True
2021-03-06
Figliuolo vuole cambiare marcia: «Stanno arrivando 7 milioni di dosi»
Francesco Paolo Figliuolo (Ansa)
Nelle prossime due-tre settimane, entro la fine di marzo, dovrebbero arrivare in Italia oltre 7 milioni di dosi di vaccini. Il problema è il trasporto nell'ultimo miglio sul territorio e la gestione dei punti di somministrazione. Lo ha annunciato ieri il commissario all'emergenza, Francesco Paolo Figliuolo, nella riunione con le Regioni. Invitando tutti i governatori a dare una forte accelerazione nella distribuzione delle dosi e a individuare i luoghi dove somministrarle. I punti vaccinali vanno quindi incrementati usando siti produttivi, gli asset della Protezione civile e delle forze armate. Servono soprattutto rinforzi di personale oltreché organizzativi.
Il generale che ha preso il posto di Domenico Arcuri a capo della struttura commissariale lavora in tandem con il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio. Insieme hanno fatto il punto con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sia sui dati aggiornati della campagna vaccinale, sia sulla piattaforma digitale che dovrebbe monitorare in tempo reale le somministrazioni, ma che spesso funziona a singhiozzo rendendo più complicato monitorare l'andamento delle scorte.
In mattinata, il tandem Figliuolo-Curcio aveva partecipato alla riunione con i ministri Mariastella Gelmini (Affari regionali) e Roberto Speranza (Salute), e appunto con i presidenti delle Regioni. L'obiettivo è ottimizzare la campagna, centralizzando e uniformando le scelte sulle categorie da vaccinare. Tanto che all'incontro erano presenti anche il presidente dell'Associazione Comuni (Anci), Antonio Decaro, e quello dell'Unione delle Province (Upi), Michele de Pascale.
C'è poi la questione della distribuzione. Durante il confronto, il ministro Speranza ha proposto l'estensione dell'uso del vaccino Astrazeneca anche agli over 65 (che però deve ricevere il via libera dell'Agenzia nazionale del farmaco, Aifa) e suggerito l'istituzione di un fondo di solidarietà per la campagna vaccinale. «Si potrebbe accantonare l'1-2% da ciascuna consegna», ha spiegato, «per la creazione di riserve da utilizzare con strategia reattiva nelle zone in cui il virus si propaga con maggiore forza e rapidità anche a causa delle varianti». L'ipotesi è ancora da discutere. Prioritario resta, infatti, il coordinamento tra Regioni per procedere tutti compatti verso la stessa direzione. Si dovranno uniformare e chiarire anche le categorie da vaccinare, in relazione alle modalità che caratterizzano la somministrazione dei diversi vaccini, dal range anagrafico per la somministrazione di alcuni ai tempi differenti fra prima e seconda dose per altri. La direzione sarebbe quella di andare comunque verso le liste stilate per classi di età e non per professioni.
La materia prima - cioè i vaccini - non manca, anzi è destinata ad aumentare rapidamente nelle prossime settimane. Ma per far marciare nel verso giusto la campagna vaccinale serviranno anche i vaccinatori, ovvero i rinforzi per inoculare le dosi senza lasciarle ferme nei frigoriferi.
I governatori sono preoccupati «per le estenuanti trattative» per il reclutamento dei medici di base per la somministrazione dei vaccini. Capofila di queste perplessità sono la Toscana e la Liguria, con i governatori Eugenio Giani e Giovanni Toti che chiedono di semplificare le procedure. In particolare il presidente ligure, auspica «moduli standard» che tuttavia «richiederebbero una legge ad hoc». Tante le difficoltà: dagli ambulatori troppi piccoli, al costo degli infermieri da reclutare, fino alle persone a cui somministrare il vaccino, se esclusivamente i propri mutuati o tutti.
