2020-04-02
«Felicità è una bibita ghiacciata sapendo di essere un sopravvissuto»
Michele Vitiello (YouTube)
Michele Vitiello, l'ingegnere guarito dopo due settimane in coma a Brescia: «È un morbo pericoloso, feroce. Ti fa sentire impotente. Ho faticato a rendermene conto. Ho avuto paura al risveglio, leggendo i referti, le complicanze».Michele Vitiello è tra i casi più anomali di questa emergenza coronavirus. Quelli che ancora ammantano di mistero i meccanismi con cui la malattia si insinua nell'organismo e colpisce. Giovane, nessuna patologia pregressa, in perfetta salute, l'ingegnere originario di Salerno si è ritrovato a un passo dalla morte senza avere il tempo di accorgersene. Il suo è un calvario felpato e subdolo come il morbo che, nell'arco di cinque giorni, lo ha ridotto su un letto d'ospedale privo di conoscenza. Tre settimane di ricovero, due in coma farmacologico. «Quando mi hanno comunicato che avrebbero dovuto intubarmi, neanche sapevo bene cosa volesse dire», ricorda ancora attonito il quarantunenne consulente informatico forense, trasportato alla Poliambulanza di Brescia il 28 febbraio scorso. «Quando è arrivata la Croce rossa, ho raccolto le mie cose in uno zaino come se dovessi prendere un taxi. Pensavo a un controllo, tutt'al più una notte in osservazione. Avevo solo una febbre alta, niente tosse, nessun affanno respiratorio. Eppure i miei polmoni erano già compromessi».Non ha mai avuto il timore che si trattasse del Covid-19?«In verità, no. Pensi a cosa comunicavano i media in quei giorni. Si parlava del paziente 1 e poco più. Quando chiamavo i numeri appena attivati dalla Regione, mi facevano le solite domande di rito: “È stato a Codogno o a Casalpusterlengo?", “Ha avuto contatti con cinesi nelle ultime settimane?". Quando rispondevo no, quasi riagganciavano scocciati».Nemmeno la febbre alta la insospettiva?«Non era la prima volta. Con questi sbalzi di temperatura è facile ammalarsi, pensavo a un'influenza stagionale. Con la tachipirina la febbre saliva e scendeva. Quando mi hanno misurato la percentuale di ossigeno nel sangue, era intorno ai 40-50 invece che 90-100».Come faceva a non essere in affanno?«Non fumo, sono sportivo, faccio una vita salutare, prima di quel giorno non ero mai salito su un'ambulanza. Probabilmente, avevo i polmoni di un leone».La situazione quando è degenerata?«Appena arrivato in ospedale. Una radiografia al torace ha accertato che avessi una polmonite bilaterale acuta. Il medico mi ha detto di telefonare ai miei familiari, perché l'unico modo per salvarmi era intubarmi. “Dottore, ma rischio la vita?", ho chiesto. Quando mi ha risposto “Sì" sono crollato. Ho pensato a tutte le cose che avevo fatto».Chi ha chiamato?«Mia madre e la mia ex moglie. La prima disperata, l'altra era in lacrime. Volevo salutare i miei due bambini, 6 e 8 anni, ma non ho avuto il tempo, avevo già il team di medici attorno. Sembrava l'ultima telefonata dal carcere».Qual è l'ultimo ricordo prima che la intubassero?«Un infermiere accanto a me, un ragazzo calabrese di nome Alfonso. Ricordo il suo sguardo, era tutto bardato tranne gli occhi. Mi faceva domande, credo per distrarmi. È riuscito anche a strapparmi un sorriso, facendomi dimenticare per un istante il viaggio che stavo per compiere».Ha pensato che la sua vita stesse finendo in quella stanza?«Lì per lì, no. Ascoltavo me stesso, come in una sorta di autodiagnosi. Non mi sentivo come uno che stesse per morire, qualcosa mi diceva che quella non era la mia ultima fermata. Ho avuto paura dopo il risveglio, leggendo i referti, le complicanze. Durante l'anestesia, avevano dovuto sedarmi più volte perché il mio corpo non reagiva bene, si ribellava. Stavo lottando, avevo voglia di vivere».La prima immagine al risveglio dal coma?