2022-04-03
La Florida minaccia Disney nel portafogli
Mentre il colosso dell’intrattenimento osteggia la legge che impedisce l’indottrinamento gender a scuola, il governatore Ron DeSantis contrattacca. Nel mirino lo status speciale di cui gode il gruppo: autonomia fiscale e libertà di costruire. Sarebbe un brutto colpo.Si acuisce lo scontro tra la Florida e la Disney. Al centro della polemica, è finito il disegno di legge, recentemente siglato dal governatore repubblicano Ron DeSantis, che vieta nella scuola materna ed elementare l’insegnamento di nozioni sull’orientamento sessuale e l’identità di genere. La norma ha suscitato le critiche dei democratici e degli attivisti Lgbt. Ma che cosa c’entra la Disney? È presto detto. Cominciamo col ricordare che il colosso dell’intrattenimento vanta in Florida ben quattro parchi a tema, oltre a numerosi alberghi. Ebbene, nelle scorse settimane l’amministratore delegato della compagnia, Bob Chapek, era stato criticato per non essersi espresso contro il disegno di legge. Queste pressioni lo hanno quindi portato a prendere le distanze dalla misura dei repubblicani. Inoltre, lunedì scorso, l’azienda ha emesso una nota, secondo cui la legge «non avrebbe dovuto essere approvata né firmata». «Il nostro obiettivo come azienda», si legge ancora, «è che questa legge venga abrogata dal parlamento o soppressa nei tribunali». Non solo. Karey Burke, presidente di Disney's General Entertainment Content, ha promesso più «inclusività», garantendo che il 50% dei personaggi Disney apparterranno a gruppi considerati sottorappresentati, mentre la manager all’inclusione ha annunciato che «non c’è più un cartello, una frase registrata, un’indicazione sulle porte dei bagni che ricordi le differenze sessuali» . Tra l’altro, durante un meeting interno dell’azienda dedicato alla discussione della legge, la produttrice esecutiva, Latoya Raveneau, ha detto di portare avanti un’«agenda gay per nulla segreta». La replica di DeSantis non si è fatta attendere. «La Disney è troppo coinvolta con il partito comunista cinese e ha perso qualsiasi autorità morale per dirti cosa fare», ha tuonato il governatore, facendo riferimento al fatto che il colosso ha aperto un parco a tema in Cina sei anni fa: effettivamente è un po’ strano che un’azienda tanto attenta ai diritti civili in America non si faccia scrupoli nel raggiungere accordi con un regime che sta perseguitando gli uiguri nello Xinjiang e smantellando la democrazia a Hong Kong. Ma DeSantis è andato oltre. Nelle scorse ore, è infatti trapelata la notizia secondo cui avrebbe intenzione di revocare alla Disney lo status speciale di cui gode in Florida dal 1967. Come riferito dal New York Post, quell’anno «la Florida ha creato il Reedy Creek Improvement District, un’entità di governo semi-privata e indipendente controllata dalla Disney. Ha dato alla società il potere di approvare progetti di costruzione per i suoi parchi a tema, nonché di costruire e gestire le infrastrutture necessarie per supportare le sue operazioni». Non solo: questo distretto è stato anche autorizzato a riscuotere le proprie tasse e quindi a usare tali entrate per realizzare servizi pubblici, oltre a mantenere le infrastrutture. Se DeSantis dovesse quindi riuscire ad abrogare lo status, le proprietà locali della Disney finirebbero sotto il controllo delle contee di Orange e Osceola. «La Disney ha allontanato molte persone ora», ha detto il governatore, «e dunque l’influenza politica che sono abituati a esercitare, penso si sia dissipata. E quindi la domanda è: perché vorreste avere dei privilegi speciali?» A scanso di equivoci - e checché ne dica qualcuno - la posizione del governatore in questa vicenda non è contro gli omosessuali, ma contro l’indottrinamento ideologico dei bambini. DeSantis ha del resto sostenuto in passato provvedimenti che contrastano l’insegnamento nelle scuole della Critical Race Theory: un insieme di teorie sociologiche che mira a reinterpretare la storia secondo le categorie dell’oppressione razziale. Tra l’altro, ricordiamo che una delle ragioni per cui i dem hanno perso le ultime elezioni governatoriali in Virginia a novembre scorso era da ricercarsi proprio nel loro sostegno a questo tipo di indottrinamento scolastico. Inoltre, ci sia consentita una domanda: ma che diritto ha un colosso privato di mettere becco in una legge che, piaccia o meno, è stata approvata da un parlamento statale? Si tratta di una dinamica preoccupante che era già emersa l’anno scorso, quando alcune grandi aziende americane avevano boicottato lo Stato della Georgia a causa di una riforma elettorale non gradita al mondo liberal. Il peso delle big corporation si sta facendo sempre più forte sulla politica americana, senza poi trascurare il problema delle porte girevoli con il Partito democratico. Si pensi solo a potentati come la Silicon Valley (che sono stati non a caso messi nel mirino da DeSantis l’anno scorso). A ottobre 2020 Facebook bloccò - in piena campagna elettorale - la condivisione social degli scoop del New York Post sui controversi affari di Hunter Biden e, il mese successivo, Joe Biden assunse nel suo team di transizione presidenziale alcuni ex dirigenti della stessa Facebook. È normale una cosa del genere in una democrazia liberale?
Volodymyr Zelensky (Ansa)