referendario per il no che riunisce giuristi, giudici, avvocati e società civile, Giovanni Bachelet. Se la maggioranza sta pensando a un blitz, la sinistra se non altro sta palesemente lavorando al contro blitz. «Ci mettiamo a disposizione per dare una mano al Comitato nella campagna in cui ci saremo anche noi contro la riforma Nordio. Lavoreremo per coordinare gli sforzi e farli convergere in questi mesi di lavoro. Siamo contenti dell’incontro e molto disponibili a lavorare», il commento di Schlein al termine.
«Mi sembra che si prepari una bella campagna sinfonica di tutti i protagonisti del no, quelli che lo hanno fatto in Parlamento e i cittadini che vogliono difendere le proprie garanzie di “legge uguale per tutti”», così Bachelet. «Il 10 gennaio», aggiunge, «faremo una manifestazione per lanciare l’inizio della campagna elettorale e abbiamo anche lì invitato tutti i partiti del no». Sulla data del referendum, commenta: «Devono scegliere d’intesa il governo e il presidente. Finora non l’hanno fatto, ma io sono fiducioso che verrà fatta una scelta equilibrata». Bonelli ha spiegato che «bisogna avere attenzione sulla partecipazione dei cittadini»
Quello che emerge dai fatti è che da Palazzo Chigi non si intende andare allo scontro, ma allo stesso tempo si vuole evitare di cedere a chi vorrebbe votare a maggio. La trattativa con il Colle non è chiusa, ma serviva rinunciare all’ipotesi 1 e 2 marzo per aprire un dialogo costruttivo. Il governo lo ha fatto, ora spera che entro gennaio si trovi l’accordo per andare al voto il 22 e il 23 marzo. Ma per ora non ci sarebbe alcuna garanzia. Infine va ricordato che il 5 aprile cade la Pasqua. Un bell’impiccio per il voto e per la campagna referendaria.
Una seduta fiume notturna per esaminare tutti gli ordini del giorno, quasi 250, con relativa illustrazione. È l’ultimo atto della legge di bilancio 2026 che avrà il voto finale oggi entro le 13 dopo la fiducia posta dal governo Meloni.
Tra i 95 ordini del giorno del giorno depositati ieri dalla maggioranza nell’aula della Camera c’è anche quello dell’onorevole Andrea Di Giuseppe che punta a modificare le modalità di voto per gli italiani all’estero dopo lo scandalo patronati denunciato alla Procura di Roma. L’esponente di Fdi eletto all’estero aveva denunciato, già tre anni fa, che la regolarità elettorale degli italiani residenti in Centro e Nord America era minacciata dal rischio di brogli elettorali che potrebbero ripetersi anche in occasione del prossimo referendum sulla giustizia. Nel 2022 Di Giuseppe, dopo aver spedito materiale elettorale in modo casuale, aveva scoperto che una buona parte degli iscritti nell’elenco degli italiani residenti all’estero negli Usa, almeno un terzo, era deceduto. Eppure le schede elettorali continuavano a essere spedite e probabilmente intercettate da una o più organizzazioni intenzionate a condizionare il voto per favorire alcuni candidati a scapito di altri. I patronati sarebbero stati coinvolti perché a loro si rivolgerebbero molti italiani desiderosi di votare regolarmente, pagando profumatamente anziché essere assistiti gratuitamente.
L’odg presentato da Di Giuseppe mira ad abolire il voto per corrispondenza e ad impegnare il governo ad istituire le sezioni elettorali presso ambasciate e consolati per consentire ai cittadini di votare in presenza. Ha espresso soddisfazione per questo odg l’ex leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Questo odg nasce da una specifica richiesta che, con il Comitato Sì Separa, abbiamo fatto all’onorevole Di Giuseppe e ha come obiettivo quello di garantire un voto più trasparente in occasione del prossimo appuntamento referendario». L’ex magistrato infatti aveva denunciato il rischio brogli: «Si stanno già costituendo gruppi di persone, che hanno come riferimento specifici partiti e sindacati, che per controllare il voto preparano le buste contenenti voti espressi all’insaputa dei diretti interessati. Permettendo agli elettori di votare in presenza, con il proprio documento di identità, eviteremmo il rischio di brogli. Ora ci auguriamo che il Parlamento promuova rapidamente un provvedimento ad hoc».
Tornando alla manovra, la terza del governo di centrodestra, con 22,3 miliardi, tra 7,9 miliardi di tagli fiscali e maggiori spese per 14,4 miliardi, punta a tenere insieme tenuta economica, con la seconda riduzione Irpef e gli incentivi alle imprese, ed equilibrio dei conti pubblici aggiungendo anche una ministretta sull’accesso alla pensione. Un testo, dice Fratelli d’Italia, che «coniuga crescita, stabilità ed equità». Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti «l’ammontare complessivo, inizialmente pari a 18,7 miliardi, è salito perché con l’ultimo maxiemendamento abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi». Il ministro leghista ha però precisato: «Quello che vorrei sottolineare è che siamo intervenuti su questioni che sembravano quasi impossibili. La tassazione solo al 5% degli aumenti contrattuali era qualcosa che veniva chiesto da sempre dai sindacati e l’abbiamo fatto peri lavoratori dipendenti con redditi più bassi. La tassazione all’1% dei salari di produttività credo anche che sia sintomatica della direzione verso cui si deve andare. Quindi un bilancio positivo che dimostra come tutto il governo sostiene questa linea che abbiamo impostato tre anni fa».