«Un esercito di infermieri e dottori addosso che mi trattavano come un principe. Come angeli, mi dicevano: “Forza Michele, dai che ti sei svegliato!", “Sei stato molto male, ma ce la stai facendo". Non mi lasciavano un secondo. Se si dice che questa è una guerra, loro erano armati fino ai denti».Cos'ha pensato?«Avevo una gran sete, il desiderio di una Coca cola ghiacciata. Avevo fatto un sacco di sogni, ma ero convinto di averli vissuti».Ne ricorda uno in particolare?«Un viaggio in crociera, incontravo dei vecchi amici, compagni universitari. Così realistico… ci ho messo un bel po' a capire».Non si è detto: «Ce l'ho fatta»?«Più tardi, quando ho visto la gente che mi moriva accanto, ascoltando i telegiornali che facevano la conta dei decessi».Cosa ha visto in quell'ospedale?«Rispetto a quando ero entrato, la situazione esterna era molto cambiata. Vedevo medici e infermieri a mille, sapevano quel che facevano, non lasciavano nulla al caso nonostante la fatica e i turni massacranti. Con una grande umanità verso i malati».Erano davvero scene di guerra?«Purtroppo, sì. A mano a mano che mi rendevo conto della situazione, mi veniva da piangere. Sentivo questi tubi in faccia, non riuscivo a parlare, balbettavo. Per dire “Ho sete" a un'infermiera, ho dovuto scriverlo su un pezzo di carta. Ci avrò messo 5 minuti. Mi sono sentito umiliato».Quando è riuscito a mettersi in contatto coi suoi cari?«Tre giorni dopo il risveglio. Mi hanno portato il cellulare, Quando l'ho acceso c'erano migliaia di messaggi, chiamate. Mi hanno commosso le reazioni dei miei genitori, ancora i medici non gli avevano detto granché. Piangevano».Lei che lo ha guardato in faccia, descriva il coronavirus.«È pericoloso, feroce. Ti fa sentire impotente. Averlo sconfitto, però, mi consente di dire alla gente che bisogna avere speranza. Ho visto anche persone guarite attorno a me: un signore sui 60 anni che era messo male, eravamo vicini di letto. Al suo arrivo, la prima notte, non riuscivo a dormire per la paura che se ne andasse lì a fianco a me».Milioni di italiani vivono nell'ansia di incontrare il nemico da un momento all'altro. Lei lo ha fatto e ha vinto. È come se si fosse liberato da un grosso peso.«Sì, ma finché non avrò i risultati del tampone di controllo non sarò totalmente sereno, pur sentendomi bene. E poi non si sa se sia possibile essere contagiati una seconda volta. Tutto ciò mette un po' d'incertezza anche a me che ci sono passato. In più, c'è il pensiero per i miei cari».Si è fatto un'idea di come potrebbe aver contratto il virus?«Ci ho provato, ma non sono arrivato a nulla. L'unica è che sia stato contagiato da un infetto asintomatico. E nessuna delle persone con cui avevo interagito si è ammalata».Mentre lottava per la vita, si discuteva sulle responsabilità del governo nella diffusione dell'epidemia.«Io penso che avrebbero potuto intervenire prima, e che si sapesse di questo virus già da tempo. Sono stati presi provvedimenti concreti un mese dopo la comparsa dei primi casi. È evidente che qualcosa non abbia funzionato. Mi auguro che gli aiuti economici siano più tempestivi».Avrà accesso al bonus da 600 euro?«No, perché l'anno scorso avevo un reddito superiore a quelli stabiliti. Mi aiuterà Inarcassa, la previdenza di ingegneri e architetti: 3.000 euro una tantum perché sono stato in ospedale. Se avessi contratto il virus senza ricovero, 1.500. Se fossi morto, 5.000».La chiamano «sopravvissuto». Come la fa sentire?«Fortunato. Col senno di poi, vedendo tutte le persone che sono morte, osservando le bare portate via sui mezzi militari, non posso non pensare che la mano di Dio mi abbia toccato. Mi sento rinato».
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)