2019-12-30
L’Ue spreca in «aiuti» 3 miliardi l’anno. Finanziamo persino i bagni in Niger
Bruxelles foraggia parecchie nazioni nel mondo che sono nostre concorrenti commerciali e non contribuiscono per nulla ai bilanci comunitari. Maxi regali anche ai Paesi in via di sviluppo.L'ultimo rapporto della Corte dei conti critica pesantemente il modo di gestire i fondi per lo sviluppo. Gli obiettivi sono «poco ambiziosi» mentre i programmi attuati «non hanno avuto impatto significativo».Dal dopoguerra sono arrivati in Africa 1.000 miliardi però l'80% della popolazione vive ancora con 1 dollaro al giorno.Lo speciale contiene tre articoli.L'equivalente di 16 lussuosissime Ferrari F488 al giorno, o se preferite l'importo corrispondente al costo di 2.500 appartamenti signorili nel centro di Milano. Tradotto in soldoni: 1,8 miliardi di euro l'anno. È quanto l'Ue spende solo per supportare i bilanci dei Paesi extraeuropei. Un capitolo di spesa che assorbe una fetta importante, circa un quinto (18%), sul totale degli aiuti per lo sviluppo esterno erogati da Bruxelles. Questo fiume di denaro confluisce direttamente nelle casse degli Stati richiedenti: i fondi vengono infatti trasferiti direttamente alle tesorerie nazionali dei soggetti coinvolti, purché questi rispettino le condizioni di pagamento concordate. Secondo l'ultimo rapporto annuale pubblicato a settembre dalla Commissione europea, dal 2013 al 2018 l'importo complessivo stanziato ha raggiunto la considerevole cifra di quasi 12 miliardi di euro, mentre per l'anno appena trascorso si stima un esborso pari a 1,65 miliardi, dunque appena inferiore rispetto all'anno precedente. Niente male, se consideriamo che in realtà i destinatari di questa misura non fanno parte dell'eurozona, né tantomeno dell'Unione europea, e dunque non contribuiscono in alcun modo al bilancio e allo sviluppo continentale. Se a questi aggiungiamo i fondi stanziati per i Paesi in fase di preadesione (Turchia e nazioni balcaniche), che sono 11,5 miliardi tra il 2014 e il 2020, si raddoppia: circa 23 miliardi complessivi, oltre 3 ogni anno.Nel 2018, oltre un quarto del totale (488 milioni) degli importi stanziati per il sostegno al bilancio è finito nelle tasche dei Paesi dell'Africa centro-occidentale. Seguono nell'immaginario podio l'Asia (302 milioni) e gli Stati interessati dallo Strumento europeo di vicinato (Eni) dell'area Sud (280 milioni), ovvero Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia. Più indietro, invece, l'Africa sudorientale (247 milioni), l'America Latina (102) e i territori d'Oltremare (93). Considerando il settennato 2013-2019, la regione dell'Africa centro-occidentale si conferma quella che ha ricevuto la cifra maggiore (3,5 miliardi di euro), seguita dai Paesi dello Strumento di vicinato Sud (1,85 miliardi) e dell'Africa sudorientale (1,64 miliardi).I pagamenti dei contributi vengono effettuati sotto forma di quote fisse e variabili. Gli importi erogati in quote variabili dipendono dalla performance ottenuta dai Paesi partner, misurata con indicatori di performance predefiniti. Dalla relazione annuale pubblicata da Bruxelles scopriamo che il rapporto tra quote variabili e fisse, curiosamente, varia in maniera sensibile da regione a regione. Si va dai territori d'Oltremare (87% fisso, 13% variabile) e all'area del Pacifico (77% contro 23%), a gruppi di Stati molto più sbilanciati verso la quota variabile, come quelli appartenenti allo Strumento di vicinato dell'Est (cioè Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina), America Latina e il club dei Paesi facenti parte dello Strumento di preadesione all'Ue (Turchia, Albania, Montenegro, Serbia, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Kosovo). Per ciò che concerne i settori di