2022-08-27
Facebook limitò le notizie sui guai di Biden Jr
Al centro, Hunter Biden (Ansa)
Zuckerberg ammette di aver censurato, su richiesta dell’Fbi, lo scoop sul laptop di Hunter in concomitanza delle elezioni del 2020. Pubblicato il mandato del blitz contro Trump, ma è pieno di omissis. Intanto, Sleepy Joe offende i seguaci del tycoon: «Semi fascisti».L’ammissione di Facebook sulla censura delle notizie riguardanti i guai di Biden Jr su richiesta dell’Fbi, e i risvolti sul clamoroso blitz all’ex presidente Trump agitano gli States. Partiamo dalla perquisizione al tycoon.Quasi sei pagine su quattordici di omissis, cioè di parti oscurate e che dunque rimangono inconoscibili. È questo l’esito della molto parziale pubblicazione dell’affidavit sulla base del quale avvenne il blitz dell’Fbi presso la residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida. La parzialissima disclosure, ordinata da un giudice federale, è dunque avvenuta da parte del Dipartimento di Giustizia Usa. Nelle parti in chiaro, si legge che «le informazioni contenute nell’affidavit potrebbero essere utilizzate per identificare molti, se non tutti, i testimoni», ma proprio qui scattano altri omissis. E ancora: «Se l’identità dei testimoni verrà rivelata, potrebbero essere soggetti a danni tra cui ritorsioni, intimidazioni o molestie e persino minacce alla loro incolumità fisica». Dopo una serie di altre parti cancellate, si legge: «Nel frattempo, gli agenti dell’Fbi che sono stati identificati pubblicamente in relazione a questa indagine hanno ricevuto ripetute minacce di violenza da parte del pubblico. L’esposizione dell’identità dei testimoni probabilmente eroderebbe la loro fiducia nelle indagini del governo e quasi certamente tratterrebbe altri potenziali testimoni dal farsi avanti in questa indagine e in altre». Insomma, gli omissis a pioggia rendono il documento utile fino a un certo punto. Prevedibile l’ira di Trump: «Un totale stratagemma di relazioni pubbliche da parte del dipartimento di Giustizia e dell’Fbi». Intanto, cambiano le parole ma non muta l’atteggiamento mentale dei vertici del Partito democratico non solo verso Trump ma pure nei confronti dei suoi sostenitori, accomunati a lui in una sorta di disprezzo ontologico, per il solo fatto che esistano e non pensino secondo i canoni fissati dalle élites dem. Per Hillary Clinton (definizione del 2016) erano «deplorables», mentre per Joe Biden si tratta di un caso di «semi-fascism». Incredibilmente, infatti, è proprio questa l’espressione usata dall’inquilino della Casa Bianca, durante un evento di autofinanziamento a Bethesda (Maryland). Biden ha messo nel mirino Trump e quelli che ha chiamato gli «extreme Republicans», i seguaci della «filosofia Maga (Make America great again, lo slogan trumpiano). Solito schema: gli avversari descritti come fascisti, più il rimpianto per i repubblicani del passato: insomma, quella descritta come cattiva è sempre la destra del presente. Poi, in un evento pubblico a Rockville (sempre in Maryland), Biden ha ribadito il concetto, pretendendo addirittura di stabilire, fra i suoi avversari, chi abbia le carte in regola e chi no: «Io rispetto i repubblicani conservatori, non rispetto questi repubblicani Maga: i repubblicani Maga non mettono a rischio solo i nostri diritti e la nostra sicurezza economica, ma rappresentano una minaccia contro la nostra stessa democrazia». Ora, in parte siamo in presenza di un comizio di un presidente in clamorosa difficoltà in vista delle elezioni di mid-term, e che dunque alza i toni sperando in una (improbabile) rimonta. Ma colpisce lo slittamento sempre più evidente dall’aggressione contro la persona di Trump alla demonizzazione dei suoi stessi elettori. Atteggiamento miope, perché qualunque cosa si pensi di Trump, non si può pretendere di cancellare pure gli elettori che proprio lui ha massimamente rappresentato: un ceto medio e medio-basso incazzato, impaurito, impoverito. Ecco, quell’immensa mezza America esiste ancora, e, anziché cercare di ascoltarla, il vecchio establishment sembra pressoché esclusivamente preoccupato di insultarla.A questo punto, le intenzioni di Trump rispetto al 2024 non sono ancora chiare. Milita a favore di una ricandidatura la sua presa sul partito, tuttora assai forte. E non è un caso se Trump non ha ancora scritto un libro di memorie dopo l’uscita dalla Casa Bianca: il che fa pensare che prenda in seria considerazione l’ipotesi di ripresentarsi. Depone invece in senso contrario il rischio che Trump possa tendere a parlare quasi esclusivamente del 2020, insomma a fare una campagna elettorale con la testa rivolta all’indietro, e che la sua figura ingombrante ed egoriferita possa « aiutare» i democratici Usa, divisi su tutto, a unirsi contro il loro vecchio arcinemico. Per molti versi, sarebbe dunque auspicabile un eventuale tentativo repubblicano di mettere in campo un’operazione di «trumpismo senza Trump»: quindi far tesoro della sua capacità di allargare il campo, ma puntare su figure meno autoreferenziali e più proiettate nel futuro. Intanto però le ombre del 2020 continuano a occupare la scena. Il capo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha dichiarato che fu proprio l’Fbi a spingere per una sostanziale censura delle notizie sul famigerato laptop di Hunter Biden, figlio di Joe, alla vigilia delle scorse presidenziali. Si ricorderà che il New York Post aveva realizzato uno scoop sui contenuti di quel computer portatile: su Twitter quella storia fu di fatto sospesa e resa inaccessibile. Quanto a Facebook, dove accadde più o meno la stessa cosa (non un vero e proprio stop ma una fortissima limitazione della circolazione della notizia), adesso Zuckerberg fa sapere che l’Fbi mise in guardia il social network contro quella che definì come «propaganda russa». Più che mai viene da chiedersi: che cosa sarebbe successo - invece - se la notizia fosse potuta circolare pienamente e liberamente nelle ultime settimane prima del voto?