2020-08-16
Fatto il matrimonio Pd-5 stelle, Conte resta il terzo incomodo
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Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio (Ansa)
Dopo l'alleanza tra dem e grillini ci sono almeno due elementi che turbano il weekend ferragostano dei dirigenti più avvertiti del centrosinistra.Il primo è rischio di perdere alle regionali 2 a 5. Il secondo è il futuro del premier: se si è aperto un canale senza mediazioni tra Zingaretti e Di Maio, la funzione di cerniera autoattribuitasi per mesi da Conte perde più di qualcosa in termini di essenzialità.Era inevitabile che sui social si scatenasse un'ironia selvaggia dopo l'ultima giravolta grillina, quella a favore del "mandato zero" e, contestualmente, pro alleanza con il Pd. E così sono diventati virali alcuni video che evidenziano le stridenti contraddizioni pentastellate: il Luigi Di Maio del «non voglio avere nulla a che fare con il partito di Bibbiano che toglieva alle famiglie i bambini con l'elettrochoc per venderseli»; Alessandro Di Battista in una delle sue esibizioni più scenografiche, mentre mostra la piovra del Pd e i suoi tentacoli; Beppe Grillo in persona che ribadisce categorico, parlando dei suoi parlamentari, «due mandati e poi a casa»; fino allo stralcio di un accalorato intervento in cui Nicola Zingaretti grida ai dirigenti Pd: «Lo dirò per sempre, mi sono perfino stancato - lo trovo umiliante - di dire che non intendo favorire alcuna alleanza o accordo con i 5 stelle». E' evidente che questo «blob» di dichiarazioni dell'ultimo biennio continuerà a tormentare per un bel pezzo i dirigenti giallorossi. I quali però ritengono di aver fatto la cosa giusta, dal loro punto di vista: cementare l'alleanza Pd-M5S, mostrando di volerle dare un orizzonte non occasionale; blindare la legislatura, sulla base di numeri parlamentari tutto sommato rassicuranti sia alla Camera che al Senato, a meno di clamorosi colpi di scena; e soprattutto ipotecare l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, prefigurando un ennesimo settennato in cui il Quirinale non sia espressione del centrodestra. Insomma, in termini di pura manovra politica, e prescindendo dal piano dei principi e delle idee, un'operazione a somma positiva sia per i grillini sia per il Pd. Eppure ci sono almeno due elementi che turbano il weekend ferragostano dei dirigenti più avvertiti del centrosinistra. Il primo ha a che fare con le prossime regionali del 20 settembre. I sondaggi prefigurano un probabile risultato di 4-2 per il centrodestra, anzi di 5-2 se si considera anche la Valle d'Aosta. Se queste rilevazioni fossero confermate, non solo la sera del 20 settembre il computo delle 20 regioni ne vedrebbe ben 16 governate da Lega-Fdi-Fi e soltanto 4 dal Pd, ma soprattutto ai giallorossi risulterebbe difficile derubricare la sconfitta a mero voto locale. Di tutta evidenza, infatti, dopo la saldatura ufficiale dell'alleanza tra democratici e grillini, il voto del 20 settembre assumerà un'intensità politica fortissima, sarà una specie di «voto di fiducia» rimesso non agli emicicli di Camera e Senato, dove i giallorossi dormono sonni tranquilli, ma affidato a poco meno di un terzo degli elettori italiani. Insomma, una tornata elettorale già delicata e in salita per il governo risulterà inevitabilmente ancora più politicizzata.Il secondo tema riguarda Giuseppe Conte, il cui ruolo appare meno indispensabile e meno saldo di prima. Se infatti 5 stelle e Pd possono parlarsi direttamente, se si è aperto un canale senza mediazioni tra Zingaretti e Di Maio, la funzione di cerniera autoattribuitasi per mesi da Conte perde più di qualcosa in termini di essenzialità. A prima vista si potrebbe obiettare: non è così, in fondo è stato Di Maio a doversi riposizionare rispetto alla linea giallorossa dettata da Grillo (e a lui a lungo non gradita), ed è toccato sempre al ministro degli Esteri adeguarsi alla volontà del corpaccione dei parlamentari grillini di stringere i bulloni dell'intesa con il Pd. Tutto vero, in apparenza, come pure i segnali di pace scambiati di recente tra Di Maio e Conte. Ma le dinamiche della politica hanno un loro andamento spietato: se si fa un matrimonio, gestirlo in tre è complicato. Due protagonisti bastano e avanzano. Anzi, per paradosso, alla prima difficoltà (leggasi: in caso di rovescio più clamoroso del previsto alle regionali), Conte potrebbe vedersi imposto un rimpasto che ridisegnerebbe i confini e i rapporti di forza nel governo. Al momento, sembra improbabile che il rimpasto coinvolga, per rimuoverlo, pure l'inquilino di Palazzo Chigi. Ma di certo il peso del premier calerebbe, e aumenterebbe il controllo politico sull'esecutivo da parte di Pd e M5s, con un Conte relegato al ruolo di esecutore-gestore, a cui semmai presentare il conto di tutto ciò che non funziona. La stessa lite delle scorse settimane sulla futura gestione delle risorse del Recovery fund (litigio iniziato 9-10 mesi prima che i fondi comincino ad arrivare!) fa capire l'aria che si prepara: Conte non può più pensare di fare tutto da sé, in diarchia con Rocco Casalino. I partiti di riferimento, pur minoritari fra gli elettori, sono tornati ad alzare la voce.