destinazione, nell'ordine troviamo l'istruzione (oltre 700 milioni), l'agricoltura (600 milioni) e la salute (300 milioni). Parlando dei progetti presi in considerazione per l'affidamento delle somme, se alcuni vanno incontro a fini più che nobili, altri destano qualche perplessità. Le categorie coincidono con i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sgds) dell'Agenda 2030 concordata dalle Nazioni unite. Dall'eliminazione della povertà, all'azzeramento della fame, fino alla qualità dell'istruzione e alla salute, passando per la crescita economia e la dignità del lavoro. Ma nel calderone troviamo anche iniziative come l'installazione di bagni solo per donne in Niger, l'aumento della partecipazione femminile nelle forze dell'ordine in Moldavia, il miglioramento della viabilità locale in Etiopia e l'addestramento per migliorare l'efficienza dei posti di blocco in Montenegro. Ovviamente non mancano le tematiche ambientaliste. Ricalcando le preoccupazioni dell'Onu, anche questi fondi Ue danno largo spazio ai progetti legati alla lotta ai cambiamenti climatici. Dal 2014 al 2018, quasi un quinto delle operazioni deliberate (17%) ha riguardato il «climate action», percentuale che sale al 22% se si considera anche il settore dell'energia. Anche in questo caso, i progetti approvati fanno inarcare qualche sopracciglio. Uno su tutti, la riorganizzazione della raccolta dei rifiuti di Tuvalu, minuscola nazione dell'Oceania, dove si è raggiunta una percentuale dell'80% nelle isolette del cerchio esterno e ben il 100% - così annunciano trionfanti da Bruxelles gli estensori del rapporto - nella capitale Funafuti, città che conta - udite udite - la bellezza di 6.000 abitanti.Lo strumento del supporto al budget si inquadra in un contesto più ampio, quello degli aiuti esterni che ogni anno l'Ue destina ai Paesi extraeuropei e che non rientrano necessariamente nella tipologia dei trasferimenti diretti. Nel report pubblicato a metà dicembre, Bruxelles ha reso noto di aver erogato nel 2018 stanziamenti per 9,7 miliardi di euro, ai quali vanno aggiunti 4 miliardi relativi allo European development fund (Edf), ideato per fornire aiuti indirizzati specificamente ai Paesi di Africa, Caraibi e del Pacifico (Acp) e dei territori d'Oltremare. La parte del leone sui contributi totali la fa appunto l'Africa con 5,3 miliardi, seguita da Asia (2,9 miliardi), Europa (2,1 miliardi), altri Paesi in via di sviluppo (1,25 miliardi), America (752 milioni), mentre l'Oceania è fanalino di coda con 134 milioni.Un discorso a parte lo merita il già citato Strumento di preadesione (Ipa), meccanismo nato per garantire l'aiuto finanziario ai Paesi candidati (o potenziali tali, come nel caso dei Balcani) all'adesione all'Unione europea. La prima tranche del programma, dal 2007 al 2013, aveva un budget di 11,5 miliardi di euro, mentre la seconda (iniziata nel 2014 e il cui termine è fissato nel 2020) ha una dotazione di 11,7 miliardi. Gli interventi previsti possono riguardare cinque settori: sostegno alla transizione e rafforzamento delle istituzioni, cooperazione transfrontaliera, sviluppo regionale, risorse umane e sviluppo rurale. Nel settennato in corso la classifica vede in testa la Turchia (3,5 miliardi), seguita da Serbia (1,54 miliardi), Albania (639,5 milioni), Macedonia del Nord (608,7), Kosovo (602,1), Bosnia-Erzegovina (552,1) e Montenegro (279,1), mentre i programmi multi-Paese sfiorano i 3 miliardi di euro. Tutto gentilmente offerto, nemmeno a dirlo, dai contribuenti europei. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/eurosprechi-da-tuvalu-al-sahara-cosi-buttiamo-3-miliardi-lanno-2642780932.