
La più grande delle fake news sono le stesse fake news. Lo diciamo da tempo e lo abbiamo dimostrato con plurimi esempi nel corso degli anni. Che le cose stiano così, per altro, è ormai noto anche a una larga fetta della popolazione, la quale ha compreso come la lotta alle bufale online sia stata ripetutamente utilizzata per silenziare le voci critiche e dissenzienti e per imporre una nuova verità artificiale calata dall’alto. La novità interessante è che qualcosa comincia a muoversi anche a sinistra, nel senso che pure nel fronte progressista qualcuno comincia ad avanzare dubbi sulla narrazione prevalente. Cioè quella secondo cui destre e populisti, magari con l’appoggio dei perfidi hacker russi, sono in grado di spargere bugie sulla Rete e di fare il lavaggio del cervello alla popolazione spingendola a formarsi false convinzioni e, di conseguenza, ad assumere orientamenti politici «sbagliati».
Daniel Zamora, sociologo dell’Università libera di Bruxelles, ha smontato questa visione in un lungo articolo pubblicato da Le Monde Diplomatique, storica rivista della sinistra critica francese, che in Italia esce in allegato al Manifesto. Parliamo di uno studioso di chiaro orientamento progressista, anzi decisamente ostile alle destre e a Donald Trump. Zamora prende le mosse dalla narrazione classica in materia di «post verità», secondo la quale oggi «ogni sensibilità ha il proprio canale YouTube e account Instagram. In questa configurazione, la capacità di argomentare, di ascoltarsi reciprocamente e di risolvere i conflitti attraverso la ragione lascerebbe poco alla volta il posto a una guerra civile digitale fomentata dall’ambizione politica di alcuni miliardari. La principale vittima è la verità stessa. O, per essere più precisi, la nostra capacità di distinguere il vero dal falso.
Questa conversione avrebbe a sua volta originato due evoluzioni degne di nota», prosegue Zamora. «La prima è stata descritta perfettamente dal giornalista statunitense Matt Taibbi: la politica non ha solo “smesso di basarsi sull’ideologia; è diventata un problema di informazione”, ma “il nostro rapporto con i fatti è ormai simile al nostro rapporto con la merce: è un mercato dei fatti”. All’interno dello spazio pubblico, a competere non sono più le idee ma i fatti stessi. Questi vengono presentati in maniera enfatizzata o sommessa, a seconda della loro capacità di attirare l’attenzione sulle piattaforme. Il mercato avrebbe dunque conquistato la sfera pubblica: è vero quel che si vende meglio. Seconda trasformazione: permettendo l’accesso dei profani all’ambito delle competenze professionali, i social network abbattono un monopolio finora rivendicato dai grandi media. Di fronte a una simile disintermediazione, si moltiplicano gli appelli affinché sia ristabilita la gerarchia del sapere e siano protette le popolazioni dalle menzogne».
Questa visione ben riassunta da Zamora e basata sul trionfo della post verità, come dicevamo va per la maggiore, ma non regge. È falso, ad esempio, che il presunto mercato delle notizie sia stato invaso da malintenzionati capaci di ottundere le menti dei cittadini. «È stata data un’esagerata attenzione alle false narrazioni russe in occasione dell’elezione di Donald Trump nel 2016», scrive Zamora. «Solo raramente si ricorda che il contenuto di queste narrazioni rappresenta appena lo 0,0004% di quanto hanno visto gli utenti di Facebook sui loro schermi durante questa campagna presidenziale. Più in generale, come osserva uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature alla vigilia del secondo mandato, nel 2016, i contenuti poco affidabili corrispondono al 5,9% delle visite su siti di informazione. Ma, se si include la televisione, si scende allo “0,1% del regime mediatico dei cittadini statunitensi”. Infine, un’altra inchiesta pubblicata su Science afferma che il consumo di queste informazioni false riguarda soprattutto un gruppo ristretto di elettori con opinioni relativamente estreme. Su Twitter, l’1% degli utenti rappresentava l'80% delle esposizioni alle fake news. Quindi, più che essere indotti in errore capitando su un’informazione, cercavano un’informazione che confermasse il loro “errore”». Come vedete Zamora non sostiene che certi contenuti siano veri, anzi prede le distanze da essi. Si limita a notare che non hanno la pervasività che ad essi viene solitamente attribuita dai grandi media.
Ma se questo pericolo legato alle fake news non esiste, perché tanto rumore attorno ad esse? Zamora lo spiega: «In realtà, la maggior parte della letteratura sulla «disinformazione» nasconde un concetto impronunciabile: se gli individui avessero ricevuto le “buone” informazioni, il Regno unito sarebbe sempre membro dell’Unione europea e i democratici statunitensi sarebbero sempre alla Casa bianca. Se avessero chiuso X e aperto il New York Times, la storia avrebbe preso un’altra direzione. Questa letteratura parte anche dal presupposto che una persona ben informata non possa desiderare l’uscita dall’Ue né il protezionismo. In altri termini, ogni contestazione del quadro liberista sarebbe determinata dall’ignoranza sui “fatti”. Questo argomento si scontra con due obiezioni. Innanzitutto, è poco probabile che i sostenitori dei candidati più classici siano guidati in misura maggiore dalla ragione; poi, si fatica a spiegare il singolare successo dell’estrema destra sulla base solo di modelli psicologici”.
Di nuovo, Zamora mostra di non gradire affatto l’avanzata delle destre, ma riesce comunque ad affermare una grande verità: tutta la fuffa sulle fake news si basa sulla convinzione che le persone dovrebbero pensare nel mondo «corretto», cioè quello gradito all’élite di sinistra. E se esiste un pericolo per la libertà di espressione è proprio questa élite secondo cui bisognerebbe vivere tutti rieducati e contenti.






