2024-08-30
Il funzionario che censurò Facebook ora è il braccio destro della Harris
Kamala Harris, candidato democratico in corsa per la Casa Bianca. Nel riquadro, Rob Flaherty, il censore (Ansa)
Rob Flaherty, fra i dipendenti della Casa Bianca che misero sotto pressione i social per far rimuovere notizie sgradite sul Covid, è stato scelto da Kamala Harris come vice manager della sua campagna presidenziale.Spunta un legame diretto tra Kamala Harris e la censura, promossa dall’amministrazione Biden, sui social network. Come noto, Mark Zuckerberg ha recentemente ammesso, non senza rammarico, che nel 2021 l’attuale Casa Bianca effettuò pressioni su Facebook affinché censurasse i contenuti sgraditi sulla pandemia di Covid-19. In particolare, l’ad di Meta ha raccontato tutto in una lettera, indirizzata al presidente della commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti, Jim Jordan. Già tale missiva, di per sé, dimostra le responsabilità della Harris in questa controversa vicenda, essendo la diretta interessata, allora come oggi, vicepresidente all’interno dell’amministrazione Biden. Tuttavia adesso è emerso un ulteriore collegamento. Sì, perché, secondo documenti pubblicati a maggio in un rapporto della commissione Giustizia della Camera, tra i funzionari che si attivarono per mettere sotto pressione i colossi del web c’era Rob Flaherty: all’epoca direttore della strategia digitale della Casa Bianca, costui attualmente è, secondo Politico e il suo stesso profilo X, vice manager della campagna presidenziale della Harris.A febbraio 2021, su richiesta dell’amministrazione Biden, Facebook inviò un’email in cui enumerava i «temi di disinformazione sul Covid» rilevati sulla piattaforma. Flaherty rispose, scrivendo: «Potete darci un’idea del volume relativo a questi temi e dei parametri sulla scala di rimozione per ciascuno? Potete anche darci un’idea della disinformazione che potrebbe non rientrare nelle vostre politiche di rimozione?». Il mese dopo, Facebook tenne un briefing con Flaherty, spiegandogli come stava affrontando i contenuti sul Covid che non violavano le sue politiche. «Tuttavia le note della telefonata rivelano che, durante il meeting, Flaherty continuava soprattutto a fare domande sulla rimozione e la riduzione dei contenuti», si legge nel rapporto. Sempre a marzo 2021, in un altro incontro con Facebook, Flaherty chiese se la piattaforma stesse facendo abbastanza per ridurre il traffico del New York Post. Non solo. Il 14 aprile 2021, il diretto interessato inviò un’email ai vertici di Menlo Park, lamentandosi del successo di un post scettico sui vaccini, pubblicato dal giornalista conservatore Tucker Carlson. «Se “riduzione” significa inondare il nostro pubblico titubante sui vaccini con Tucker Carlson che dice che non funzionano, allora non sono sicuro che questa sia riduzione», tuonò. Ma non è finita qui. Pochi giorni dopo, Flaherty inviò infatti un’email a Youtube, chiedendo quale fosse il modo migliore per «reprimere la disinformazione sui vaccini».Insomma, le pressioni di Flaherty sui big del web quando era un funzionario della Casa Bianca sono innegabili. E adesso, dopo essere entrato nella campagna presidenziale di Joe Biden, il diretto interessato è passato in quella della Harris. Questo lascia intendere che, qualora vincesse le elezioni, la candidata dem, in materia di censura, non si discosterebbe probabilmente dal suo predecessore. D’altronde, la circostanza non stupisce più di tanto. Come già detto, la Harris è vicepresidente in carica: ragion per cui è comunque corresponsabile delle pressioni attuate dalla presente amministrazione americana. Come se non bastasse, si è scelta un vice, Tim Walz, che non sembra esattamente ben disposto verso la libertà di espressione. Intervistato da Msnbc nel 2022, il governatore del Minnesota disse: «Non c’è alcuna garanzia di libertà di parola sulla disinformazione o sull’incitamento all’odio, soprattutto quando si parla della nostra democrazia». Alla fine il problema è sempre lo stesso. Chi decide che cosa sia disinformazione e incitamento all’odio? Al di là di pochi casi oggettivi (come, per esempio, quello di offese o minacce esplicite), il rischio è che si identifichi come disinformazione o incitamento all’odio ciò rispetto a cui semplicemente si dissente. Il che è un rischio rilevante per una democrazia liberale.In questo senso, la lettera di Zuckerberg è illuminante: non solo l’ad di Meta ha ammesso di aver subito pressioni dall’amministrazione Biden-Harris sui contenuti relativi alla pandemia, ma ha anche reso noto di essere stato indirettamente spinto dall’Fbi a censurare, nell’ottobre 2020 e cioè a pochi giorni dalle ultime elezioni presidenziali, l’ormai famoso scoop del New York Post su Hunter Biden: uno scoop che fu bollato falsamente all’epoca come «disinformazione russa», a seguito di una lettera di 50 ex funzionari dell’intelligence americana (molti dei quali, guarda caso, appartenenti all’amministrazione Obama). Ebbene, l’anno scorso, l’ex direttore ad interim della Cia, nonché cofirmatario della controversa missiva, Michael Morell, ha raccontato alla Camera che quel documento venne redatto su input di Tony Blinken: quel Blinken che, nel 2020, era senior advisor della campagna presidenziale di Biden e della Harris. Una Harris che, a causa di Flaherty, sta adesso finendo sotto i riflettori sulla questione della censura. Il che potrebbe renderle ancora più difficile attrarre l’elettorato di Robert Kennedy jr, da sempre molto sensibile al tema della libertà di espressione. E, per la Harris, perdere quell’elettorato potrebbe rappresentare un enorme problema specialmente in Arizona e Wisconsin.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)