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-revisori-sgridano-la-commissione-pochi-controlli-e-risultati-scarsi" data-post-id="2642780932" data-published-at="1757936406" data-use-pagination="False"> I revisori sgridano la Commissione: «Pochi controlli e risultati scarsi» Quando a Bruxelles si tratta di aprire il portafoglio, tutto bene. Ma che succede quando entrano in azione i controllori dei conti? Spesso e volentieri, pur confermando la bontà delle iniziative messe in campo, i revisori continentali bacchettano le modalità con cui la Commissione e le altre istituzioni utilizzano i fondi. È il caso dello strumento del supporto al budget, soldi a pioggia destinati a rimpinguare direttamente le casse dei Paesi beneficiari. Nel mese di dicembre, la Corte dei conti europea ha pubblicato una relazione speciale dedicata al tema della qualità dei dati utilizzati per il supporto al bilancio, in particolare per ciò che concerne le quote variabili. Queste ultime vengono erogate sulla base di indicatori di performance predefiniti. La Corte ha esaminato se la Commissione avesse fatto uso di dati sulla performance pertinenti e attendibili per l'erogazione di questa tipologia di quote. Un passaggio cruciale anche perché, come sottolineano gli stessi tecnici che hanno redatto la relazione, a ogni indicatore di performance corrisponde un valore finanziario, e perciò più indicatori un singolo Stato riesce a conseguire, tanto maggiore sarà la quota variabile pagata. Nell'ambito delle verifiche effettuate, la Corte ha preso in considerazione un campione di 24 contratti, riguardanti gli otto Stati che hanno ricevuto i maggiori esborsi a titolo di quote variabili nel 2017, vale a dire Giordania, Georgia, Bolivia, Etiopia, Moldavia, Ruanda, Vietnam e Pakistan. Complessivamente, gli importi sottoposti ad audit sono stati pari a 234,2 milioni di euro, per un totale di 248 indicatori di performance. Sono state inoltre svolte visite in tre Paesi: Giordania, Georgia e Bolivia. I risultati emersi sono tutt'altro che confortanti. Per prima cosa, i revisori hanno rilevato che quasi un terzo degli indicatori (29%) non erano sufficientemente specifici, in quanto formulati in modo «vago» e «usando espressioni quali “migliorare", “prestare maggiore attenzione" e “documentare"». Di conseguenza, rileva la Corte, il rischio che si corre è quello di emettere «giudizi discordanti sul conseguimento o meno degli obiettivi», e ottenere «risultati diversi al momento di calcolare l'importo della quota variabile da pagare». Detto con parole più semplici, c'è il pericolo di sbagliare clamorosamente gli importi da corrispondere ai singoli Paesi. Ma non è tutto. Come fanno notare gli estensori del rapporto, i progressi sono misurabili solo se possono essere confrontati con la situazione precedente. Ebbene, nel 41% dei casi presi in esame è stata osservata la mancanza totale dei valori iniziali, oppure dati non corretti o non aggiornati. Infine, la Corte ha notato che alcuni obiettivi erano molto facili da raggiungere, mentre altri indicatori presentavano un effetto di incentivazione molto limitato. Per effetto di queste distorsioni, alcuni pagamenti non sono risultati sufficientemente giustificati. Sul totale dei pagamenti controllati, infatti, la valutazione della Corte si è discostata da quella effettuata dalla Commissione per 5 Paesi su 8, e per un importo pari a 13,3 milioni di euro (5,8% del totale). A questa cifra vanno sommati 3,4 milioni per fondi erogati a seguito di valori iniziali non corretti: il totale sale dunque a 16,7 milioni, e la percentuale al 7,1% sul volume delle pratiche esaminate. La Corte ha messo sotto la sua lente anche il caso specifico del Marocco, il Paese nordafricano che riceve maggiore sostegno dall'Ue. Solo nel corso del 2017, Bruxelles ha stanziato in favore di Rabat l'importante cifra di 711 milioni di dollari (pari a circa 640 milioni di euro). Per ciò che concerne il supporto al bilancio, dal 2014 al 2018 sono stati stipulati contratti per 562 milioni di euro. Anche in questo caso, i revisori dei conti hanno riscontrato alcune importanti criticità, concludendo che i programmi attuati «non hanno avuto un impatto significativo». Gli obiettivi sono stati giudicati «poco ambiziosi» (a volte addirittura già raggiunti) ed è stata contestata «l'assenza di controlli rigorosi sulla valutazione dei risultati». