
Dal gruppo di Descalzi trapela tranquillità
La corsa delle bollette fa esplodere ricavi e utili di Enel così come quello del petrolio aveva gonfiato il bilancio del Cane a Sei Zampe. Per il colosso guidato da Francesco Starace il boom si condensa nel raddoppio del fatturato nel primo trimestre (35 miliardi in crescita dell’89,1%).
E anche se il boom dovesse sgonfiarsi le previsioni per il resto dell’ esercizio restano positive. Lo ha spiegato Alberto De Paoli nel corso della conference call con gli analisti successiva alla presentazione dei conti. «Confermiamo la previsione per la fine dell’anno -ha detto- e siamo fiduciosi per i risultati raggiunti nel primo trimestre». Per il momento le misure di contenimento del caro energia varate dal governo hanno avuto un impatto limitato. «In ogni caso -dice il direttore finanziario del colosso elettrico- non sono prevedibili effetti sconvolgenti considerando che il costo massimo sarà di un centinaio di milioni a fronte di un risultato ordinario del gruppo di 1,4 miliardi nel primo trimestre (+18,9).
Una previsione dello stesso ordine di grandezza viene fatta filtrare dagli uffici di San Donato alle porte di Milano dove ha sede il quartier generale Eni. Anche qui si parla di un impatto misurabile in qualche centinaio di milioni. «I governi di molti Paesi – ha spiegato De Paoli rispondendo agli analisti che lo interrogavano su Enel- hanno introdotto misure per attenuare l'impatto per i clienti dall'aumento delle materie prime sulla bolletta energetica». In particolare quelle «adottate in Italia e Spagna hanno riguardato gli extra profitti», da cui però non sono attese conseguenze molto negative. «Finora -ha aggiunto volendo fornire dettagli- hanno avuto un impatto trascurabile sui nostri numeri» perché «abbiamo venduto energia ai nostri clienti in anticipo, a un prezzo ragionevole senza extra profitti», ha affermato.
L'impatto del decreto in vigore in Italia (con un tassa al 10% sugli extraprofitti) è stato di 40 milioni di euro nei primi tre mesi dell'anno. Ora che la tassa è stata portata al 25%, l'impatto dovrebbe crescere di ulteriori 60 milioni (presupponendo che la percentuale sia l'unico cambiamento del provvedimento), portando il totale per l'intero anno a quota 100 milioni di euro. Invece, ha affermato De Paoli, non è possibile fare alcuna ulteriore stime sull’ impatto in Spagna , rimanendo ancora in attesa di valutare il possibile impatto del meccanismo del price cap del gas. Sul piano finanziario, il gruppo conferma intenzione di mantenere solidità finanziaria, grazie anche all'evoluzione chiara del cash flow e dell'assorbimento delle eccezionali misure dei governi». Per l’amministratore delegato Francesco Starace «il primo trimestre del 2022, ha confermato la validità del nostro modello di business ». In particolare «grazie all'integrazione del gruppo lungo la catena del valore, alla sua diversificazione geografica e tecnologica, siamo in grado di consolidare la nostra strategia e le previsioni sugli utili». Allargando l'orizzonte temporale, le stime di Enel prevedono, tra il 2020 e il 2030 un margine operativo ordinario del gruppo in aumento del 5-6% all’anno , a fronte di un utile netto ordinario atteso in aumento del 6-7%. Con riferimento invece al periodo del Piano 2022-2024, si prevede che nel 2024 l’ebitda ordinario raggiunga i 21-21,6 miliardi rispetto ai 19,2 miliardi del 2021. L’utile netto ordinario di gruppo è atteso in crescita a 6,7-6,9 miliardi nel 2024, rispetto ai 5,6 miliardi del 2021.
Chi pensava che i due trust Providence e Providence II con base alle Bahamas fossero gli unici forzieri segreti degli Agnelli si sbagliava. Per nascondere le proprie liquidità la famiglia «reale» torinese, dal 2014, aveva scelto di diversificare, puntando in un altro oceano, questa volta quello Pacifico e precisamente a Auckland, in Nuova Zelanda. Uno stratagemma che ha permesso agli Agnelli di non vedere mai tramontare il sole sul proprio patrimonio. Infatti quando a Torino sono le 22, a Nassau sono le 16 e ad Auckland le 8 del mattino successivo. Per capire di che cosa stiamo parlando bisogna tornare a occuparsi dell’ultimo esplosivo filone dell’inchiesta per frode fiscale (poi derubricata a infedele dichiarazione) e truffa ai danni dello Stato della Procura di Torino, un’indagine che ha costretto il presidente di Stellantis, John Elkann, a scendere a patti con gli inquirenti per ottenere la so di investimento con disponibilità finanziarie per circa 250 milioni di euro e che quello Specialized investment fund (Sif) era gestito, anzi schermato, da un trust neozelandese, il Piz Nair trustee Limited con sede nel centro direzionale Mahuhu Crescent di Auckland, allo stesso indirizzo del Cone Marshall group e della Cone Marshall limited.
Su Internet sono presenti i dati essenziali della società che fungerebbe da schermo del fondo di investimento: il direttore è, dall’1 dicembre 2014, ovvero dalla fondazione, Geoffrey Peter Phillip Cone, classe 1954, avvocato originario di Timaru (Nuova Zelanda). È lui l’uomo dei misteri: avrebbe ben cinque passaporti (di Nuova Zelanda, Argentina, Svizzera, Hong Kong e Sud Africa) e anche un permesso di soggiorno italiano. Avrebbe pure un domicilio vicino a Como. L’attuale residenza ufficiale sarebbe in Argentina, a Buenos Aires, dopo essere stata per anni a Maldonado, in Uruguay. Avrebbe incarichi in oltre 200 società in giro per il mondo. In Italia Cone è intestatario del 100 per cento della Cone Marshall trustees Srl (capitale sociale 2.000 euro), di cui è presidente, mentre in passato aveva l’intero pacchetto societario della Fistoy Italia Srl, di cui resta amministratore unico. Nel nostro Paese è anche legale rappresentante della Cetinale Limited. Dal 2017 è direttore di Piz Nair anche Claire Judith Cooke, quarantacinquenne neozelandese cresciuta in Sud Africa (parla in modo fluente inglese e afrikaans). La signora ha ruoli in 230 società.
Cone è presidente e tesoriere del Cone Marshall group, la Cooke è managing director e partner della Cone Marshall Limited. Insomma il tesoro degli Agnelli è stato affidato alle menti del sistema. Sul sito del gruppo è spiegata la specialità della casa: «La nostra competenza consiste nel fornire consulenza, istituire e gestire strutture per detenere proprietà internazionali per i nostri clienti, per proteggere i loro beni e garantire una stabilità della famiglia, la governance e la successione». Per questo vengono messi a disposizione «avvocati, consulenti patrimoniali e contabili». Il gruppo ha uffici in luoghi strategici: Brasile, Singapore, Hong Kong, Dubai, Usa, Gran Bretagna (Londra), Isole Vergini britanniche, Svizzera (Zurigo, Ginevra e Lugano), Spagna, San Marino e Italia. La sede tricolore (la stessa della Marshall trustees Srl) è nell’esclusiva via della Spiga a Milano. Ma qui del trust di Elkann assicurano di non sapere nulla.
Piz Nair è controllato al 100 per cento da New Zealand trustee Limited a sua volta di proprietà del nostro Mr Cone. Sul sito del Cone Marshall group è possibile leggere una bio autorizzata di Geoffrey Cone: «È un avvocato esperto in trust e pianificazione fiscale a livello internazionale, nonché fondatore e senior principal di Cone Marshall Limited. Cone è un’autorità riconosciuta nel suo settore e, in quanto tale, ha condiviso la sua vasta conoscenza e competenza» in diverse pubblicazioni internazionali. «Cone ha iniziato a occuparsi di contenzioso commerciale e di consulenza fiscale e fiduciaria nel 1980. […] Cone ha messo a frutto la sua vasta esperienza in contenzioso e consulenza, lavorando come avvocato nelle Indie occidentali britanniche per due anni. Nel 1998, tornò in Nuova Zelanda per fondare la sua società, Cone and Co., che sarebbe poi stata trasformata in Cone Marshall Limited nel 2007. La lunga e illustre carriera di Cone lo ha reso una figura di spicco a livello internazionale nel settore della pianificazione fiduciaria e fiscale, motivo per cui alcune delle famiglie più ricche del mondo, le banche più importanti e stimati avvocati e consulenti hanno affidato al suo studio il loro lavoro e i loro beni». Tra questi sembra proprio anche Elkann. Veniamo, adesso, alla biografia non autorizzata di Cone. La sua storia, a un certo punto, si intreccia con i cosiddetti Panama papers, ovvero la clamorosa diffusione di un file composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali creato dalla Mossack Fonseca, uno studio legale panamense, che conteneva informazioni dettagliate su oltre 200.000 società offshore costituite per consentire ai beneficiari di nascondere i patrimoni al Fisco dei rispettivi Paesi di origine. Ma il re dei paradisi fiscali, Mossack Fonseca, uno dei punti di riferimento globale per questo tipo di attività, aveva chi sognava di emularlo.
