2020-06-23
Egitto e Turchia litigano per la Libia. E Di Maio non sa più con chi stare
Il Cairo stabilisce la sua linea rossa a Sirte, mandando un avvertimento gli uomini di Haftar e a Erdogan. In caso di scontro cosa prevale: la fedeltà alla Nato, di cui Ankara fa parte, o i contestati accordi con Al Sisi?Il presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi, alleato dell'uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar, ha dichiarato la città di Sirte (considerata la porta d'accesso alla cosiddetta Mezzaluna petrolifera) e la base di Al Jufra delle linee rosse. Se gli uomini di Tripoli, sostenuti dalla Turchia, dovessero tentare di ristabilire il controllo sulle ultime due roccaforti di Haftar in Tripolitania, il Cairo sarebbe pronto a intervenire nel conflitto in Libia. L'Egitto ha subito incassato il supporto del fronte dei Paesi arabi sunniti del Golfo guidato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, schieratisi a difesa del «diritto» del presidente Al Sisi «di difendere i suoi confini». La Turchia, invece, ha spiegato di «comprendere le legittime preoccupazioni di sicurezza dell'Egitto in merito ai suoi confini comuni con la Libia» ma di ritenere tuttavia che il Cairo ha «sbagliato politica» sostenendo Haftar. Si registra in questi ultimi giorni un certo attivismo da parte dell'Arabia Saudita, che ha aperto un canale di dialogo diretto sia con il governo di Tripoli che con Bengasi attraverso il ministro degli Esteri, il principe Faisal Bin Farhan Al Saud, che ieri ha avuto colloqui con l'omologo tripolino Mohamed Siyala ma anche con Abdulhadi Lahweej, ministro degli Esteri dell'esecutivo della Cirenaica.La situazione militare sul terreno è di calma relativa da diversi giorni e fonti citate dall'Agenzia Nova non escludono che nei prossimi giorni possa essere raggiunto un accordo senza spargimento di sangue per consegnare Sirte alle forze di Tripoli, lasciando Jufra ad Haftar come «garanzia» per evitare un'avanzata verso Bengasi e sopratutto verso il terminal di esportazione petrolifero di Ras Lanuf, importante sbocco sul mare della ricca Mezzaluna petrolifera.Intanto, gli Stati Uniti cercano di tornare in pista (prima hanno condannato le ingerenze russe, ieri vertice del Pentagono e del dipartimento di Stato hanno incontrato i vertici del governo tripolino). L'Unione europea, invece, esprime «forte preoccupazione» per la dichiarazione del presidente egiziano e invoca il cessate il fuoco per favorire la ripresa dei negoziati. Sentimenti affidati a una dichiarazione piuttosto debole, figlia anche dell'imbarazzo di alcuni Stati membri: infatti, da una parte c'è un Paese membro della Nato (la Turchia), dall'altra un partner di molti Stati membri dell'Alleanza atlantica. A tal proposito, Ibrahim Kalin, portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha puntato il dito contro la Francia, accusandola di «mettere a rischio la sicurezza della Nato sostenendo Haftar». Ma Parigi non è la sola capitale europea a essere posta davanti a questo dilemma. Roma è in una situazione abbastanza simile, resa forse ancor più complicata da tre fattori: lo storico rapporto con Misurata, la Sparta libica alleata di Tripoli; l'ambiguità su Haftar; la recente vendita di due fregate Fremm di Fincantieri all'Egitto che ha sì permesso all'Italia di scavalcare la Francia come primo partner militare del Cairo ma ha anche generato qualche imbarazzo sul dossier libico (oltre a quelli per la nota vicenda di Giulio Regeni).Ieri, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, nel corso della conferenza stampa con l'omologo tedesco Heiko Maas, ha parlato di Libia, ribadendo che l'Egitto resta «un attore chiave» nella crisi in Libia «e non è un caso che come altri Paesi sieda al tavolo del processo di Berlino». Il capo della diplomazia italiana, reduce da un incontro in Turchia con l'omologo Mevlut Cavusoglu, ha ribadito l'importanza che la missione europea Irini, comandata dall'ammiraglio Fabio Agostini, sia «equilibrata e bilanciata» per far rispettare l'embargo sulle armi in Libia. «L'obiettivo che dobbiamo avere è rilanciare il processo politico di Berlino dopo la crisi pandemica, consapevoli della lentezza del processo diplomatico» rispetto alle dinamiche militari, ha detto. La situazione sul terreno in Libia «ci preoccupa molto», ha poi aggiunto Di Maio: il timore è che «le operazioni per la liberazione di Sirte possano portare a nuovi combattimenti e provocare altre vittime civili». «Difenderemo la Libia da ogni tentativo di partizione», ha aggiunto.Quella parola, «partizione», era al centro di un editoriale pubblicato una settimana fa sul quotidiano La Stampa firmato dall'ambasciatore Giampiero Massolo, già direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, dal 2016 presidente di Fincantieri e dal 2017 dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). «All'Italia, lo stallo e la partizione di fatto del Paese chiaramente non convengono. Per ovvi interessi che riguardano soprattutto la Tripolitania, ma anche, spesso sottaciuti, la Cirenaica — per i nuovi equilibri strategici e energetici nel Mediterraneo — e il Fezzan, per i flussi di persone da sud e i pericolosi insediamenti jihadisti», scriveva Massolo. L'ultima carta per l'Italia in Libia è la diplomazia bilaterale, spiegava: con la Turchia, con la Russia e con l'Egitto, con Francia e Germania e infine con gli Stati Uniti. «Potremmo riproporre loro la costruzione di un “formato" multilaterale nuovo, meno pletorico e più pragmatico, che rimetta in partita europei e americani e soprattutto che permetta di non escludere noi da ogni possibile sviluppo a venire. Insomma, stallo o non stallo, non è il momento di stare a guardare», concludeva l'ambasciatore. Consigli che richiedono una certa dose di equilibrismo ma che sembrano essere stati accolti dalla Farnesina, ben conscia dell'urgenza della crisi libica da cui dipendono temi decisivi per l'Italia immigrazione e approvvigionamento energetico.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco