2023-05-23
Ecovandali insopportabili? Occhio, è una strategia per blindare le follie verdi
Attivisti di Ultima Generazione in azione nella fontana di Trevi (Ansa)
Gli imbrattamenti di Ultima generazione e gruppi simili suscitano reazioni infastidite ma servono a dettare l’agenda e ad aumentare il consenso per il green «moderato».Ancora un’azione eclatante da parte di Ultima generazione, il gruppo di attivisti già noti alle cronache per le azioni moleste mirate a monumenti e opere d’arte, oltre che all’interruzione del traffico su strada. Vittima dell’annerimento delle acque nel nome del no al consumo di combustibili fossili è la fontana di Trevi a Roma. Questa volta tra i presenti al fatto si sono verificate reazioni nette, qualcuna decisamente inferocita. Tanto che viene da chiedersi sino a che punto azioni così disturbanti siano davvero utili alla causa difesa dai manifestanti.Il professor Colin Davis, docente di psicologia cognitiva all'Università di Bristol, si è fatto questa domanda e ha condotto lo scorso autunno uno studio (in via di pubblicazione) per verificare se l’impatto delle manifestazioni radicali sia controproducente rispetto al contenuto del messaggio portato dai manifestanti.Davis è partito da un precedente studio di Matthew Feinberg e Chloe Kovacheff dell’Università di Toronto con Robb Willer della Stanford University: «The Activist’s Dilemma: Extreme Protest Actions Reduce Popular Support for Social Movements», pubblicato nel 2020 sul Journal of Personality and Social Psychology, rivista scientifica dell’American Psychological Association. In questo studio i ricercatori hanno sottoposto a un campione di persone i resoconti di due diversi tipi di manifestazioni da parte di attivisti: azioni moderate e azioni estreme. Questa ricerca ha messo in luce il «dilemma dell’attivista»: i movimenti si trovano a scegliere tra compiere azioni moderate, che sono spesso ignorate e inefficaci, oppure azioni più estreme che attirano l'attenzione, ma possono essere controproducenti per i loro obiettivi poiché rendono detestabili i manifestanti. Con questi ultimi si creano livelli inferiori di identificazione sociale e di connessione emotiva, cosa che mette a rischio l’efficacia delle azioni dei movimenti.Partendo da questo studio, Davis ha strutturato la sua ricerca usando la tecnica del framing (inquadramento). Secondo la definizione di Robert Mathew Entman (1993), la tecnica del framing consiste nel selezionare alcuni aspetti di una realtà rendendoli più prominenti nel racconto, in modo tale da promuovere una certa definizione del problema, o una certa interpretazione causale, o una certa valutazione morale. È una tecnica ben nota a chi si occupa di comunicazione: le differenze, anche sottili, con cui un fatto viene presentato hanno un impatto rilevante sulla considerazione che ne hanno i cittadini. Davis ha quindi proposto a diversi campioni di volontari lo stesso fatto di cronaca riguardante azioni di Black Lives Matter o altri gruppi di attivisti, dando però un inquadramento (frame) di volta in volta positivo o negativo. Se il sostegno del pubblico a una causa dipende da come percepisce i manifestanti, allora un frame negativo dovrebbe tradursi in livelli inferiori di sostegno alle richieste.Il risultato della ricerca di Davis e del suo gruppo è stato invece che l’inquadramento negativo delle proteste radicali non ha influito significativamente sul sostegno alle richieste di quei manifestanti. Nello studio, molte persone non hanno gradito i metodi, ma ciò non ha diminuito il loro supporto alla causa sostenuta dagli attivisti. In pratica, odiare i manifestanti non cancella il supporto all’idea per cui si manifesta. Per usare le parole dello stesso Davis, la gente può anche sparare al messaggero, ma ascolta il messaggio.Le proteste intrusive di gruppi come Extinction rebellion e Ultima generazione raggiungono in effetti un doppio scopo. Il primo è che, nonostante la disapprovazione per i manifestanti, le proteste radicali aumentano la consapevolezza del problema perché, occupando spazio sui media, di fatto dettano l’agenda degli argomenti. Il resoconto di un’azione clamorosa, anche ipotizzando l’assenza di framing, forse non dice alla gente cosa pensare del fatto ma influenza ciò a cui la gente pensa: il fatto. La descrizione della protesta, anche in un frame negativo, veicola inseparabilmente il messaggio degli attivisti, che conquista nei media l’affollata ribalta della cronaca in virtù del clamore dell’iniziativa.Il secondo obiettivo che le proteste clamorose raggiungono, più nascosto ma non meno importante, è che la presenza di movimenti così radicali (Extinction rebellion, Ultima generazione) accresce il sostegno ai movimenti più moderati (Fridays for future, ad esempio), facendoli apparire più accettabili anche se di fatto dicono le stesse cose. Una sorta di gioco di ruolo con il poliziotto cattivo e quello buono. Si tratta di strutture di azione e reazione calcolati, che questi gruppi conoscono ed usano assai coscientemente. Non siamo davanti a un pugno di ragazzotti allo sbaraglio, ma a gruppi finanziati, organizzati e coordinati, con competenze di comunicazione e psicologia sociale. Declassare a pagliacciate le azioni di questi gruppi non è una buona strategia. Peraltro, se agli atti dimostrativi corrispondono reazioni violente, che iniziano a verificarsi qua e là verso gli attivisti, il rischio concreto è di farne dei martiri. La protesta fatta di messe in scena clamorose attorno ad obiettivi mediaticamente sensibili proseguirà ed anzi tenderà a crescere, grazie al fatto che l’agenda dei grandi media tenderà ad occuparsene sempre di più. La considerazione negativa attorno a questi episodi permarrà, ma ciò non lederà il sostegno alle cause sostenute, soprattutto perché una gran parte dei media ha sposato acriticamente l’Agenda green così com’è ed anzi se ne fa entusiasta portatrice.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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