Scorrendo i documenti di un’inchiesta del 2016 del governo della Nuova Zelanda sui trust esteri si apprende che nel gennaio 2009 lo studio legale Cone Marshall chiede l’accreditamento presso Mossack Fonseca all’avvocato Ken Whitney, di Ross & Whitney. E la referenza finisce nei Panama papers. Viene indirizzata al Dipartimento compliance di Mossack Fonseca. Ecco il testo: «Scriviamo per confermare che Cone Marshall è uno studio legale affidabile che esercita ad Auckland, Nuova Zelanda, e con cui collaboriamo da molti anni», si legge su carta intestata di Ross & Whitney. «Siamo inoltre lieti di fornire una referenza verbale, se necessario», aggiunge Whitney nella lettera. Da allora, come vedremo, la Cone Marshall finisce a ragione o a torto in molti articoli di cronaca riguardanti scandali che hanno coinvolto politici (in Brasile) o grandi società che incassano appalti dai governi (in Slovacchia). Il consorzio di giornalismo investigativo che scoperchiò i Panama papers dedicò un sostanzioso capitolo alla Nuova Zelanda. Per esempio, nel 2016, svelò che «gli studi legali neozelandesi che nel 2014 fecero pressioni sul governo contro la chiusura del settore dei trust esteri in questo Paese avevano ampi legami con Mossack Fonseca». Nella notizia era specificato che «quattro dei cinque studi legali che hanno incontrato e fatto pressioni sull’allora ministro delle Entrate Todd McClay hanno fatto affari in varia misura con il controverso studio legale panamense».
Lo scoop citava anche il professionista che aveva raccomandato Cone allo studio centro-americano: «I Panama papers dimostrano anche che Ken Whitney, l’uomo che a lungo ha gestito le questioni legali personali del Primo ministro John Key, aveva legami con Mossack Fonseca attraverso due società registrate nelle Isole Vergini Britanniche, con Mossack Fonseca come agente. Whitney ha anche agito come arbitro per Karen Marshall di Cone Marshall nel 2009». Quando scoppiò lo scandalo in Slovacchia i cronisti annotarono che «le 11 società elencate come azioniste del colosso delle costruzioni Váhostav-SV sono state registrate in Nuova Zelanda dallo studio legale di Auckland Cone Marshall, di proprietà dei prolifici creatori di trust stranieri Geoffrey Cone e Karen Marshall». In Brasile, invece, Eduardo Cunha, già esponente di spicco del partito Movimento democratico brasiliano, venne accusato di aver nascosto il proprio patrimonio costruito a colpi di tangenti. La società utilizzata per occultarlo avrebbe, a un certo punto, spostato la sede legale presso lo studio Cone Marshall. L’avvocato spiegò ai giornalisti di aver liquidato il trust subito dopo avere sentito puzza di bruciato.
Cercando su Internet si possono trovare molte altre storie di questo tipo. Ma torniamo al Piz Nair, che in lingua romancia significa «Pizzo nero» (la montagna che domina Sankt Moritz). L’obiettivo dei trust è quello di segregare il patrimonio, in questo caso le quote del Sif lussemburghese. Questo istituto giuridico di origine anglosassone consente di nominare gestori delle poste finanziarie e beneficiari, che vengono così schermati. La Nuova Zelanda non è un Paese offshore e non si trova in nessuna black list, ma garantisce elevati standard di riservatezza. Per questo, come abbiamo visto, una decina di anni fa era finita al centro di polemiche.
Di fronte a un quadro tanto intricato viene da chiedersi: ma i soldi che sono finiti in pancia di Piz Nair da dove provengono? E perché dopo la morte di Marella e il trasferimento ereditario dei suoi beni i nipoti non hanno dichiarato quell’asset? Elkann, che ha accettato di pagare la tassa di successione sul fondo lussemburghese e, di fatto, ha ammesso di essere uno dei beneficiari finali dei 250 milioni di euro, perché, ancora nel 2025, teneva quel tesoretto nascosto nel Granducato? Che funzione aveva? E chi della famiglia era a conoscenza della sua esistenza? Viene anche da chiedersi perché Marella che aveva dichiarato la residenza (fittizia) in Svizzera per sfuggire al Fisco italiano abbia deciso di occultare milioni di euro in un’altra giurisdizione. È stata una sua idea? E perché i parenti hanno portato avanti questa scelta?
Purtroppo le risposte a tali quesiti, che potrebbero aprire scenari esplosivi, non potranno arrivare dalla Procura, visto che il pagamento di 183 milioni di imposte, sanzioni e interessi da parte degli Agnelli ha portato alla sospensione del fascicolo d’indagine e alla messa alla prova di John Elkann in una scuola dei Salesiani di Torino.