2024-12-13
È in cella per un delitto confessato da un’altra
Monica Busetto è stata condannata a 25 anni (ne ha già scontati dieci) per l’omicidio di Lida Taffi Pamio. Un crimine per il quale si è dichiarata, poi, colpevole Susanna Lazzarini. Ma un baco nel sistema giudiziario non ridà la libertà alla detenuta innocente. Questa è la storia di uno dei più grandi errori giudiziari della Repubblica italiana. Un errore, però, cui nessuno riesce a mettere fine. Sembra assurdo ma è così: una delle vicende più incredibili che mi sia capitato di raccontare.In sintesi si può dire così: c’è una persona innocente che sta in carcere da dieci anni. E ne dovrà scontare altri quindici. Questa persona è stata condannata per un omicidio che non ha commesso. Peggio: è stata condannata per un omicidio che ha sicuramente commesso un’altra persona. La vera assassina ha confessato. Ha fornito dettagli della scena del crimine che solo lei poteva conoscere. Ha ammesso di aver fatto tutta da sola. E il giudice non ha avuto difficoltà a crederle e a condannarla. Eppure l’altra donna, quella che l’omicidio non l’ha commesso, resta in carcere. Non si riesce a farla uscire. Anche se è stata dichiarata innocente in un tribunale della Repubblica italiana. Deve continuare a marcire in galera.Una storia assurda che comincia a Mestre nel dicembre del 2012. Lida Taffi Pamio, 87 anni, viene trovata morta nella sua casa. Un delitto crudele: l’anziana prima viene colpita con uno schiaccianoci, poi strangolata con un cavo e infine accoltellata due volte. Nella casa non vengono trovate tracce biologiche, non ci sono testimoni né chiari sospettati. Nella foga di trovare comunque un colpevole, le indagini puntano sulla vicina di casa: Monica Busetto, dirimpettaia della vittima, una donna semplice, buona, lavoratrice (fa l’operatrice socio sanitaria), senza alcun precedente, senza movente. Mai avuto un alterco in quel condominio, mai avuto atteggiamenti violenti. Monica si professa innocente. Non ci sono elementi certi contro di lei. A incastrarla c’è soltanto una collanina, trovata in casa sua, in cui sarebbero state rinvenute tracce infinitesimali del Dna della vittima.Per i magistrati quella microscopica traccia di Dna è la prova regina. Una prova regina estremamente fragile, messa in dubbio da diversi esperti, con perizie che hanno dimostrato che la contaminazione potrebbe essere avvenuta in mille modi diversi. Oltretutto, non c’è alcun segno della presenza di Monica nella casa dell’anziana uccisa. Eppure quella prova basta per decidere l’arresto e il processo: nel 2014, infatti, Monica viene condannata a 25 anni di carcere. Ma qui arriva il bello, perché due anni dopo, nel 2016, viene arrestata, per un altro omicidio, Susanna Lazzarini detta Milly. E quest’ultima dice di avere ucciso non solo la donna per cui è stata arrestata, ma anche l’ottantasettenne di Mestre, quella per cui è in carcere Monica Busetto. E dichiara di averlo fatto da sola. «E Monica Busetto?», chiede il magistrato. «Non c’entra, l’ho fatto io». «È sicura?». «Sì». Era da sola? «Sì». Monica la conosce? «No, mai vista in vita mia».Il suo racconto è molto credibile, anche perché la rea confessa aggiunge particolari di quel delitto che nessun altro poteva conoscere. Chiaro anche il movente: Milly, in cerca di soldi, andava a rapinare le amiche di sua madre. Lida era un’amica di sua madre. Anche l’altra anziana uccisa era amica di sua madre. Le rapinava e, nel caso, le uccideva. Se non bastasse, si aggiungono anche alcune testimonianze che confermano la versione di Milly, come quella del parrucchiere che la incontrò pochi giorni dopo l’uccisione dell’anziana di Mestre: «Mi chiese di coprirle alcuni graffi che aveva sul volto», ha raccontato. I graffi, evidentemente, che le aveva procurato la vittima cercando di difendersi.È tutto così chiaro ed evidente che il giudice non può far altro che condannarla. Milly finisce in carcere per aver ucciso, da sola, Lida Taffi Pamio, di 87 anni. Fermi tutti, direte voi: ma c’era già un’altra persona in carcere, la nostra povera Monica, condannata innocente per il medesimo omicidio. Ora, siccome Lida Taffi Pamio non può essere stata uccisa due volte, è chiaro che in carcere c’è posto per un unico assassino. Monica sarà liberata immediatamente, penserete voi. Macché: Monica resta in carcere. E Milly pure. Due persone in carcere condannate per aver ucciso la stessa persona, entrambe da sole. Un paradosso contro le leggi della logica, ancor prima che contro le leggi della Repubblica.Come è possibile tutto ciò? Semplice: è possibile per un baco del sistema, un vulnus della macchina giudiziaria. In pratica, dice la Cassazione, la revisione del processo di Monica non è possibile perché non ci sono novità che riguardano quel processo. La sentenza di un altro processo, in un altro tribunale, non è sufficiente a rimettere in discussione la condanna. Può sembrare assurdo, ma è così: come se i due tribunali non si parlassero tra loro, come se andassero avanti con i paraocchi. «Monica è stata condannata sulla base delle prove del nostro processo e non c’è nulla che cambia queste prove», dice un tribunale. No, ma c’è una sentenza di condanna in un altro tribunale. «A noi non interessa». E così una innocente, dichiarata tale in nome del popolo italiano, dichiarata tale in un tribunale della Repubblica, resta in carcere. E rischia di rimanerci per altri quindici anni. Perché il suo caso non è mediatico. Perché non è Erba. Perché non è femminicidio. Perché Monica non buca il video. È solo una persona semplice che stiamo schiacciando nel silenzio di tutti.
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)