2024-03-05
Tutti pazzi per la pellicola sulle follie antirazziste (ma che non va fino in fondo)
«American Fiction», storia di un afroamericano che si ribella agli stereotipi «inclusivi» sui neri, miete consensi. Il film, però, chiede solo un politicamente corretto più raffinato.Non c’è dubbio che American Fiction - lungometraggio diretto da Cord Jefferson e candidato a un vasto assortimento di Oscar e Golden Globe - sia un film bellissimo, intelligente, divertente, sensibile e delicato. E non c’è dubbio che valga la pena vederlo ora che è disponibile per l’Italia su Amazon Prime. Tuttavia è al centro di un grande fraintendimento, a cui partecipano numerosi commentatori di destra e soprattutto di sinistra a proposito, del significato politico dell’opera. Al centro ci sono, è vero, le derive del politicamente corretto e la cosiddetta cultura woke (il romanzo di Percival Everett da cui è tratta la pellicola di intitola Cancellazione, e il riferimento è piuttosto evidente), cosa che ha esaltato i critici e dato il via a un interessante dibattito culturale negli Stati Uniti. Tuttavia questo film, che Oltreoceano ha incassato oltre venti milioni di dollari rivelandosi un successo strepitoso, contesta la fissazione anglosassone - purtroppo largamente importata in Europa - per l’identità e le questioni razziali da un punto di vista molto particolare e specifico, che costituisce la forza del film e contemporaneamente segna il suo limite. La trama è suggestiva. Il protagonista (interpretato dall’ottimo Jeffrey Wright) è lo scrittore nero Thelonious Ellison, personaggio emblematico se ce n’è mai stato uno. Soprannominato Monk (dal cognome del noto musicista), richiama alla mente il celebre romanziere Ralph Ellison, autore de L’uomo invisibile, uno dei capolavori della letteratura black. Non è un caso, ovviamente: Thelonious Ellison si sente in effetti invisibile, e questa invisibilità è prodotta - come nel romanzo di Ralph Ellison - dal colore della sua pelle. Solo che il protagonista del film è invisibile perché non è abbastanza nero per i tempi che corrono. Egli si sforza di sfornare grande letteratura, opere che prescindano dalle sue origini e dalla comunità a cui appartiene, a cui non si sente nemmeno troppo legato. Solo che gli editori non se lo filano: vogliono un altro tipo di libri, non le sue raffinate rielaborazioni dei Persiani di Eschilo. Pretendono libri «neri», che siano scritti da neri e raccontino la vita dei neri, possibilmente con lo slang dei neri. Vogliono romanzi come Vita nel ghetto di Sintara Golden, collega e rivale di Monk che, al contrario di lui, è idolatrata da pubblico e addetti ai lavori del settore letterario. Nell’inscenare il confronto fra i due autori il film dispiega tutta la sua potenza critica. Il romanzo della Golden con le sue scene di «vita nei bassifondi» risulta grottesco, gonfio di stereotipi sui neri criminali e disagiati, paccottiglia imbarazzante e in fondo abbastanza razzista. Ecco il disastro della cultura woke: nella sua ossessione di dare spazio alla minoranza discriminata, ai neri oppressi dal «razzismo sistemico» dei bianchi, accetta e celebra soltanto opere che trattino di questo tema e lo facciano nel modo in cui ci si aspetta che lo facciano, cioè tramite il lamento, risentimento, la rabbia. Tutto questo non giova alla minoranza in questione, anzi ne perpetua la discriminazione riducendola a un ammasso di stereotipi. Infatti Thelonious Ellison riuscirà a ottenere il desiderato successo scrivendo - sotto pseudonimo - un romanzo pessimo che parla di ghetto, droghe, gangster e risulta ancora più trito del più scontato dei brani hip hop. Non si tratta, a ben vedere, di una vicenda particolarmente fantasiosa. Basta vedere che genere di prodotti propongano piattaforme come Netflix e la stessa Amazon Prime e che diamine di romanzi affollino le librerie anche italiane per rendersi conto di quanto sia ossessiva e soffocante la psicosi razziale statunitense. È difficile, oggi, trovare un film, una serie o un romanzo che non parlino di razzismo o privilegio bianco in nome della cosiddetta intersezionalità. In qualche modo, però, American Fiction non esce da questo binario o non lo fa fino in fondo. Sì, certo, stigmatizza i vizi peggiori dell’antirazzismo, ma non contesta il meccanismo del politicamente corretto in quanto tale. Ruota attorno alla parola woke e al modo in cui è cambiata nel contesto culturale americano. Woke, in origine, era un termine utilizzato dagli attivisti neri per indicare i membri della loro comunità che si erano «risvegliati» prendendo atto dei problemi razziali. Poi la parola è stata per certi versi scippata ai neri dai liberal bianchi, e dai loro contestatori destrorsi. Woke è divenuto sinonimo di progressista illuminato, sta a indicare il bianco «impegnato» che cerca di mostrarsi aperto verso le minoranze al punto di rinnegare sé stesso. La cultura woke - come metteva in risalto Robert Hughes parlando del politicamente corretto nel celebre saggio La cultura del piagnisteo - è una forma di superiorità morale al contrario, che vede nel bianco occidentale il più cattivo dei cattivi e lo mette comunque al centro della scena. American Fiction contesta questa centralità dei bianchi, si oppone allo scippo del termine woke, rivendica il diritto dei neri a scrivere da soli la propria storia e a sfuggire all’immagine che i bianchi antirazzisti hanno di loro. Ricorda, da questo punto di vista, un film meraviglioso di Spike Lee intitolato Bamboozled (uscito addirittura nel Duemila) che prendeva di mira proprio i bianchi liberal e la loro pelosa empatia nei riguardi dei neri oppressi. American Fiction, seguendo la strada tracciata da Lee, non vuole smantellare il sistema ipocrita dell’antirazzismo delirante degli ultimi anni. Se si vuole trovare un attacco frontale ed efficace a quel modello bisogna leggere L’antirazzismo come terrore letterario di Richard Millet (Liberilibri) e non affidarsi al film di Cord Jefferson. Quest’ultimo si fa portavoce di una critica progressista al progressismo, non a caso è incensato anche a sinistra. Paradossalmente chiede più antirazzismo e non meno: se la prende con gli editor e i potenti dell’editoria (quasi tutti bianchi) e li accusa di essere ancora razzisti, benché in modo più subdolo. Se la prende con i neri che li assecondano e che ancora si comportano da schiavi, accettando la maschera che i bianchi impongono loro (come in Bamboozled il protagonista afroamericano era costretto a dipingersi la faccia di nero per sembrare appunto «più nero»). American Fiction, insomma, è un grande film. Ma, di nuovo, se la prende con i bianchi spocchiosi e il loro presunto privilegio. Conferma che l’odio di sé è una delle malattie peggiori della mentalità occidentale contemporanea. È un esempio fulgido di masochismo: una frusta che l’intellettuale liberal può sbattersi sulla schiena per sentirsi ancora una volta migliore disprezzando i suoi simili.
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