2024-05-30
Una carriera distrutta per un’accusa falsa
Fabio Massimo Mendella (Ansa)
Il colonnello della Guardia di finanza Mendella fu arrestato e processato per concorso in concussione. Dopo 10 anni un tribunale gli dà ragione: a denunciarlo era stato il commercialista su cui il finanziere stava indagando. E che più tardi è stato condannato.Quando gli uomini della Digos si presentarono a casa sua con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere richiesta dalla Procura della Repubblica di Napoli, lui era il comandante provinciale di Livorno della Guardia di finanza in carica. Ci sono voluti oltre dieci anni per mettere la parola fine all’ennesimo errore giudiziario. La vittima si chiama Fabio Massimo Mendella. Il giorno dell’arresto applicava sulle spalline della sua divisa il grado da colonnello. E, nonostante i suoi colleghi di corso nel frattempo siano già diventati dei generali, la carriera di Mendella si è fermata bruscamente. E la sua vita privata è stata distrutta. L’accusa era di concorso in concussione. Secondo i magistrati napoletani Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock, un commercialista incassò per conto del colonnello, all’epoca dei fatti (tra il 2006 e il 2012) responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli, oltre un milione di euro per evitare verifiche e accertamenti fiscali. «Tutte falsità», dice ora alla Verità Mendella, ritornato in servizio dopo l’assoluzione (ma dopo una lunghissima sospensione). «I processi», spiega l’ufficiale delle Fiamme gialle, «hanno accertato che chi mi accusava aveva raccontato soltanto fandonie». A certificarlo c’è una sentenza di assoluzione (con formula piena) della Corte d’Appello di Napoli datata 11 luglio 2023 e da qualche giorno passata in giudicato (ovvero diventata definitiva) perché non è stata impugnata. Le motivazioni sono state depositate il 10 aprile scorso. Nella premessa i giudici del secondo grado hanno spiegato di aver dovuto rivisitare «l’imponente materiale probatorio raccolto nel corso dell’istruttoria svolta davanti ai giudici di prime cure insieme all’altrettanto imponente documentazione prodotta in giudizio d’appello dalla difesa dell’imputato». Ed è subito emerso che «alla luce di una rigorosa valutazione della dichiarazione del principale accusatore dell’imputato», scrivono i giudici, questa «è risultata priva di seri riscontri obiettivi e individualizzanti». E peraltro era anche l’unica fonte di prova raccolta nel corso dell’inchiesta e dell’intero processo. Per i giudici d’appello le parole del grande accusatore del colonnello sono risultate «non del tutto convincenti e attendibili». «Per fortuna ho rinunciato alla prescrizione, che nel frattempo era intervenuta», ricorda il colonnello, «perché sono saltati fuori dei grandi colpi di scena».Durante il processo di secondo grado, infatti, si è scoperto che l’accusatore era stato condannato per associazione a delinquere volta alla perpetrazione di delitti in materia fiscale e tributaria e per emissione di fatture per operazioni inesistenti che avrebbero permesso ad alcune società italiane l’evasione dell’Iva. L’accusatore altro non era che un commercialista sul quale il colonnello stava indagando. Fermato dall’inchiesta, il commercialista avrebbe continuato ad agire liberamente ed è stato quindi poi condannato a Torino. Ma è finito anche in una recente inchiesta della Procura europea per ulteriori presunte frodi. È nel corso delle indagini di Torino che è emerso, però, anche che lo stesso commercialista aveva denunciato gli ufficiali di polizia giudiziaria che avevano diretto le indagini nei suoi confronti. Era quello che i giuristi definiscono un «modus operandi». Questa documentazione, acquisita dalla Corte d’appello, è stata quindi definita dai giudici «di notevole e pregnante interesse probatorio», che avrebbe permesso di portare alla luce «la spregiudicatezza criminale», evidenziano le toghe, «di questi soggetti», ma anche «la loro propensione a mentire». L’intento del dichiarante, a questo punto, viene definito dai giudici come «calunnioso». Ma all’epoca bastò per far finire il colonnello Mendella prima in carcere, poi ai domiciliari e infine, per quanto riguarda la sua attività professionale, in panchina. Sono poi arrivati i giudici di primo grado, che oltre a non accorgersi delle clamorose assenze di riscontri alle dichiarazioni del commercialista, hanno condannato il colonnello a 4 anni di reclusione. I giudici d’appello hanno fatto a pezzi anche l’impostazione che avevano dato alla loro sentenza, caratterizzata, valutano, «da aporie logiche, carenze e profili di contraddittorietà». Carta straccia, insomma. I giudici d’appello non le hanno risparmiate ai colleghi di primo grado, sostenendo che era stato «smarrito il senso della necessaria valutazione della pregnanza dei singoli fatti e delle circostanze nonché del loro individuale e serio rilievo indiziario, giungendo a fondare il proprio convincimento su meri sospetti». E per dei sospetti il colonnello si era beccato pure una condanna di primo grado. Il risultato? Un innocente mandato in galera. Non solo: per il commercialista, fino all’inchiesta di Torino (indicata dagli investigatori come in continuità con quella del colonnello finito nei guai), non ci sono state conseguenze, nonostante le 14 informative inviate da Mendella, che segnalava gravi reati e numerose contestazioni fiscali per oltre 380 milioni di euro. «Per me è finito un incubo», afferma ora il colonnello, «ma resta un boccone molto difficile da mandare giù». Anche da finanziere: «Se gli inquirenti non avessero dato credito a questi signori e li avessero arrestati dieci anni fa, quando li ho segnalati io, lo Stato italiano non avrebbe perso circa 800 milioni di incassi Iva che grazie ai meccanismi creati da chi mi accusava sono stati evasi».