2022-05-01
L’Europa ha un problema: sulla Russia aziende e Stati vanno in direzioni opposte
Sanzioni, energia, pagamenti: il ritorno ai blocchi smentisce 20 anni di modello economico. E c’è il rischio destabilizzazione.Ogni giorno viene posta una fila di mattoni. Ogni giorno sale il muro che separa l’Ue e più in generale il vecchio Occidente dalla Russia e dal resto del globo asiatico. In mezzo resteranno due grandi continenti. Il Sud America, destinato a riserva Usa, e l’Africa, terreno di aspro conflitto, dove Russia, Cina e jihad si contenderanno materie prime e flussi migratori. Con l’obiettivo comune di alzare il tiro della destabilizzazione e creare onde lunghe che impattino sui Paesi a Nord del Mediterraneo. Il cambio di passo è stato velocissimo. Forse scaturito dall’addio Usa a Kabul, sicuramente amplificato dalle debolezze del modello economico europeo. Avere troppo welfare e troppe poche persone che producono ricchezza avrebbe comunque imposto una svolta anti fallimento.Gran parte dei socialdemocratici è convinta che una guerra consenta la tabula rasa e la ripartenza. Chissà su quale modello... Di certo, il conflitto avviato dall’invasione russa sarà lungo e si trasformerà in una sorta di guerra civile sul modello siriano o afgano. Per questo in molti sono convinti che il muro sia destinato a crescere, e che gli equilibri dei prossimi 20 anni si giochino a cavallo di questa linea di faglia. I governi, compreso il nostro, chiedono alle proprie aziende di azzerare in poco tempo ciò che hanno costruito nell’ultimo ventennio. Chiedono di azzerare i flussi di energia provenienti dalla Russia rapidamente, ben sapendo che la struttura produttiva non è in grado di sterzare in meno di tre anni. La politica per certi versi ha ripreso in mano un potere che non gestiva da tempo. Un potere delegato alle multinazionali e a intere fette di finanza. Certo, le armi sono la forza e spesso la violenza e quindi imprimono cambi di passo senza troppa dialettica. A meno di non assistere a una frattura tra aziende e Stato. Esattamente ciò che sta accadendo in queste settimane. Basti prendere il caso Germania. La Confindustria tedesca e pure i sindacati hanno chiesto apertamente di non stoppare l’import di gas russo. Premono perché non avvenga in patria. Avrebbero voluto non avvenisse nemmeno in Polonia, dove invece il governo di Varsavia si è dimostrato testa di ponte Usa. I polacchi hanno scelto il gas Usa imprimendo un innalzamento ulteriore dei costi e scaricando le minori marginalità sulle aziende tedesche che da anni delocalizzano proprio in Polonia.Aziende e governo tedesco sono in piena frattura. Ma, seppure con toni meno urlati e con scelte di sponda, sta accadendo la stessa cosa anche in Italia. L’Eni è azienda di Stato. L’unica da noi che ha rapporti diretti con Gazprombank. L’ad Claudio Descalzi sarebbe anche favorevole a pagare in rubli, ma non potrà farlo senza l’ok di Mario Draghi. Al tempo stesso l’Eni è l’azienda che accompagna Luigi Di Maio nei tour africani, ma il Cane a sei zampe sa che dall’Africa non arriverà mai la stessa quantità e qualità di gas. In generale i costi saranno più elevati e il governo ha pensato bene di avviare un circolo vizioso che si si chiama prelievo degli extraprofitti. Uno schema che indebolirà gli azionisti e gli investitori. Tensioni le ha vissute pure Enel. Basti ricordare la partecipazione dell’azienda a una conferenza con Vladimir Putin. In realtà, Francesco Starace ha fatto sapere di aver avviato il disimpegno dalla Russia dal 2019 e averlo terminato in concomitanza con lo scoppio della guerra. Copasir e governo hanno aperto un fascicolo, però. Il che sta a indicare un tema prettamente politico. Lo stesso che deve affrontare Intesa Sanpaolo che attraverso Antonio Fallico ha costruito una rete fortissima già dai tempi di Silvio Berlusconi. Non a caso recentemente è stato diffuso un comunicato a firma di «un portavoce» per indicare l’impegno della banca nel disimpegno dalla Russia. La lista di colossi che si trovano davanti a un bivio è ancora più lunga. Sono chiamati a tagliarsi un braccio per aderire a un nuovo ordine sociale. Quando il muro sarà terminato, chi oggi prova a barcamenarsi e stare in equilibrio a quel punto cadrà. O di qua o di là. Cadere sul lato asiatico vorrà dire perdere tutto. Cadere qui «soltanto» farsi male. Per questo il Paese affronta tensioni istituzionali mai provate prima. Aziende e Stato sono disallineate. Il governo dovrebbe offrire alternative di business e di ricchezza. Fare in modo che si riformino o riallineino i centri di potere. Se l’Est è sbarrato, riaprire il Medio Oriente o trovare sponde militari in Africa. Altrimenti bisogna stare attenti alla destabilizzazione.