Non solo. Come ha rilevato La Verità nei giorni scorsi, i medici di famiglia sono tanti ma poco produttivi, in quanto devono nella maggior parte dei casi fare tutto da soli: gestione del vaccinando, anamnesi, preparazione siringa, registrazione e osservazione. Il problema di questo metodo di vaccinazione è che la sua capacità è limitata dal numero dei medici, che in ultima analisi dipende dalla popolazione. Per incrementare le somministrazioni va cambiato il modo in cui si organizzano i vaccinatori, non basta aumentarne il numero. Se si organizzano delle squadre vaccinali composte da un medico, due infermieri, un amministrativo e un assistente sanitario, la produttività cresce perché c'è una divisione del lavoro. Ma se queste squadre vengono aggregate a 20, 30, 40 per volta, la divisione dei compiti può essere ottimizzata e concentrata sul momento cruciale, la puntura. Un medico potrà fare anamnesi per dieci squadre, idem amministrativi e assistenti. Un solo infermiere preparerà le siringhe per cinque «punturatori». E la produttività salirà. Anche in caso di assenze, la produzione calerà ma di poco.
Nel frattempo, Palazzo Chigi ieri ha comunicato l'agenda sulle prime uscite pubbliche di Draghi, che visiterà nelle prossime settimane alcuni dei luoghi simbolo della pandemia: venerdì 12 marzo il premier andrà in un centro vaccinale a Roma e il 18 marzo sarà a Bergamo per partecipare alle celebrazioni in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
Il Piemonte svolta sulle cure a casa
Curare a casa, ma curare bene, efficacemente, somministrando i farmaci adatti ai malati di Covid: un anno dopo l'esplosione della pandemia, e dopo decine e decine di proclami tutti rigorosamente a vuoto, il ministro della Salute, Roberto Speranza, non è ancora riuscito a mettere a punto uno straccio di strategia che consenta di evitare di ingolfare ambulatori e ospedali.
«Tachipirina e vigile attesa»: questa la geniale disposizione dell'Agenzia italiana del farmaco per curare a domicilio chi ha contratto il Covid, che risale al 9 dicembre 2020. Per la precisione, oltre a obbligare i medici alle prese con i propri pazienti malati di coronavirus ad aspettare, la nota permetteva la somministrazione esclusivamente di fans (farmaci antinfiammatori non steroidei) e paracetamolo o dell'eparina, ma solamente per gli allettati, ponendo indicazioni di non utilizzo di altri farmaci generalmente usati dai medici di medicina generale per la cura del virus. Questa nota non era mai stata modificata, fino a quando, l'altro ieri, il Tar del Lazio ha sconfessato questa linea, accogliendo l'istanza cautelare promossa dai medici del Comitato cura domiciliare Covid-19 nei confronti del ministero della Salute e di Aifa.
I giudici amministrativi del Lazio hanno ritenuto fondata la richiesta dei medici «di far valere il proprio diritto/dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza». Nell'attesa (infinita) che il governo si dia finalmente una mossa, il Piemonte decide di fare da solo e aggiorna il protocollo delle cure a casa: «Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia», spiega l'assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, «e alle Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) per combattere il Covid direttamente a casa dei pazienti. Con l'aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l'utilizzo dell'idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più», aggiunge Icardi, «prevediamo la possibilità di attivare ambulatori Usca per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili a domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili».
Una svolta importantissima, quella del Piemonte, che farà certamente da apripista anche per altre Regioni italiane: è impensabile infatti continuare a sottovalutare l'importanza delle cure domiciliari, tra l'altro in un momento in cui la curva dei contagi risale e gli ospedali potrebbero trovarsi presto a fare i conti con la carenza di posti disponibili. «Siamo convinti», argomenta Icardi, «perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata, che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio», sottolinea l'assessore, «da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta».