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/eurosprechi-da-tuvalu-al-sahara-cosi-buttiamo-3-miliardi-lanno-2642780932.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ma-gli-aiuti-lasciano-il-continente-nero-in-miseria" data-post-id="2642780932" data-published-at="1757936406" data-use-pagination="False"> Ma gli aiuti lasciano il Continente nero in miseria Nel 2018 l'Italia ha donato ai Paesi africani 4,9 miliardi di dollari. Una somma enorme, che va ad aggiungersi alle erogazioni effettuate dall'Unione europea, anche se in percentuale la cifra sembra modesta: rappresenta infatti lo 0,23% del reddito nazionale lordo. L'anno precedente le erogazioni erano state pari a 5,9 miliardi di dollari. C'è stata dunque una riduzione dei finanziamenti all'Africa. La tendenza è comune a tutti i Paesi più sviluppati, come confermano i dati dell'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): la spesa complessiva dei primi 30 Paesi verso le nazioni meno sviluppate è diminuita del 2,7% tra il 2017 e il 2018. Il taglio operato dall'Italia, pari a oltre il 20%, è il maggiore tra tutti i Paesi Ocse. Il flusso di capitali verso l'Africa resta comunque molto consistente. Sempre secondo l'Ocse, nel decennio tra il 2006 e il 2015 (ultimo dato disponibile) la comunità internazionale ha destinato al continente 515,8 miliardi di dollari come contributi ufficiali di provenienza pubblica e privata. Dai 27,7 miliardi erogati nel 2006 si è compiuto un balzo fino ai 51,8 miliardi di dollari stanziati complessivamente nel 2015: l'aumento è dell'87%. Il Paese maggiormente beneficiato è l'Egitto (53,2 miliardi di dollari nel decennio considerato) seguito da Sudafrica (52,4 miliardi) e la Nigeria (39,8 miliardi di dollari). Dal dopoguerra gli aiuti inviati all'Africa hanno superato i 1.000 miliardi di dollari. Flussi di denaro colossali che però hanno uno scarsissimo impatto sulle reali condizioni di vita delle popolazioni, se è vero quanto riportano le statistiche sociali: la miseria rimane la condizione di vita normale per centinaia di milioni di africani (ancora oggi l'80% della popolazione sopravvive con meno di 1 dollaro al giorno), mentre le correnti migratorie non cessano di ingrossare le file di quanti cercano una vita migliore nei Paesi occidentali. Ma la fuga dall'Africa colpisce anche le nazioni che ricevono le maggiori attenzioni dagli Stati più sviluppati. Il Marocco, per esempio, è tra i Paesi africani più sovvenzionati dall'Unione europea. Il re Mohammed VI ha portato sicurezza, industrie, collegamenti stradali, internet. Eppure dal Maghreb si continua a fuggire in misura massiccia. Per molti intellettuali africani, gli aiuti internazionali sono un fattore che perpetua il sottosviluppo, non lo cancella. L'economista zambiana Dambisa Moyo ha pubblicato nel 2009 un libro intitolato Dead Aid, tradotto in italiano da Rizzoli come La carità che uccide: la sua tesi, confermata da studi condotti tra Oxford e Harvard, è che i cosiddetti sostegni umanitari impoveriscono sempre più l'Africa in quanto rappresentano «una cornucopia di elemosine con cui il mondo sviluppato tiene al guinzaglio» il continente.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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