La commissione Ambiente respinge la campagna anti alcol e cancella le etichette terroristiche sulle bottiglie. Pietro Fiocchi (Fdi-Ecr): «Fa male l’abuso, non il consumo». Organizzazione in pressing: «Errore, causa il cancro».
La commissione Ambiente respinge la campagna anti alcol e cancella le etichette terroristiche sulle bottiglie. Pietro Fiocchi (Fdi-Ecr): «Fa male l’abuso, non il consumo». Organizzazione in pressing: «Errore, causa il cancro».Ci hanno provato di nuovo a mettere il vino sullo stesso piano delle sigarette e imporre che La Tache o Gaja, Biondi Santi o Petrus, Solaia o Vega Sicilia mettano in etichetta un terrificante fegato corroso dalla cirrosi con scritto: «Non lo bevete, vi uccide!». Lo pretende l’Oms, che blandisce Ursula von der Leyen e si lamenta che l’Europa abbia ammorbidito il suo documento sulle azioni anticancro. Ha inviato agli eurodeputati della Commissione ambiente che ieri dovevano decidere se mettere o meno al bando il vino, una lettera il 3 novembre scorso in cui si dice: «È scientificamente inaccurata e preoccupante la dizione “consumo moderato” perché l’alcol provoca sempre il cancro.» L’Oms si comporta esattamente come qualsiasi lobbista e punta dritto sugli eurodeputati. La ragione - oltre al fatto che c’è un braccio di ferro economico di proporzioni planetarie - è che si fa fatica in Europa a far capire che il vino non è (solo) alcol, ma è identità, cultura: insomma, una bevanda sacra. La crociata anti alcol che da anni viene portata avanti soprattutto dai Paesi del Nord Europa che effettivamente hanno un problema serissimo di alcolismo e, dunque, di salute ha distorto la percezione del vino. Quest’Europa che in forza del politicamente corretto si rappresenta come uno Stato etico sta diventando uno Stato dietetico. Sensibilissimo alle lobby e alle pressioni, soprattutto a quelle dell’Oms che pretende sia riconosciuto alle sue raccomandazioni la forza di legge.La Commissione di Bruxelles ci sta seriamente pensando. È stato sperimentato con il Covid e ora si vuole replicare con l’agroalimentare avendo capito che è un business più cospicuo persino di quello di Big pharma. «Ci hanno provato», concorda l’eurodeputato Pietro Fiocchi (Fdi-Ecr), membro della commissione Salute-ambiente di Strasburgo e in questo caso relatore ombra, «a passare col divieto assoluto anti alcol e con le etichette terroristiche sul vino ma li abbiamo respinti opponendo che la dieta mediterranea raccomandata dall’Oms prevede un consumo moderato di vino. Non torneremo, almeno speriamo, al proibizionismo anni Trenta americano. Anche perché lo schieramento a difesa del vino è ampio. Abbiamo portato le cifre dell’aspettativa di vita dei Paesi, primo fra tutto il nostro, dove il vino fa parte del regime alimentare e non è fonte di dipendenza all’alcol, né soggetto a consumo eccessivo. E, alla fine, dovremmo aver scongiurato anche questo attacco. Le prime votazioni sono andate bene: niente etichette terroristiche e vino-alimento, vino-cultura messo al riparo dagli anatemi dell’Oms. Ma è solo il primo round perché c’è sempre il precedente dell’Irlanda, perché la Commissione pende dalle labbra dell’Oms e perché c’è ancora in ballo la questione delle etichette tipo il Nutri-score (l’etichetta a semaforo, ndr)».Dublino, infatti, dal 2026 potrà applicare sul vino (che è l’ultimo degli alcolici assunti sull’isola: gli irlandesi bevono 17 litri di vino contro i 308 di birra ad alta gradazione ogni anno, a testa) le etichette dissuasive. Il permesso glielo ha dato Ursula von der Leyen in spregio alle regole comuni di mercato e il nostro ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida ha presentato ricorso al Wto, l’organismo che regola il commercio mondiale. Dal via libera agli irlandesi riparte l’Oms per incalzare gli eurodeputati. Scrive, come rivelato da Euractiv, Hans Kluge, direttore per l’Europa dell’Oms: «Sono preoccupato dal tentativo di annacquare il rischio di cancro connesso all’uso dell’alcol; nessun livello di consumo di alcol è sicuro per la nostra salute. La terminologia di informazione sul consumo “moderato e responsabile” è scientificamente imprecisa e preoccupante nel contesto della prevenzione al cancro». Aggiunge ancora il capo dell’Oms in Europa: «Ho monitorato il piano anticancro europeo che era una delle priorità assolute di Ursula von der Leyen, ma i forti impegni iniziali sono stati via via erosi. L’Airc - l’agenzia anticancro dell’Oms - ribadisce che vanno banditi aggettivi fuorvianti come “responsabile” o “moderato”. La rimozione dell’impegno per etichette specifiche di avvertenza sul cancro distoglie l’Europa dal suo ambizioso percorso di riduzione dell’incidenza dei tumori».Non sempre Kluge è stato così attento ai documenti; ha coperto la mancanza di un piano pandemico in Italia, secondo quanto afferma Federico Zambon che fu «costretto» a lasciare l’Oms ai tempi del Covid, ma oggi censura l’Europa che ha fatto dei passi indietro perché hanno prevalso agricoltori e lobby dell’alcol. «E noi», sottolinea Pietro Fiocchi, «abbiamo dimostrato ieri in commissione parlamentare che il consumo moderato non solo ha senso, ma è approvato dalla stessa Oms che ha dichiarato la dieta mediterranea, che prevede due bicchieri di vino, come il più salutare dei regimi alimentari. La verità è che ci sono altre lobby che lavorano e che in Europa si fa fatica a difendere anche l’agricoltura mediterranea». Senza i prodotti base - dagli ortaggi, alla frutta, dai cereali al pesce e fino al vino - che l’Europa, con un’interpretazione bizzarra del Farm to Fork, non vuole più coltivare per «salvare» l’ambiente salvo poi importarli da Paesi che non hanno i nostri standard né di salubrità né di qualità, la dieta mediterranea diventa impraticabile. Siccome il consumo di vino - che è in contrazione - è pari quasi a quello degli energy drink (che però fatturano tre volte tanto rispetto alle cantine) e le bevande analcoliche valgono in quantità 18 volte e in valore 25 volte il vino, viene il dubbio che l’Oms abbia capito da che parte conviene stare.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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