Continua a leggereRiduci
Il nuovo commissario chiede ai governatori di accelerare, «usando ogni sito possibile». E punta a uniformare la scelta delle categorie da cui partire. Roberto Speranza pensa a «scorte di solidarietà». Mario Draghi sarà a Bergamo il 18.Il Piemonte svolta sulle cure a casa. Altro che «paracetamolo e vigile attesa», ricetta del ministero già sconfessata dal Tar. La Regione guidata da Alberto Cirio passa a «idrossiclorochina, antinfiammatori e vitamine».Lo speciale contiene due articoli.Nelle prossime due-tre settimane, entro la fine di marzo, dovrebbero arrivare in Italia oltre 7 milioni di dosi di vaccini. Il problema è il trasporto nell'ultimo miglio sul territorio e la gestione dei punti di somministrazione. Lo ha annunciato ieri il commissario all'emergenza, Francesco Paolo Figliuolo, nella riunione con le Regioni. Invitando tutti i governatori a dare una forte accelerazione nella distribuzione delle dosi e a individuare i luoghi dove somministrarle. I punti vaccinali vanno quindi incrementati usando siti produttivi, gli asset della Protezione civile e delle forze armate. Servono soprattutto rinforzi di personale oltreché organizzativi. Il generale che ha preso il posto di Domenico Arcuri a capo della struttura commissariale lavora in tandem con il capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio. Insieme hanno fatto il punto con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sia sui dati aggiornati della campagna vaccinale, sia sulla piattaforma digitale che dovrebbe monitorare in tempo reale le somministrazioni, ma che spesso funziona a singhiozzo rendendo più complicato monitorare l'andamento delle scorte. In mattinata, il tandem Figliuolo-Curcio aveva partecipato alla riunione con i ministri Mariastella Gelmini (Affari regionali) e Roberto Speranza (Salute), e appunto con i presidenti delle Regioni. L'obiettivo è ottimizzare la campagna, centralizzando e uniformando le scelte sulle categorie da vaccinare. Tanto che all'incontro erano presenti anche il presidente dell'Associazione Comuni (Anci), Antonio Decaro, e quello dell'Unione delle Province (Upi), Michele de Pascale. C'è poi la questione della distribuzione. Durante il confronto, il ministro Speranza ha proposto l'estensione dell'uso del vaccino Astrazeneca anche agli over 65 (che però deve ricevere il via libera dell'Agenzia nazionale del farmaco, Aifa) e suggerito l'istituzione di un fondo di solidarietà per la campagna vaccinale. «Si potrebbe accantonare l'1-2% da ciascuna consegna», ha spiegato, «per la creazione di riserve da utilizzare con strategia reattiva nelle zone in cui il virus si propaga con maggiore forza e rapidità anche a causa delle varianti». L'ipotesi è ancora da discutere. Prioritario resta, infatti, il coordinamento tra Regioni per procedere tutti compatti verso la stessa direzione. Si dovranno uniformare e chiarire anche le categorie da vaccinare, in relazione alle modalità che caratterizzano la somministrazione dei diversi vaccini, dal range anagrafico per la somministrazione di alcuni ai tempi differenti fra prima e seconda dose per altri. La direzione sarebbe quella di andare comunque verso le liste stilate per classi di età e non per professioni.La materia prima - cioè i vaccini - non manca, anzi è destinata ad aumentare rapidamente nelle prossime settimane. Ma per far marciare nel verso giusto la campagna vaccinale serviranno anche i vaccinatori, ovvero i rinforzi per inoculare le dosi senza lasciarle ferme nei frigoriferi. I governatori sono preoccupati «per le estenuanti trattative» per il reclutamento dei medici di base per la somministrazione dei vaccini. Capofila di queste perplessità sono la Toscana e la Liguria, con i governatori Eugenio Giani e Giovanni Toti che chiedono di semplificare le procedure. In particolare il presidente ligure, auspica «moduli standard» che tuttavia «richiederebbero una legge ad hoc». Tante le difficoltà: dagli ambulatori troppi piccoli, al costo degli infermieri da reclutare, fino alle persone a cui somministrare il vaccino, se esclusivamente i propri mutuati o tutti. Non solo. Come ha rilevato La Verità nei giorni scorsi, i medici di famiglia sono tanti ma poco produttivi, in quanto devono nella maggior parte dei casi fare tutto da soli: gestione del vaccinando, anamnesi, preparazione siringa, registrazione e osservazione. Il problema di questo metodo di vaccinazione è che la sua capacità è limitata dal numero dei medici, che in ultima analisi dipende dalla popolazione. Per incrementare le somministrazioni va cambiato il modo in cui si organizzano i vaccinatori, non basta aumentarne il numero. Se si organizzano delle squadre vaccinali composte da un medico, due infermieri, un amministrativo e un assistente sanitario, la produttività cresce perché c'è una divisione del lavoro. Ma se queste squadre vengono aggregate a 20, 30, 40 per volta, la divisione dei compiti può essere ottimizzata e concentrata sul momento cruciale, la puntura. Un medico potrà fare anamnesi per dieci squadre, idem amministrativi e assistenti. Un solo infermiere preparerà le siringhe per cinque «punturatori». E la produttività salirà. Anche in caso di assenze, la produzione calerà ma di poco. Nel frattempo, Palazzo Chigi ieri ha comunicato l'agenda sulle prime uscite pubbliche di Draghi, che visiterà nelle prossime settimane alcuni dei luoghi simbolo della pandemia: venerdì 12 marzo il premier andrà in un centro vaccinale a Roma e il 18 marzo sarà a Bergamo per partecipare alle celebrazioni in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/figliuolo-cambiare-7-milioni-dosi-2650938738.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-piemonte-svolta-sulle-cure-a-casa" data-post-id="2650938738" data-published-at="1614990409" data-use-pagination="False"> Il Piemonte svolta sulle cure a casa Curare a casa, ma curare bene, efficacemente, somministrando i farmaci adatti ai malati di Covid: un anno dopo l'esplosione della pandemia, e dopo decine e decine di proclami tutti rigorosamente a vuoto, il ministro della Salute, Roberto Speranza, non è ancora riuscito a mettere a punto uno straccio di strategia che consenta di evitare di ingolfare ambulatori e ospedali. «Tachipirina e vigile attesa»: questa la geniale disposizione dell'Agenzia italiana del farmaco per curare a domicilio chi ha contratto il Covid, che risale al 9 dicembre 2020. Per la precisione, oltre a obbligare i medici alle prese con i propri pazienti malati di coronavirus ad aspettare, la nota permetteva la somministrazione esclusivamente di fans (farmaci antinfiammatori non steroidei) e paracetamolo o dell'eparina, ma solamente per gli allettati, ponendo indicazioni di non utilizzo di altri farmaci generalmente usati dai medici di medicina generale per la cura del virus. Questa nota non era mai stata modificata, fino a quando, l'altro ieri, il Tar del Lazio ha sconfessato questa linea, accogliendo l'istanza cautelare promossa dai medici del Comitato cura domiciliare Covid-19 nei confronti del ministero della Salute e di Aifa. I giudici amministrativi del Lazio hanno ritenuto fondata la richiesta dei medici «di far valere il proprio diritto/dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza». Nell'attesa (infinita) che il governo si dia finalmente una mossa, il Piemonte decide di fare da solo e aggiorna il protocollo delle cure a casa: «Diamo nuovi strumenti ai medici di famiglia», spiega l'assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, «e alle Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) per combattere il Covid direttamente a casa dei pazienti. Con l'aggiornamento del protocollo delle cure domiciliari, introduciamo l'utilizzo dell'idrossiclorochina nella fase precoce della malattia, insieme a farmaci antinfiammatori non steroidei e vitamina D. In più», aggiunge Icardi, «prevediamo la possibilità di attivare ambulatori Usca per gli accertamenti diagnostici altrimenti non eseguibili o difficilmente eseguibili a domicilio, ottimizzando le risorse professionali e materiali disponibili». Una svolta importantissima, quella del Piemonte, che farà certamente da apripista anche per altre Regioni italiane: è impensabile infatti continuare a sottovalutare l'importanza delle cure domiciliari, tra l'altro in un momento in cui la curva dei contagi risale e gli ospedali potrebbero trovarsi presto a fare i conti con la carenza di posti disponibili. «Siamo convinti», argomenta Icardi, «perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata, che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa. Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti Covid a domicilio», sottolinea l'assessore, «da parte delle unità speciali di continuità assistenziale, dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta».
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
Continua a leggereRiduci
Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
Continua a leggereRiduci